il centro in periferia
di Maria Gabriella Da Re
Ho scoperto solo da poco alcune cose su Nando Cossu (1943-2022), recentemente scomparso, personaggio schivo, comunista e dirigente del PCI. Non è stato solo l’ideatore e fondatore del “Museo del giocattolo tradizionale della Sardegna” e l’instancabile e appassionato ricercatore di ‘medicina tradizionale’ nella Sardegna agropastorale, di cui parleremo, ma si è occupato anche d’amore, di matrimonio e di sessualità (L’amore negli occhi, 2014). E ha scritto un volume di racconti (Racconti di terra e laguna, Sassari, Carlo Delfino, 2018) ambientati nel Sinis, la zona degli stagni di Cabras, suo paese natale, al quale ha dedicato nel 2022 la sua ultima pubblicazione, Al tempo del maiale, sempre per i tipi di Carlo Delfino.
Gli amari giocattoli di Zeppara (Ales)
“Se vuoi rivivere un po’ i giochi del passato, questo è il museo ideale.
Se vuoi far riscoprire la manualità ai tuoi bimbi, questo è il posto giusto.
Se semplicemente vuoi vivere una giornata senza la tecnologia, alla scoperta dell’ingegno umano, vai al museo del giocattolo tradizionale.
Un’esperienza che godrai al 100%, a prescindere dal perché lo scegli, non sarai mai deluso/a”.
Il “Museo del giocattolo tradizionale della Sardegna”, creato e fondato da Nando Cossu, ha avuto sempre molto successo fin dalla sua apertura (2002), come dimostra la bella recensione di un visitatore, tratta dal sito del museo. Navigava in acque tranquille fino al 2015, quando è scoppiato un duro conflitto tra Cossu, i suoi collaboratori locali da un lato e l’amministrazione comunale di allora dall’altro, conflitto che, oltre alla malattia che l’ha colpito, ha amareggiato i suoi ultimi anni.
Ma torniamo indietro. Come è cominciato tutto? Cossu ha raccontato la storia del museo in un testo del 2002, scritto in occasione dell’inaugurazione e forse destinato a un quotidiano locale (e perciò scritto in parte in terza persona). Egli parla di «nuova apertura» perché fino al 2002 la collezione dei giocattoli era esposta e gestita dalla Scuola Media Statale di Ales:
«Sabato primo aprile, alle ore 15,30, a Zeppara, frazione di Ales, si terrà la nuova apertura del MUSEO DEL GIOCATTOLO TRADIZIONALE DELLA SARDEGNA. Riteniamo opportuno descrivere una breve storia assieme alle caratteristiche di questo Museo, per chi non lo conoscesse.
Nell’anno scolastico 1993/94 al professor Nando Cossu, insegnante di Lettere presso la Scuola Media Statale di Ales, venne assegnata una classe a tempo prolungato, che prevedeva due rientri pomeridiani di tre ore ciascuno, in aggiunta al normale orario curricolare della mattina.
Si trattava di una classe di 22 alunni, vivace ma gestibile, per la quale si poneva soprattutto il problema delle attività da svolgere nei due rientri pomeridiani. Infatti non era pensabile far lavorare i ragazzi nelle stesse discipline curricolari del mattino. Dopo diversi tentativi che richiesero tutto il mese di ottobre, si giunse ad individuare come attività proponibile alla classe quella sui giocattoli tradizionali.
Acquisita la disponibilità a collaborare da parte delle famiglie dei ragazzi, in particolare gli anziani, si è avviato il lavoro di ricerca e di recupero dei giocattoli tradizionali.
La prima valutazione dei risultati conseguiti fino alle vacanze di natale fu a dir poco incoraggiante, per cui, a gennaio incontrammo le famiglie per informale sull’importanza della loro collaborazione e si riprese il lavoro con vero e proprio entusiasmo.
Alla fine dell’anno scolastico, giugno 1994, i giocattoli tradizionali recuperati furono talmente tanti che decidemmo di allestire una mostra nei locali dell’Istituto tecnico industriale di Ales. A visitare questa mostra vennero anche le professoresse dell’Istituto di Tradizioni popolari dell’Università di Cagliari nelle persone di Enrica Delitala e Anna Lecca. Queste, felicemente sorprese della dovizia dei materiali raccolti, inviarono una lettera al Preside, Marco Ledda, invitandolo a metterci nella condizione di continuare il lavoro di ricerca e di recupero, garantendo il supporto del loro istituto per tutti gli aspetti di carattere scientifico.
Non potevano darci più forte incoraggiamento. Seguirono altri due anni di lavoro intenso, soprattutto, questa volta, da parte dei ragazzi, che hanno partecipato tutti indistintamente e, ovviamente, ciascuno con le proprie capacità, alla costruzione di quella /che/ allora era soltanto la mostra dei giocattoli tradizionali della Sardegna.
Questa mostra, sotto la certificazione dell’Istituto di Tradizioni popolari dell’Università di Cagliari, fu inaugurata proprio a Cagliari, nella passeggiata coperta del bastione di Saint Remy nel mese di maggio del 1996. Fu un successo incredibile: le firme nel registro dei visitatori registrarono circa 25 mila visitatori in quindici giorni.
La collezione dei giocattoli mantenne la caratteristica di mostra itinerante, gestita dalla Scuola Media Statale di Ales per circa tre anni, poi, viste le difficoltà di gestione da parte della scuola, fu ceduta al comune, con l’impegno che avrebbe fatto di tutto per valorizzare quei giocattoli con la creazione di un museo. In questo modo nasce il MUSEO DEL GIOCATTOLO TRADIZIONALE DELLA SARDEGNA».
Non voleva fermarsi qui Nando, come anticipa la scheda del museo nel sito della Simbdea [1]:
«Oltre a migliorare l’esistente, l’obiettivo che il Museo si propone di perseguire in prospettiva è quello della realizzazione del progetto “Zeppara paese dei balocchi”, ideato dal prof. Nando Cossu, antropologo e collaboratore scientifico.
Il progetto preliminare è stato già sottoposto all’attenzione dell’Assessorato competente.
Tutto il contesto di Zeppara, per la sua collocazione nel territorio, per le sue dimensioni (circa 200 abitanti), per lo stato di conservazione delle tipologie architettoniche tradizionali, si presta ad un intervento che consenta di realizzare un vero e proprio paese-museo.
Inoltre il Museo si prefigge di potenziare la ricerca scientifica sia attraverso la prosecuzione della ricerca sul campo a livello regionale in collaborazione con le università, sia con la costituzione di un centro di studi e attività didattica con incontri fra culture diverse».
Cossu aveva anche creato il sistema espositivo che in una Raccomandazione del 2015 [2], scritta a sostegno della sua battaglia, viene valutato positivamente dalla SIMBDEA
«Il sistema espositivo è basato sugli stessi materiali con cui tradizionalmente si costruivano i giocattoli (canne e legno) a cui si aggiungono pannelli di cartongesso destinati ad essere decorati con rappresentazioni dei giochi. La leggerezza e la linearità sono la cifra di questo originale allestimento, che per volontà della stessa amministrazione è stato tutelato da brevetto depositato. I giocattoli sembrano appesi nel vuoto, la collezione delle bambole di pezza si è trasformata in una galleria di ritratti naif di donnine, i cavallini di legno richiamano la leggerezza di Maria Lai».
L’anno precedente, 2014, il museo non aveva ottenuto il riconoscimento da parte della Regione Sardegna, previsto dalla Legge Regionale del 2006, complessivamente una buona legge che definiva come obbligatori degli standard formali di alta qualità per tutte le strutture museali che volessero ottenere dei finanziamenti. Credo che il non riconoscimento fosse dipeso soprattutto dall’assenza di personale formalmente qualificato previsto dalla legge. Nel 2015 il Comune di Ales, forse approfittando di questa situazione, su progetto dell’Ufficio Tecnico, che non si era avvalso di nessuna competenza specifica, ottiene dalla RAS un contributo «per il miglioramento degli allestimenti, delle aree di accoglienza e di servizio del Museo». Il progetto, oltre ad interventi d’importanza minore, prevedeva il cambiamento di parti dell’allestimento creato da Cossu e tutto ciò senza che questi, che collaborava fin dalla fondazione come collaboratore scientifico volontario (in realtà lo dirigeva informalmente), venisse minimamente consultato. Il progetto del Comune colpiva al cuore l’allestimento, cercando di eliminare per quanto possibile proprio quelle parti realizzate con materiali (corda in canapa, ferro battuto, legno e cartongesso) che s’integravano, secondo il loro ideatore, con quelli (canna, olivastro, asfodelo, fico d’india) con cui gli alunni di Nando e le loro famiglie avevano costruito a suo tempo la maggior parte dei giocattoli. Le volevano sostituire, come afferma un documento del Consorzio Cooperative Sardegna e Natura [3], l’ente affiliato a Lega Coop che gestiva il museo, «con elementi moderni e di tipo commerciale (materiali plastici, alluminio, acciaio) che a nostro parere e di altri illustri soggetti andranno a snaturare la coerenza espositiva del percorso museale». Il gestore «al fine di consentire il mantenimento dell’allestimento originario del Museo del giocattolo tradizionale della Sardegna, ha donato ufficialmente al Comune di Ales tutti gli arredi di sua proprietà, ma l’Amministrazione Comunale ha preferito proseguire nella sua linea non accettando la donazione».
Il conflitto era ormai arrivato a un punto morto, tanto che gli arredi furono offerti gratuitamente «ad altre istituzioni culturali (musei, associazioni, fondazioni) o ad altri soggetti interessati che possano e intendano valorizzarlo senza fini speculativi». Era quasi una provocazione, e non so che esito abbia avuto. Seguirono articoli sui quotidiani, coinvolgimento del sindacato e della Simbdea, sit-in di fronte al museo per difendere non solo l’opera di Nando Cossu, ma anche i posti di lavoro che il museo e la sua gestione avevano creato. Tutto andò avanti fino al 2018 con periodi di chiusura del museo. L’amministrazione era intanto cambiata, ma il conflitto permaneva. Un altro ente vinse l’appalto per la gestione con altro personale e Nando diede le dimissioni definitive da collaboratore scientifico volontario e così fece la guida del museo legata a lui, il quale non accettò il nuovo contratto di lavoro che a suo avviso ridimensionava il suo ruolo oltre che il suo stipendio.
Così finisce la storia, la prima parte della storia del “Museo del giocattolo” del paese dove è nato Antonio Gramsci. Non so dire nulla di come funziona e dell’allestimento attuale. Avevo preso l’impegno con Nando di interessarmi ancora. Ma ero stanca e, a dirla tutta, non avevo mai capito a fondo le ragioni del conflitto. Tutto era sempre avvolto nella nebbia del non detto o detto a metà, soprattutto da parte delle varie amministrazioni comunali e degli uffici regionali. Mi disturbava anche l’evidente mescolanza in tutta la vicenda di contrapposizioni di ordine culturale e di schieramento politico e sindacale. Alcuni punti mi erano tuttavia chiari e mi davano sicurezza, derivando da documenti e raccomandazioni dell’Icom e della Simbdea. Le amministrazioni locali non possono elaborare progetti museografici senza la consulenza di persone preparate nel settore scientifico cui il museo fa riferimento e la Regione non deve accettarli. Inoltre gli allestimenti dei musei ‘storici’ – e il Museo del giocattolo lo era – in nessuna parte del mondo vengono stravolti. Li si lascia come sono, testimoni di se stessi, di un’epoca, di una esperienza.
Essendomi personalmente schierata a fianco di Nando, forse non sono la persona più adatta a raccontare i fatti e a giudicare questa brutta storia che andrebbe ricostruita in modo più puntuale di quanto io sia riuscita a fare. Dopo sette anni e il confronto con molte persone mi sono fatta l’idea che Nando e tutti quelli che l’hanno sostenuto (la CGIL, la SIMBDEA e altri) avessero ragione nel merito. Il metodo era sbagliato e la forza del potere politico e amministrativo comunale e regionale ha avuto la meglio. Non so se la ricerca del compromesso e il riconoscimento che qualche errore di gestione era stato commesso, avrebbero pagato. Ho sperimentato di persona l’arroganza e l’ipocrisia del fronte a noi contrapposto. E ho visto anche il dolore di Nando di fronte alla chiara volontà di estromettere lui e i collaboratori locali da lui addestrati dalla sua ‘creatura’ e dai suoi progetti futuri.
Chi si occupa di musei sa che tutto ciò è pane quotidiano. La storia non ha niente di nuovo. È una delle tante in Italia, dove è frequente il conflitto con i sindaci che cambiano, chiudono, riaprono e via pasticciando. Anche i museografi dovrebbero imparare, io per prima, a non pensare ai loro musei come ‘figli’, a tagliare il cordone ombelicale che li lega a quei musei che per anni sono stati parte delle loro vite. Anche se talvolta i risultati sono pessimi.
Parlando di Nando Cossu, non possiamo trascurare del tutto la sua ricerca sulla “medicina tradizionale” in Sardegna, una ricerca che è durata quasi vent’anni e certamente gli ha dato meno problemi del museo. Non ho mai fatto ricerca sulle malattie e i sistemi di cura locali. La mia lettura dei testi di Cossu è legata alle mie passioni, la parentela e le rappresentazioni del corpo e della riproduzione sessuale. Di qui la scelta di mettere in evidenza alcuni temi piuttosto che altri.
Per la quantità e la qualità delle informazioni che ha raccolto sul tema della salute, la malattia, il corpo e la cura nella Sardegna rurale, Cossu ha dato, secondo me, un contributo importante alla conoscenza di quel mondo che andava sfaldandosi già al tempo (i primi anni ottanta) in cui cominciasse la sua ricerca con la supervisione di Enrica Delitala. Ha intervistato personalmente più di 500 guaritori e guaritrici e di più di 600 ha avuto notizie indirette, coprendo nel tempo tutta la Sardegna. Solo una numerosa équipe di ricerca avrebbe potuto fare altrettanto.
Conosceva molto bene l’Isola, Nando, in particolare la zona di Oristano, dove era nato e di cui conosceva perfettamente la lingua, la variante campidanese del sardo, e dove ha insegnato per tutta la vita. All’oristanese è dedicato soprattutto il primo dei due libri, Medicina popolare in Sardegna (1996), con la presentazione di Enrica Delitala. La povertà di contadini e pastori, la durezza dei rapporti tra dipendenti e padroni, i brevi racconti di vita, malattie e cure, registrati in sardo e tradotte in italiano, non lasciano spazio a visioni edulcorate del mondo rurale dell’Isola nella prima metà del Novecento. È il contesto in cui si colloca il senso della vita, della malattia e della cura attraverso terapie cui avevano accesso tutti quelli che non solo non potevano andare dal medico per ragioni economiche, ma che avevano anche più fiducia nei guaritori e guaritrici locali con i quali condividevano le idee su quegli aspetti cruciali della vita.
Sangue e cuore. Identità singole e di gruppo
Uno degli aspetti più interessanti del primo volume di Cossu è il tema delle caratteristiche fisiche e psichiche di base degli individui (1996: 53-59). Tutte le persone sono classificate localmente in base al tipo di sangue che scorre nelle loro vene: sangui fotti, sangui dibili, sangui druci. «Sangui fotti è uno che è forte di cuore e sano di tutto dentro», così un testimone (Ivi: 53). Sangui fotti indica anche l’emotività di una persona che è meno scossa dagli eventi della vita di quanto lo sia l’individuo con sangui debili, che «è debole di tutto, ha la pressione bassa e soffre di ogni forma di debolezza» (Ivi: 54). Questi sono anche facili allo spavento (s’assichidu), causa di numerose malattie gravi. Sangui druci sono le persone sensibili alle punture d’insetti, che in zone malariche non è condizione desiderabile. Il tipo di sangue non definisce solo le condizioni fisiche, come si vede. Riguardano il rapporto con la realtà esterna visibile e invisibile. Ad esempio, riporta Cossu, «Alcune informatrici mi hanno riferito che chi è di sangue dolce vede facilmente spiriti e persone defunte» (Ivi:54, nota 18).
Oltre alle classificazioni individuali esistono localmente anche quelle di genere: «le donne risultano complessivamente più sane degli uomini, perché sa femmina è prus cori fotti, più tenace e battagliera nelle vicende della vita» (Ivi: 59-60). La condizione fisica non è pensata come autonoma. Cori fotti fa riferimento, similmente a sangui fotti, alla «fermezza e lucidità in circostanze particolarmente difficili in opposizione a cori druci (cuore dolce), con cui s’indica una persona debole di carattere […]» (Ivi: 59-60, nota 44). Anche le classi sociali hanno una loro salute e loro malattie peculiari. La ricchezza non è garanzia di salute e l’attaccamento ai beni materiali genera tensioni e malattie specifiche. In generale i ricchi hanno una tempra meno resistente perché fatti oggetto fin da bambini di troppe attenzioni. Il corpo, la salute e la malattia, il cuore e il sangue forti sono per i contadini sardi il risultato, non solo della volontà di Dio, e soprattutto di quella di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi, ma anche di azioni pratiche. Non si deve dare troppo zucchero ai bambini se si vuole che non diventino cori druci. I figli dei ricchi, come si è detto, sono più fragili perché tenuti troppo in braccio. A Nureci, uno dei paesi studiati più a fondo, si dice che sono segaus de brazzu (rotti dal braccio che li tiene) (Ivi: 59), mentre i figli dei poveri sono più forti perché vengono pesaus de sa terra che Cossu interpreta così: «[…] presi raramente in braccio e costretti molto presto alla fatica e allo sforzo di muoversi da soli strisciando sul suolo» (Ibidem).
In tutta la prima parte del primo libro è avvenuto un fertile incontro tra l’autore e i guaritori o le guaritrici o le persone comuni che Cossu ha ascoltato e le cui parole ha riferito puntualmente, raggiungendo importanti risultati antropologici. Egli riesce così a dare quel contributo che secondo Gianni Pizza è proprio dell’attuale antropologia medica: «[…] liberare la nozione di “corporeità” da un’esclusiva concettualizzazione biologica fornendo gli strumenti per una “denaturalizzazione” di quelli che appaiono oggetti “naturali”: corpo, salute e malattia non appartengono a una dimensione ritenuta autonoma dai contesti storici, sociali, culturali e politici. Il corpo è osservato come prodotto storico» (Pizza, 2005: 19).
La seconda parte, Patologie, traumi, sintomi e stati critici, pur contenendo pagine ricche di annotazioni importanti frutto di un dialogo fecondo con gli informatori, è invece fragile come impostazione generale. Cossu organizza il magmatico materiale etnografico delle patologie locali entro un lessico fornito dalla biomedicina e più precisamente entro le denominazioni ufficiali delle parti del corpo, creando con l’aiuto di alcuni medici una presunta corrispondenza tra un mondo e l’altro. In realtà stabilisce una gerarchia tra le due medicine, dato che il lessico anatomico ufficiale con il quale Cossu crea l’indice, funziona da chiave di lettura dell’altro lessico, o del lessico ‘altro’, creando la sua subalternità.
Proporrà più o meno la stessa classificazione generale delle malattie nel secondo testo, A luna Calante del 2005, (con la presentazione di G. Angioni), dedicato a valutare la vitalità della “medicina tradizionale”, la quantità di guaritrici (meìgas, la maggior parte) e guaritori (frebottus) operanti in tutta l’Isola, di cui riporta lunghi e preziosi elenchi di nomi, cognomi e paesi. I racconti dei modi di trasmissione del sapere e i rapporti con i medici e i sacerdoti, sono tra i temi più interessanti e meno condizionati dalla medicina ufficiale, temi già presenti nel primo libro, ma in modo più sintetico e meno sistematico.
Gli antropologi che s’interesseranno in futuro di saperi medici locali in Sardegna non potranno che fare riferimento ai due testi di Nando Cossu. Aggiornando certo i quadri teorici e metodologici, ma cogliendo quanto di profondo c’è nei suoi scritti.
In conclusione
Ho voluto dare conto della ricerca di Nando Cossu nonostante i due temi, i giocattoli e la ‘medicina tradizionale’, sembrano andare in direzioni opposte. L’ho voluto per creare un piccolo ritratto a tutto tondo di questo ricercatore, che nel corso della sua vita ha mostrato una passione per la ricerca e una pazienza nel portarla avanti non sempre riscontrabile in ambienti universitari. Ha portato la ricerca sui giocattoli dentro la scuola e l’attività didattica e da questa esperienza è nato un museo comunale. Ai miei occhi questo percorso dal basso è un modo esemplare di far conoscere il patrimonio di un popolo restituendolo al popolo stesso.
I due ambiti, pur così lontani tra loro, hanno diversi elementi in comune cui voglio fare cenno. Il primo e più evidente è che entrambi gli aspetti della vita sono legati a saperi che si esprimono attraverso pratiche concrete, fare giocattoli, giocare, fare la medicina. Si tratta di saperi un tempo diffusi in tutta la comunità. Anche i bambini sapevano come comportarsi per curare piccoli malanni e questi saperi si basavano sulla conoscenza del mondo animale, vegetale e minerale di cui si sfruttavano le proprietà con sapienza. Solo le malattie più gravi e complesse avevano bisogno dei guaritori. Il gioco e la ‘medicina tradizionale’, infine, sono mondi di regole, di parole, di testi formali che s’imparano da qualcun altro più grande e più esperto.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] “Museo del giocattolo tradizionale della Sardegna – L’attività e gli obiettivi”, in Simbdea.it, Musei.
[2] Simbdea, “Raccomandazione alla Regione Autonoma della Sardegna, Assessore della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport e Direzione Generale dei Beni Culturali; alla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Cagliari e Oristano; all’Istituto Superiore Etnografico della Sardegna” in Simbdea.it, Archivio, 2015.
[3] Consorzio Cooperative Sardegna e Natura, “Offerta allestimenti museo del giocattolo”, documento s.d.
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Maria Gabriella Da Re, già professore associato di antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Cagliari, ha svolto la sua ricerca sul campo in diverse comunità della Sardegna rurale. Ha affrontato temi relativi alla storia della cultura materiale, alla divisione sessuale del lavoro, alla parentela e al sistema ereditario. Si è occupata di antropologia museale, curando in particolare il museo etnografico di Armungia, Sa domu de is ainas (La ‘casa’ degli attrezzi), inaugurato nel 2000. Tra le pubblicazioni recenti la cura del volume collettaneo Dialoghi sulla natura in Sardegna. Per un’antropologia delle pratiche e dei saperi, Firenze, Olschki, 2015.
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