Anche grazie ai social media, è difficile che oggi qualcuno di noi ignori la fenomenologia dello sterminio degli animali non-umani. Così come è difficile che, tra quanti ne veniamo a conoscenza mediante videoregistrazioni e fotografie, si resti del tutto indifferenti emotivamente. E poi? Cosa cambia nella quotidianità? Cosa nelle opzioni politiche, nelle pratiche professionali, nella fruizione di spettacoli, nelle abitudini alimentari? Poco o nulla. Per evitare questo scollamento fra il piano cognitivo-emotivo e il piano comportamentale sono possibili due vie principali.
La prima, di gran lunga più frequentata, prevede la beata smemoratezza: terminato il servizio televisivo sui macelli o chiusa la pagina web sugli allevamenti intensivi, si passa ad altro. D’altronde la storia individuale e collettiva non è certo avara di tematiche tragiche su cui spostare l’attenzione: dall’inquinamento ambientale ai conflitti bellici, dalle criminalità organizzate allo sfruttamento sessuale dei minori, dalla disoccupazione strutturale alle clamorose deficienze planetarie nell’assistenza sanitaria…Forse, un giorno, l’umanità potrà permettersi il lusso di interrogarsi sulle relazioni fra sé e gli altri animali. Non certo adesso.
C’è però chi ritiene che la questione animale costituisca non un capitolo a sé stante, isolato e isolabile, bensì una tematica trasversale a molte questioni ritenute prioritarie, dall’equilibrio ecologico alla salvaguardia di un livello medio di salute pubblica; e che, forse, la violenza della specie umana nei confronti delle altre specie animali costituisca una sorta di palestra per addestrarsi a tutte le altre forme di violenza (sessista, razzista, bellica…). Chi si convinca di ciò imbocca una seconda via, più impegnativa e dunque meno affollata, per ridurre lo scarto fra pensieri-sentimenti, da un lato, e azioni effettive, dall’altro: la strada di una riflessione critica approfondita che favorisca vere e proprie ‘con-versioni’ del proprio modo di vedere il mondo e di indirizzare, in conseguenza, le proprie opzioni etiche di fondo. Certo, anche in questa ipotesi, occorrerà fare i conti con le proprie resistenze psicoanalitiche e, ancor più semplicemente, con l’attaccamento ai molteplici vantaggi del dominio specista: ma, almeno, non si potrà contare sulla complicità di idee vaghe e di teorie nebulose.
Tra i numerosi testi che soccorrono in questa ‘re-visione’ complessiva si è inserito, con un timbro forte e originale, Animalia (Villaggio Maori Edizioni, Valverde-Catania 2020) di Alberto Giovanni Biuso. Il volume (che, detto per inciso, è molto curato dal punto di vista editoriale ed elegante tipograficamente) si impernia su alcuni teoremi intorno ai quali si snocciolano vari corollari.
Un primo asserto è di carattere metafisico-ontologico (illustrato in molti altri volumi del medesimo filosofo): l’essere – inteso come il vasto oceano di ciò che è – si dispiega nel gioco fra l’Identità e la Differenza. Tutto ciò che esiste (o, heideggerianamente, avviene) non è strutturato gerarchicamente, verticalmente, ma orizzontalmente: apparentato da una identità di base che non esclude, anzi rende possibile, un’irriducibile differenza fra essente ed essente. I medievali, sulla scia di Aristotele, avevano intuito questa dialettica e, per designarla, avevano inventato il vocabolo ‘analogia’: fra gli enti non v’è né assoluta identità (univocità) né assoluta differenza (equivocità), bensì una somiglianza che non esclude una dissomiglianza ancora maggiore. Solo che per i medievali questa analogia aveva fondamento e senso perché a Uno l’atto d’essere si poteva ‘attribuire’ per antonomasia, per eccellenza (analogato princeps), e ai molti, a tutti gli altri, solo per partecipazione parziale, quasi di riflesso (analogati secondari). Nell’orizzonte in cui si riconosce Biuso tutto è complanare: non c’è un Centro e, di conseguenza, non ci sono punti equidistanti (né… iniqui-distanti) dal Centro; l’Intero è il Non-fondato, l’In-fondato o, se si preferisce, ciò che si Auto-fonda sul rimando infinito delle sue ‘parti’.
Questa visione metafisico-ontologica (e passiamo così a un secondo punto fermo) esclude non solo qualsiasi ipotesi teocentrica (di stampo monoteistico: dall’ebraismo all’islamismo transitando per il cristianesimo), ma qualsiasi equivalente funzionale del teocentrismo come l’antropocentrismo (che ha raggiunto nei secoli XV-XIX, diciamo dall’umanesimo rinascimentale all’idealismo post-kantiano, la sua espressione insuperabile). Nell’universo policentrico né Dio né l’uomo occupano un posto privilegiato: dei e umani, così come ogni altra realtà effettiva o possibile nei cieli e sulle terre (“minerali, vegetali, animali”), costituiscono esempi di quella «ricchezza radiale di forme nelle quali la materia esplica la gratuita potenza del proprio esserci». L’unica centralità ammissibile può dunque essere riconosciuta alla Zoé, alla “vita universale” (“biocentrismo”) nella quale «non si danno gerarchie ma specializzazioni relative ai contesti».
Sulla base di questi due princìpi (analogicità strutturale dell’essere e biocentrismo) si comprende facilmente un terzo asserto: «non si danno salti epistemologici e ontologici tra l’umano e il resto del mondo animale, che è talmente differenziato da rendere del tutto inesatta la sussunzione dell’ampio essere animale sotto una comune e unica categoria, contrapposta alla parzialità umana. Il salto, semmai, si pone tra l’animalità differenziatamente intesa e il macchinico».
Ogni antropologia che marchi, sin dall’inizio, l’estraneità dell’essere umano rispetto alla dimensione animale è dunque erronea teoreticamente e, di conseguenza, disastrosa operativamente. Da quando si concepisce – e sino a quando si concepirà – come altro rispetto alla famiglia animale cui appartiene,
«l’umano è da solo una ragione di dolore continuo, di vero e proprio orrore, per le altre specie viventi, “compresi i miliardi che vengono messi al mondo ogni anno solo per essere maltrattati e uccisi per il consumo o per altri usi”. Come è facile constatare e sapere, se lo si vuole sapere, “ogni anno, gli esseri umani infliggono sofferenze a miliardi di animali che vengono allevati e uccisi per fornire cibo e altri prodotti utili per la ricerca scientifica. Poi ci sono le sofferenze inflitte agli animali il cui habitat viene distrutto dagli uomini usurpatori, quelle provocate dall’inquinamento e da altri danni all’ambiente, e quelle gratuite, dovute alla pura cattiveria. Benché vi siano molte specie non umane – soprattutto carnivore – che provocano molte sofferenze, gli esseri umani hanno la disgraziata peculiarità di essere la specie più distruttiva e dannosa della terra” (Benatar)».
Intorno a questi ‘teoremi’ (ma forse l’autore ne considererebbe anche altri) gravitano vari ‘corollari’ che potranno intrigare più o meno ogni lettore anche sulla base dei suoi interessi professionali: ad esempio la critica alla “sperimentazione animale” che, secondo anche medici esperti, «i ricercatori e le autorità dovranno trovare il coraggio di saltare»; o, ancora, la luce che un’antropologia “etologica” può gettare sull’analisi delle dinamiche socio-politiche, invitando a un disincantato realismo nella misura in cui evidenzia la tendenza negli umani a trasformare – per riprendere Spinoza – la potentia (“il ‘potere di’ fare qualcosa”) in potestas (il ‘potere su’ qualcuno o qualcosa”), l’aggressività (fisiologica e salutare) in violenza (patologica e disastrosa), la fierezza in tracotanza.
Da questi sia pur brevi cenni si evincono la rilevanza e la ricchezza contenutistica di Animalia, volume a cui, se qualcosa si può rimproverare, è di voler dimostrare troppo. Provo a spiegarmi. Come accennavo in apertura, vedo l’estrema necessità di pagine che affondino il bisturi sino alle radici dello specismo genocida contemporaneo: e a Biuso non difetta certo questa intenzione di radicalità. Tuttavia, per ragioni per così dire strategico-pedagogiche, ritengo che in questo genere di imprese sarebbe opportuno distinguere i tabù da abbattere dalle motivazioni per cui riteniamo che si debbano abbattere e soprattutto dalle alternative che proponiamo. Mi limito a una sola esemplificazione, ma cruciale: la “pratica antropodecentrica” che l’autore suggerisce come «superamento del paradigma vetruviano – la perfetta figura umana dentro un cerchio”».
Che l’essere umano debba essere rapidamente spodestato dal trono in cui si è insediato, e dal quale semina arbitrariamente sofferenze e morte, è indubbio. È opportuno che questa operazione venga accompagnata da argomentazioni teoretiche più ampie e profonde? Certamente. È opportuno che, nell’offrire tali argomentazioni, si induca il lettore a capire che ci stiamo spostando dal piano dell’evidenza incontrovertibile (lo spodestamento del re abusivo) al piano delle ragioni più o meno plausibili, comunque non altrettanto cogenti? Anche a questa domanda risponderei affermativamente. Ma è proprio questa differenza di piani, di registri argomentativi, che non ho colto nel discorso di Biuso. Così esso si offre, un po’ monoliticamente, come un pacco ben confezionato da accettare o da rifiutare in blocco. Col rischio, purtroppo assai probabile, che – insieme alle sue tesi problematiche – vengano respinte dal lettore anche le sue tesi più cogenti.
Resto sul punto: la critica all’antropocentrismo (almeno dell’antropocentrismo dispotico che non riconosce a un’eventuale preminenza della specie umana una proporzionalmente maggiore responsabilità etica nei confronti degli altri fratellini animali) mi pare agevolmente condivisibile. Ma essa è davvero inscindibile dal materialismo ontologico, dalla critica a ogni monoteismo, persino dalla “posizione estinzionista”, per cui l’unica possibilità di sopravvivenza per il nostro pianeta sarebbe l’estinzione dell’umanità grazie al progressivo rifiuto della procreazione riproduttiva? Oppure si può essere ‘de-antropocentrici’ anche se non si sposa il riduzionismo fisicista di chi ritiene (anche in contrasto, mi pare, con altri passaggi dello stesso volume dove si afferma con forza l’inscindibilità del corporeo e del mentale, del fisico e dello psichico) che «tutti i fenomeni tangibili, dalla nascita delle stelle al funzionamento delle istituzioni sociali, sono fondati su processi materiali in ultima analisi riconducibili alle leggi della fisica» e che «ogni mente individuale a sua volta è il prodotto del cervello umano» (Wilson)?
Anche se non si sposa l’assurdismo à la Sartre per cui «la nostra unicità e dignità nell’universo» si rivelerebbe «una insignificante goccia di vita nel volgersi eterno e senza scopo delle galassie»? Anche se si dissente dalla tesi di David Benatar che non essere mai nati sia preferibile al dolore di venire al mondo e che, perciò, per “le brave persone”, «l’unico modo sicuro per evitare ogni sofferenza ai loro bambini è non metterli al mondo»? Lo ribadisco per evitare anche solo l’ombra di un malinteso: che Biuso decida di esplicitare presupposti e conseguenze del suo anti-specismo è non solo legittimo, ma anche lodevole (in filosofia, quando si parla di qualcosa non si può evitare di parlare del Tutto). Solo che, se avesse distinto il bersaglio polemico principale dagli obiettivi secondari della sua contestazione teoretica, avrebbe potuto allargare la platea dei lettori consenzienti. Invece così rischia di limitarsi a dialogare con chi abbia il tempo, gli strumenti e la voglia di discernere, pagina dopo pagina, ciò che è certo da ciò che è più o meno probabile. Ma forse è proprio il genere di lettori che egli predilige.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è fondatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018).
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