di Valeria Dell’Orzo
Tra i molti fenomeni che attraversano e rimescolano la realtà sociale contemporanea trova uno spazio, di forte portata emotiva e di grande clamore mediatico, la rivoluzione sentimentale. La possibilità di slegarsi dalle imposizioni culturalmente diffuse e di dare a sè stessi la sana autonomia che l’individuo deve potere avere all’interno della sfera del proprio strettissimo sentire ha preso il sopravvento, ha rivoluzionato il mondo del subìto e taciuto, del nascosto e sofferto, lo sta progressivamente trasformando nelle forme della libertà, sia pur chiusa tra gli argini comunitari che il singolo in ogni caso gestisce all’interno della struttura sociale nella quale nasce e agisce, quella dell’incontro e delle scelte condivise che vede la sua unità molecolare nella relazione tra due persone impegnate in un comune percorso di vita.
Il millenario, spesso forzato e sempre più estenuato, equilibrio che ha retto la famiglia, e ancor prima la coppia, basilare nucleo particellare di ogni comunità, ha progressivamente cambiato forma, si è riplasmato su un principio di aperto respiro che include la possibilità di non accettare più un rapporto, o di dichiararne e viverne uno, secolarmente taciuto, con la serenità della libera scelta affettiva. Il concetto di famiglia si muove, passo dopo passo, verso il riconoscimento della pluralità di forme e di realtà umane che le appartiene, svincolate dalla rigidità di un modello secolarmente e tradizionalmente imposto, riconosciute o meno dalla giurisprudenza, regolamentate o in tumultuoso stallo normativo, portando con sé la riformulazione dei rapporti interpersonali e degli equilibri interni al suo nocciolo.
Il percorso giuridico che ha ammesso la legittimità di porre fine a un rapporto matrimoniale, pur continuando a mutare nei particolari che ne regolano l’applicazione, si è concluso, in Italia, il primo dicembre del 1970, con l’introduzione della legge sul divorzio, che verrà formalmente seguita, dopo undici anni, dall’abrogazione della rilevanza penale del delitto d’onore, che dal 5 settembre 1981 dichiarava non più legittima l’attenuante prevista dal Codice Rocco, codice penale di dichiarata matrice fascista, entrato in vigore nell’estate del 1931, nei casi di omicidio a seguito di adulterio, vero o presunto, e dunque disonore del coniuge, quasi sempre uomo, che ne traeva la possibilità di pagare con pene minime l’uccisione della consorte, non fedele o indesiderata.
Sono trascorsi oltre quarant’anni, dunque, dall’introduzione giuridica del divorzio, anni che non sono però bastati, a fronte di secoli di diffusa, consolidata, culturalizzata recinzione della libertà, a interiorizzare, nella coscienza non sviluppata di alcuni o di molti, l’effettiva legittimità di una separazione dal partner, che avvenga o meno all’interno del matrimonio, l’effettiva presenza cioè di quella variabile che non garantisce più il pieno potere e la permanenza indiscussa nel rapporto, che ancor più si rende, per menti insane e prive di cultura socioaffettiva, inspiegabile, inaccettabile e dunque da punire.
Il susseguirsi meccanico degli innumerevoli femminicidi, termine che accende continue polemiche ma che rappresenta l’esatto sentire dei colpevoli, uccisori non di donne, non di persone, ma di femmine nel senso più grettamente sessista, è una realtà battente della cronaca di ogni giorno, anagraficamente trasversale, non geolocalizzata e slegata da appartenenze di status professionale: segno chiaro di una frustrazione diffusa e incontrollabile, profondo male contemporaneo, epifenomeno di una diffusa e rovinosa assenza di educazione familiare e istituzionale, che sfocia nella mancata capacità di agire in maniera sana nella vita privata come in quella collettiva, non soltanto secondo le regole dello sviluppo normativo ma principalmente secondo quelle della evoluzione culturale che caratterizza l’uomo in società e lo distingue dal criminale.
Quasi sempre colpevoli di non voler più accettare in silenzio lunghi maltrattamenti domestici, fatti di abusi e vessazioni, di umiliazioni e di paura, colpevoli di non volere sottostare all’anacronistica, ingiustificabile, millenaria dipendenza dal partner, o ree semplicemente di non voler portare avanti una relazione che non le rende più felici, decine di donne vengono giustiziate per mano di coloro che ritengono di esserne gli indiscussi possessori, impauriti e quindi difensivamente violenti di fronte alla libertà che si dipana lì dove la tradizione l’aveva invece incatenata, violenti nella difesa del proprio, presunto, ruolo sociale che vedono minato dall’altrui libertà. Incapaci a gestire i sentimenti, sprovveduti nella comunicazione degli affetti, poveri di parole fino all’afasia, sono figli di una realtà sociale e istituzionale che non è riuscita a portarli oltre i limiti dell’indottrinamento del possesso e della violenza nella quale danno sbocco all’affannoso, cieco, tentativo di cancellare un’evoluzione che li turba, urtando sui loro secolari assiomi relazionali. L’esercizio della violenza è un surrogato a quello della parola. «La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci», ha scritto Asimov (1995:77).
La rivoluzione affettiva che affranca i partner dal giogo di un rapporto non più voluto, spesso già sfociato nella violenza, investe di pari passo il processo di ricostruzione culturale del concetto stesso di legame, di famiglia. Assopiti dallo scorrere ritmico dei sottotitoli dei telegiornali si assiste con occhi privi di stupore all’avvicendarsi di violenze fisiche e morali, osservatori indignati e immobili di fronte all’analfabetismo sentimentale che pervade la nostra società. Si rimane più facilmente in balia degli scalpori strumentalizzati della politica che, sull’onda emotiva della propaganda, nega o difende i diritti della famiglia nella sua più umana e completa pluralità di forme, incentrata su quel nucleo imprescindibile che altro non è che il legame libero che la fonda e la tiene unita.
Libero come dovrebbe essere da schematismi e imposizioni esterne, il rapporto sentimentale rivendica in tutte le sue forme un pari riconoscimento sociale, culturale e giuridico. Nascono così innumerevoli movimenti, dichiaratamente o silenziosamente politicizzati, volti a intervenire nella costruzione culturale di questa trasformazione della società. Militarmente schierate le moderne Sentinelle in piedi manifestano attraverso l’alternarsi di statiche parate e sporadici commenti di profonda violenza verbale e di scintillante, ingenua, incoerenza: detentori, autodichiarati, di un vero e unico senso possibile di ruoli e famiglia, si mobilitano nella lotta sociale per il diritto alla libertà di espressione, la loro, che nega l’altrui sentire o più vilmente lo relega ai margini di una deviazione da tollerare purché venga tenuta ben nascosta agli occhi pubblici della società e privata di garanzie giuridiche. Vigilano affinché si mantenga un’innaturale staticità socioculturale, una arretratezza che è non conoscenza della bellezza e della ricchezza della varietà umana e relazionale. Manifestano per tutelare quella che definiscono famiglia naturale, fondata sull’unione tra uomo e donna, un baluardo convenzionale e artificiale che contrappongono quindi alle tante famiglie per loro innaturali, così da perdere di vista il senso vero dell’immagine che credono di difendere. Rivendicano il diritto di impedire che altri possano esercitare la propria libertà, impongono con forza le loro certezze, figlie di paure e pregiudizi accatastatisi nel tempo.
Non cogliere, non riconoscere, l’arricchimento della dignità e dell’emancipazione altro non è che il palesarsi della propria insicurezza timorosa e del profondo senso di inadeguatezza personale, che si rifugia nell’arrogante presunzione della detenzione del valore giusto da proteggere anche con estremi atti di violenza. Nella convinzione di difendere se stessi dall’invisibile mostro della polimorfica emancipazione, sono dunque autori di una diffusa incapacità, violenta perché pavida, di adeguarsi e integrarsi in modo armonico alla società che cambia, che si evolve nella direzione di nuovi diritti giuridici e affettivi.
«Se non si provvederà a una organizzazione sociale ispirata a un’armonia molto più completa di quella attuale, non si riuscirà nemmeno a eliminare l’iniquo e dispendioso disordine oggi dominante… nel quale la cialtroneria politica corrente finge di vedere una prosperità e una civiltà. La libertà è una cosa ottima… Fin che questo non è assicurato, non può esservi altra libertà che quella di vivere a spese degli altri… Ma non è affatto salutare dal punto di vista del bene comune»( Shaw 1981:81). .
Le regole sociali e normative sono in parte mutate e continuano il loro vitale cambiamento evolutivo. Le conquiste storiche, rivendicate come un bene personale e collettivo, non possono essere tradite o rinnegate. L’ormai avviata rivoluzione socioaffettiva pervade di nuova libertà l’immagine del futuro collettivo. Ma è indispensabile che a questa si affianchi una rivoluzione educazionale che insegni al rispetto delle alterità e accompagni i più impauriti verso la ricchezza e la bellezza delle differenze culturali.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Riferimenti bibliografici
I. Asimov, Cronache dalla galassia, Mondadori, Milano, 1995.
G. Bernard Shaw, Il Wagneriano perfetto, E.D.T., Torino, 1981.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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