di Mario G. Giacomarra [*]
Introduzione
Il lavoro che qui ci apprestiamo a svolgere intende ricostruire una storia che nasce sul finire degli anni Cinquanta, ma le cui basi vengono poste tra i Trenta e i Quaranta. Il riferimento va all’esperienza scientifica e culturale costituita da quella che sempre meglio si è andata configurando come una scuola di alto livello, o di eccellenza come oggi usa dirsi: è la Scuola antropologica palermitana, com’è stata intesa, anche se non sempre così denominata, man mano che passavano gli anni e se ne riconosceva sempre meglio il valore [1]. Frutto di un’attività scientifica e culturale molteplice, fatta com’è stata di ricerche, studi e riflessioni incentrate su campi diversi e in origine distinti ma che hanno finito con il coniugarsi l’un l’altro e con l’arricchirsi a vicenda. Una vera e propria scuola interdisciplinare, costituita da discipline in origine diverse e distinte ma che nella direzione intrapresa e coltivata ha trovato nella semiotica un ruolo centrale nel fornire una chiave di lettura comune e fortemente aggregante.
Fondatore, animatore e continuo innovatore delle molteplici attività della Scuola è stato il prof. Antonino Buttitta, scomparso a 84 anni nel febbraio 2017 [2]. Marino Niola ne dava notizia su un quotidiano nazionale all’indomani della scomparsa:
«Allievo di Giuseppe Cocchiara, uno dei padri delle scienze umane nel nostro paese, Antonino Buttitta fece della sua isola una lente per guardare nelle profondità dell’umano. Un po’ come Sciascia aveva fatto per la letteratura. Legato a doppio filo alla sua terra, di cui conosceva volti e risvolti, ma al tempo stesso assolutamente internazionale. È stato lui negli anni Sessanta ad aprire l’antropologia italiana alle grandi scuole che si contendevano la scena mondiale. Dallo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss e di Roland Barthes alla semiologia russa di Jurij Lotman, Boris Uspenskij e Pëtr Bogatyrëv, fino alla narratologia francese di Algirdas J. Greimas. Di fatto Nino Buttitta ha liberato l’antropologia italiana dall’abbraccio spesso soffocante dello storicismo crociano e marxista. Il risultato è stato un modo di leggere la società come un testo, dove tutto diventa segno, perfino i nostri gesti più quotidiani»[3].
C’è un ulteriore aspetto della sua figura che allievi e colleghi hanno avuto modo di rilevare: la sua umanità, che si manifestava immancabilmente nel momento stesso in cui lo si connetteva con la dimensione scientifica che ne concretizzava le riflessioni. Antonino Cusumano, tra gli allievi più devoti del maestro, ha colto in pieno il carattere umano di Nino Buttitta e nel ricordo che ne traccia un mese dopo la scomparsa scrive:
«La lezione fondamentale che da sempre egli ha insegnato è forse quella di non prendersi troppo sul serio, ironizzare su se stessi, relativizzare quanto si ritiene assoluto, sottoporre a revisione critica e autocritica certe impalcature teoriche omnicomprensive e totalizzanti, tenersi lontani dalle tesi improbabili che proclamano verità assolute e certezze inamovibili. Alle diverse generazioni degli allievi della sua Scuola ha insegnato a dubitare, a rovesciare provocatoriamente le più facili e conformistiche opinioni, ad assumere nel dibattito pubblico una posizione meno scontata e più meditata»[4].
È difficile, per non dire impossibile, non convenire con le parole di Tonino, che di certo più amabilmente di altri ha avuto modo di conversare con il maestro pur avendo scelto di lasciare l’Università e insegnare a scuola, anzi forse proprio per questo. E del resto, lungo un percorso tutto da individuare e da ricostruire passo per passo, è da dire che momenti di grande riflessione e di messa a punto del lavoro svolto e di quello che ci si preparava a svolgere sono costituiti dalle Conversazioni che lo stesso conduce nel 2015, raccolti in un volume (Orizzonti della memoria) edito ad Alcamo da Ernesto Di Lorenzo. Più che un’autobiografia o un libro di ricordi, è il frutto di lunghe conversazioni intrattenute con Tonino costituendo senza dubbio un bilancio del lavoro svolto nella dimensione di quella memoria culturale in cui vanno a sedimentarsi i segni e i simboli esperiti nel vivere quotidiano. Pagine elaborate sulla base di sollecitazioni che l’uno rivolge all’altro non evitando di confrontarsi con lui: nei fatti è il maestro a parlare in prima persona, impegnato com’è a ricostruire le tappe più significative del percorso di studioso e di ricercatore.
«Editore di “storie di vita”, l’antropologo conosce a fondo procedure e dinamiche interne al narrare, specie quando l’oggetto della narrazione è lo stesso soggetto narrante… Con questa consapevolezza egli racconta di sé e traccia un bilancio della sua vita… Volentieri ragiona intorno ai suoi studi, al suo ruolo nell’ambito dell’Antropologia italiana, al suo articolato percorso di ricerca e alla ricca produzione scientifica… Promotore di iniziative culturali di avanguardia, fondatore e direttore di riviste di respiro internazionale, alla guida di una Scuola di studiosi che da Palermo ha contribuito alla sperimentazione e alla definizione di nuovi indirizzi teorico-metodologici della disciplina… Agli allievi della sua Scuola che lo hanno seguito nelle sue diverse avventure scientifiche, dallo strutturalismo alla semiotica, ha fondamentalmente insegnato a tenersi lontani dagli schematismi della ideologie e dalla facili semplificazioni… Ma la sua lezione più persuasiva, e forse più pervasiva, è quella connessa alla conoscenza del mondo siciliano, della cultura di un popolo che egli ha amato, studiato e valorizzato contro ogni forma di violenza e di sopraffazione, a cominciare dalla difesa della lingua»[5].
La testimonianza di domande e risposte risulta di grande valore non solo perché in Orizzonti c’è una interlocuzione diretta e articolata ma anche perché, a ben pensarci, ricostruzioni e riflessioni critiche sulle esperienze condotte in seno alla Scuola palermitana non sono state nel corso degli anni tante quante sarebbe stato lecito aspettarsi. Certo, non sono mancate le messe a punto di quanto si stava facendo e le prospettive di nuovi lavori da intraprendere, ritrovandovi così i percorsi più variamente seguiti e i risultati conseguiti e a tutt’oggi ricchi di significato. Il riferimento va a molte prefazioni e postfazioni comprese nel gran numero di volumi nati e completati in seno alla Scuola oltre alle diverse collane che ad essa fanno capo, ma va anche agli editoriali compresi nelle riviste qui nate e promosse, a partire da Uomo &Cultura (1968) e a finire ad Archivio antropologico mediterraneo (1997). Un momento altamente significativo è costituito da Le parole dei giorni. Scritti per Nino Buttitta, una raccolta di saggi in omaggio per il settantesimo compleanno per un totale di 1200 pagine in due volumi curata da Maria Caterina Ruta ed edita da Sellerio nel 2005. Dispiace però che qui non ci siano esplicite ricostruzioni né adeguate riflessioni critiche sulla Scuola, a parte pochi contributi in cui pure si sarebbe dovuta avvertire quella sorta di aria di famiglia propria della esperienza palermitana.
Le origini palermitane degli studi di tradizioni popolari
Come già anticipato, con un’espressione che rileva della mistica religiosa, in principio fu Giuseppe Pitrè. Nei fatti, nel delineare le tappe salienti dell’esperienza scientifica connessa alla storia delle tradizioni popolari in Sicilia, è Pitrè a essersi sin dall’inizio fatto conoscere da letterati e storici del Paese appena unificato per il grande lavoro di scavo e di studio del folklore regionale dell’Isola. Da quell’illustre medico umanista, vissuto tra Otto e Novecento, rimase tutta la vita in contatto con i ceti più umili dei quartieri palermitani e non mancò certo di frequentare il mondo di marinai, artigiani e contadini. Tra di loro, spinto sin dall’inizio da una viva passione per gli studi storici e filologici, raccolse la gran parte degli argomenti di cultura popolare in una silloge che oggi costituisce il patrimonio della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, pubblicata in venticinque volumi fra il 1871 e il 1913.
È di grande valore il giudizio che l’insigne storico Orazio Cancila ne dà quando ne delinea l’opera nel paragrafo dedicato all’Università e alla cultura urbana nel capitolo dedicato alla Palermo felicissima del volume laterziano dedicato al capoluogo dell’Isola:
«Giuseppe Pitrè è indubbiamente l’intellettuale più prestigioso e amato del primo cinquantennio di post-unificazione, ricercatore infaticabile delle tradizioni del popolo siciliano (canti popolari, fiabe, novelle e racconti, proverbi, spettacoli e feste, giochi, usi e costumi, credenze e pregiudizi) mantenne intensi rapporti culturali con studiosi di ogni paese, ai quali aprì le pagine dell’”Archivio” da lui diretto in collaborazione con Salvatore Salomone Marino, altro insigne cultore di tradizioni popolari. Le raccolte del Pitrè, deve inoltre sottolinearsi, non furono mero affastellamento di dati e notizie, ma scelta criticamente rigorosa, alla luce di studi lunghi e approfonditi, che fecero di lui il fondatore in Italia di una nuova scienza, la demopsicologia, di cui nel 1910 a Palermo fu istituita la prima cattedra italiana, alla quale egli fu chiamato»[6].
È con Giuseppe Cocchiara (1904-1965) però che comincia a tutti gli effetti la storia che stiamo provando a ricostruire. Figura ben diversa dai colleghi accademici del tempo, egli si muove in una dimensione propria a partire dagli anni degli studi e della formazione accademica, condotta principalmente in Gran Bretagna.
«Cocchiara, come antropologo e uomo di cultura, era una figura anomala – scrive Buttitta –. Su consiglio di Raffaele Pettazzoni da giovane, nel 1929, egli si trasferì a Oxford, a studiare antropologia sociale con Marrett… È così che Cocchiara, insieme ad Antonino Pagliaro, fu l’unico ad aprirsi alla storia della cultura europea in termini innovativi ed è significativo che già in quegli anni avesse avvertito l’importanza della linguistica nel quadro delle scienze umane» [7].
La presenza operosa di Cocchiara a Palermo parte sul finire della seconda guerra, tra il 1943 e il ‘44 a esser precisi. Allora, su indicazione del gen. Charles Poletti, al gen. George Smith Patton viene assegnato il comando dellla /a Armata impegnata nello sbarco in Sicilia condotto dal 10 luglio 17 agosto 1943. Intanto l’Università di Palermo viene chiusa nel 1943, in coincidenza con lo sbarco alleato nel luglio di quell’anno [8]. Riaperta nel gennaio 1944, anche se le azioni belliche proseguono fino a ottobre, essendosi intanto conclusa la spedizione, allo stesso Patton viene assegnato il compito di riorganizzare le principali istituzioni operanti nella Regione e, tra queste, le tre Università dell’Isola. Impegnato dunque a dar loro una nuova sistemazione, egli fa proprie le indicazioni del gen. Poletti e individua in Giuseppe Cocchiara il docente cui attribuire un ruolo riconosciuto di rilievo in seno all’Ateneo palermitano che viene profondamente riorganizzato: tra i provvedimenti assunti, di particolare rilievo si rivela appunto l’istituzione della cattedra di Storia delle tradizioni popolari affidata a Cocchiara, già noto in Gran Bretagna per gli studi che vi aveva condotto.
In effetti gli studi inglesi si erano protratti fino al 1942 e Cocchiara era rientrato in Sicilia da qualche tempo, completati gli studi su orientamenti e metodi dell’antropologia sociale che proprio in Inghilterra, tra Londra e Oxford, annoverava i centri di più grande prestigio. La formazione lì ricevuta ha ora modo di esplicarsi in Italia e non è un caso che della disciplina filologica, prima che di quella demologica, Cocchiara sia debitore agli insegnamenti di Paolo E. Tavolini, di cui segue i corsi all’Università di Firenze. Non mancano i contatti con maestri quali Pio Rajna e Michele Barbi, ai quali si aggiungono i consigli di Raffaele Pettazzoni: è proprio quest’ultimo, col quale collabora in occasione del Primo Congresso nazionale delle tradizioni popolari (Firenze 1928), a indirizzarlo a Oxford e Londra dove condurre studi specialistici in seno alla scuola britannica.
«Pettazzoni – scrive al riguardo Giuseppe Bonomo, uno dei primi allievi che gli furono più vicini – lamentava la mancanza di organizzazione scientifica degli studi di folklore nel nostro Paese e della formazione scientifica dei folkloristi italiani… E però in Cocchiara egli vedeva un folklorista da coltivare, un futuro organizzatore di studi seri e severi. Da qui il suo insistere perché si trasferisse in Inghilterra da dove veniva l’esempio di una organizzazione mirabile degli studi folklorici … uomini insigni raccolti nella Folklore Society di Londra. Cocchiara raccolse il suggerimento. A Londra seguì i corsi di Bronislaw Malinowski e a Oxford frequentò per più di un anno le lezioni di antropologia di Robert R. Marett… Ben presto il seminario di Antropologia sociale di Oxford diretto da Marett divenne il suo laboratorio e la sua casa. Cocchiara non ebbe nei suoi anni inglesi e in quelli successivi chiara consapevolezza dell’insegnamento di Marett che era giunto a uno dei più importanti principi che regolano l’esistere del folklore, il concetto di sopravvivenza. Egli tenta di svincolarsi dal naturalismo per attingere a un fecondo storicismo… e quando allargherà e approfondirà le proprie basi culturali, filosofiche e storiche, si farà assertore convinto e spesso polemico di un orientamento essenzialmente storicistico dell’etnologia e del folklore» [9].
Durante il soggiorno in Gran Bretagna, inframezzato da brevi rientri in patria, oltre a seguire le lezioni tenute da Malinowski a Londra e da Marett a Oxford, Cocchiara ha frequentato intensamente la Folklore Society ed è così entrato nel vivo delle problematiche della scuola di antropologia sociale e delle sue scelte ideologiche e di metodo. Nell’Ateneo palermitano si amplia l’offerta didattica e due anni dopo gli viene attribuito l’incarico di insegnamento di Antropologia sociale mentre, sul piano scientifico, si moltiplicano i saggi e i volumi pubblicati da editori nazionali, come Boringhieri, Einaudi e il Saggiatore, oltre che dai palermitani Sandron, Palumbo e Flaccovio. Di seguito ci limitiamo a richiamarne alcuni:
Problemi di poesia popolare (Palumbo, 1939); Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia (Palumbo, 1947); Il mito del buon selvaggio (D’Anna, 1948); Pitrè, la Sicilia e il folklore (D’Anna, 1951); Il linguaggio della poesia popolare (Palumbo, 1951); Il folklore siciliano, 2 voll. (Flaccovio, 1957); Storia del folklore in Europa (Einaudi, 1954); Il paese di Cuccagna e altri studi di folklore (Einaudi, 1956); Popolo e letteratura in Italia (Einaudi, 1959); L’eterno selvaggio (Il Saggiatore, 1961); per ultimo Il mondo alla rovescia (Boringhieri, 1963).
Un veloce passaggio di consegne
Nel 1965, dopo breve malattia, a soli 61 anni Giuseppe Cocchiara scompare e con lui viene meno tutto il lavoro di condivisione dell’antropologia sociale britannica e di documentazione delle tradizioni popolari siciliane. Nei fatti, nonostante avesse ancora molto da insegnare, la sua morte affretta il passaggio di generazione a tre giovani allievi, Giuseppe Bonomo, Aurelio Rigoli e Antonino Buttitta i quali, per un verso, procedono negli studi e nelle ricerche lungo la linea tracciata dal maestro ma per l’altro innovano, com’è inevitabile, e portano avanti sempre nuovi orientamenti scientifici: il primo così passa a incentrare i suoi maggiori interessi su magia e stregoneria; il secondo va concentrando la sua attenzione sulle espressioni più significative della cultura orale (gli studi sulla Barunissa di Carini sono quelli di maggior interesse) prima di scoprire e coltivare sempre più a fondo quel nuovo filone di studi che è l’Etnostoria; non c’è dubbio però che è il terzo, tra gli anni Sessanta e i Settanta, a innovare più profondamente aprendo gli studi antropologici italiani verso i nuovi paradigmi che allora si sviluppano in un ambito che va ben oltre il continente europeo: il formalismo russo, lo strutturalismo francese, il trasformazionalismo e il generativismo americano, la semiotica della cultura di Tartu. Grazie a Buttitta gli orientamenti di ricerca elaborati in seno ad essi cominciano a trovare un sempre maggior spazio nello studio delle tradizioni popolari siciliane di cui si colgono i percorsi simbolici e si definiscono i modelli mitico-religiosi, l’arte popolare e la cultura materiale.
Nei fatti, se a partire dagli anni Quaranta e fino a metà dei Sessanta Cocchiara si era impegnato a riproporre in Italia le linee fondanti dell’antropologia britannica, pur non trascurando le ricerche sul folklore isolano di pitreiana memoria, dal ’68 in poi un impegno di gran lunga maggiore viene assunto dal giovane allievo anche se i primi anni di studio continuano a essere incentrati principalmente su specifici tratti dell’arte popolare isolana (la ceramica, la pittura su vetro, la tessitura, ecc.). A parte il quadro complessivo che si offre di un gran numero di reperti, un segnale innovativo del più grande rilievo è costituito da Cultura figurativa popolare in Sicilia (1961), la prima pubblicazione in volume a firma Antonino Buttitta: è la prima più importante monografia che giunge nel panorama editoriale del tempo, esito di anni di ricerca e studio delle tematiche proprie dell’arte popolare. Il volume offre di per sé abbondanti testimonianze anche se i risultati via via conseguiti non mancano a loro volta di essere pubblicati su riviste d’ambito accademico o più propriamente culturale: tali sono gli Annali del Museo Pitrè (1950-64) e Sicilia (1953-80), rivista illustrata preziosa per i disegni, le tavole e le fotografie a colori.
È importante rilevare a questo punto che Cultura figurativa costituisce a sua volta un vero e proprio turning point nel percorso scientifico e culturale del Nostro se solo si considera che, nel giro di sette anni, ad essa segue la fondazione di Uomo & Cultura (1968-89), rivista di studi etnologici, e la creazione di una collana di volumi su tematiche d’ordine antropologico che si muovono in parallelo a quelle della rivista (Uomo & Cultura testi, 1970-89).
«Nelle sue opere di maggiore impegno teorico – ha rilevato di recente Antonino Cusumano –, da Ideologia e folklore (1971) a Semiotica e antropologia (1979), da Percorsi simbolici (1979) a L’effimero sfavillìo (1995), da Dei segni e dei miti (1996) fino a Mito, fiaba e rito (2016), Antonino Buttitta ha descritto un lungo e intenso percorso intellettuale, che si caratterizza per l’incessante ricerca delle invarianze e delle logiche soggiacenti ai sistemi culturali, lo sforzo di connettere e ricondurre le differenze nell’ordine universale della natura umana, la sistematica disposizione a decostruire presunzioni scientifiche e assiomi concettuali fondati su inveterate dicotomie e consumate rappresentazioni ideologiche»[10].
Nei fatti, seguono anni di apparente silenzio, com’è possibile rilevare anche da una veloce ricognizione bibliografica. È però sintomatico e altamente significativo di un percorso in veloce crescita il fatto che nell’a.a. 1967/68, a partire dal febbraio ’68, nell’allora facoltà di Magistero Buttitta tenga un corso sull’analisi della fiaba non più d’ordine filologico-letterario ma incentrato su un metodo elaborato ai primi del XX secolo e che solo ora si comincia a diffondere in Occidente: il “formalismo russo” creato da una scuola che negli anni Sessanta comincia a rivelare in Europa il suo valore e che Vladimir J. Propp riprende e applica in Morfologia della fiaba (1966). È il segnale di un work in progress di cui solo anni dopo si cominciano a cogliere l’importanza scientifica e l’interesse culturale. Ed è lecito sostenere che il Sessantotto lascia nello studioso un segno indelebile che, pur non trascurando l’interesse per l’arte popolare cui si era prima dedicato, riponga quell’universo culturale entro una cornice del tutto nuova qual è quella che si delinea nel formalismo russo, nello strutturalismo francese e nella semiotica lettone: qui si incontrano figure di rilievo internazionale impegnati a elaborare quella che sfocerà in quella che sarà la semiotica della cultura in seguito elaborata in una dimensione teorica e in una pratica. Una ricognizione bibliografica della produzione culturale di Buttitta offre numerose conferme della crescente presenza della semiotica in seno a un quadro permanente ma del più grande rilievo antropologico [11].
Verso la nascita della Scuola
Sul piano scientifico e culturale, l’espressione più significativa del nuovo orientamento coltivato da Buttitta è data dal lento ma costante costituirsi di quella che, sulla scia di non poche indicazioni, ci piace chiamare Scuola antropologica palermitana: si può ben dire infatti che essa inizia a costituirsi in maniera del tutto libera e spontanea proprio in quegli anni. Vi convergono allievi che nel corso degli studi e dopo la laurea rimangono accanto al maestro continuando a seguirne le lezioni e a frequentarne assiduamente le dimore della città e della campagna, in località Mulino tra Borgetto e Partinico, dove si succedono periodicamente incontri che talora si prolungano per molti giorni di seguito.
Un’esperienza consimile qualche anno dopo viene immaginata e progettata entro un quadro parallelo che si muove in una dimensione antropologica propria della Sardegna: è la “Scuola antropologica sarda” idealmente patrocinata da Alberto M. Cirese, per come prima la pensava Giulio Angioni e come intende poi riproporla Pietro Clemente.
«In un saggio di cinque anni addietro, ipotizzando l’esistenza di una scuola antropologica sarda, Giulio Angioni aveva tentato di disegnare i caratteri originali di quella ‘Scuola’, legandola anche alla Scuola di specializzazione in studi sardi e all’importanza di una archeologia sarda, oltre che di una linguistica sarda dialoganti con l’antropologia… Se dovessi continuare il discorso di Angioni sulla “Scuola antropologica sarda”, parlando ora anche di lui e di Clara Gallini come dei fondatori, direi che il profilo di questa scuola sta nel rilievo che Alberto Cirese seppe dare alla valorizzazione della storia degli studi sardi (dagli studi metrici ottocenteschi alla Deledda) e sulla Sardegna (da Maurice Le Lannou a Max Leopold Wagner) in cui innestare la nuova disciplina, e alla ricognizione sistematica della cultura popolare con l’Atlante Demologico Sardo» [12].
Il richiamo alla Scuola sarda torna utile perché ci consente di effettuare un primo veloce richiamo alla Scuola palermitana nella sua dimensione fattuale e di coglierne le differenze per una serie di ragioni. A definire quest’ultima rispetto a quella sarda possono ben dirsi soprattutto, se non esclusivamente, i caratteri d’ordine politico-istituzionale grazie ai quali vi si ritaglia un interesse oltremodo rilevante per l’universo dei Beni culturali nei quali si ritrova variamente impegnata nel corso degli anni: da qui il grande sforzo profuso nell’interagire con i comuni, le province e la Regione siciliana acciocché le diverse Amministrazioni pubbliche non si sottraessero alla promozione di quella grande opera di ricerca, catalogazione e schedatura che è stato il Censimento regionale dei Beni etnoantropologici. Al riguardo è importante ribadire come negli anni in cui si esplica al meglio l’azione della Scuola, alla Sicilia in quanto regione autonoma viene attribuita l’esclusiva sulla gestione dei Beni culturali in dipendenza della quale si precisa e si riafferma quanto già dianzi segnalato. Di non minore importanza è che per la prima volta venga dato un riconoscimento specifico ai Beni etnoantropologici, che cominciano ad essere chiaramente distinti da quelli storico-artistici cui erano stati assimilati nelle legislazioni precedenti. Non è un caso che, già da allora, per quest’ultima tipologia di Beni si cominci a coltivare una crescente attenzione e a cogliere il profondo spirito innovativo dei progetti che vengono elaborati al riguardo.
Sono gli anni della stretta collaborazione con Alberto Bombace, dirigente dei Beni Culturali, il quale coglie lo spirito innovativo di quei progetti e, riconoscendone il valore, va loro incontro per renderli esecutivi. Qui emerge la dimensione politica di Nino Buttitta, una “politica del fare” che, dopo un incarico di segretario di partito regionale, lo porta ad essere eletto deputato alla Camera nel 1992: porte che si aprono offrendo opportunità e concretezza alle azioni scientifiche e culturali che sono portate avanti. È significativo e anticipatore, al riguardo, il lavoro svolto a Gibellina in collaborazione con l’allora sindaco Ludovico Corrao. È a simile progetto che vien dedicato un grande impegno per parecchi anni di seguito, man mano che si procede ad allestire mostre temporanee, a promuovere seminari, incontri e dibattiti, oltre che a raccogliere i materiali per gli allestimenti permanenti nel tempo. La dimensione che si può dire politico-istituzionale della Scuola si esplica perciò nel settore museografico: è significativo, al riguardo, il lavoro svolto in quel comune a partire dal 1978, quando nel paese ancora sconvolto dalle macerie del terremoto nasce il primo Museo della civiltà contadina. Esso non vuole essere riservato solo alla tutela e alla conservazione dei reperti esposti ma prima ancora dedicato alla ricerca e alla conoscenza della cultura agropastorale. È una vera e propria “antropologia museale” quella che si elabora in Sicilia e in tal senso sono di grande rilievo le osservazioni che vi dedica Antonino Cusumano, che è poi il grande animatore di quel Museo per molti anni di seguito:
«La scelta di privilegiare del mondo tradizionale gli aspetti legati alla vita produttiva e alle tecniche del lavoro era coerente agli obiettivi di una antropologia che si affrancava dai rischi delle operazioni di mitizzazione romantica e si riconosceva all’interno di un disegno di politica culturale volto alla riflessione e alla riappropriazione critica della memoria collettiva. Conoscere il passato non significa, infatti, invocarlo nostalgicamente né tanto meno illudersi di restaurarlo. Significa, invece, comprendere meglio la società nella quale viviamo, ciò che va difeso e conservato, ciò che va rifiutato e criticamente superato»[13].
Un tratto costitutivo della Scuola: il carattere interdisciplinare
Di seguito a quanto abbiamo rilevato intorno alla cultura e ai segni che lascia sul territorio, c’è un importante aspetto da registrare, aspetto che costituisce una ulteriore differenza rispetto alla Scuola sarda, ed è quello connesso al carattere che diciamo interdisciplinare della Scuola palermitana. Le convergenze disciplinari di questa vanno infatti ben oltre quelle più propriamente antropologiche: qui, a parte i nomi dei docenti, a imporsi all’attenzione sono anche e soprattutto le varie discipline insegnate con i saperi che veicolano; insegnamenti che solo in parte coincidono con quelli propri del settore etnoantropologico mentre altri risultano estranei, o non del tutto assimilabili, ad esso: geografia umana, sociologia della cultura, dialettologia ma anche, e più di tutte, semiotica. Nonostante il nome, insomma, quella palermitana è una scuola dal carattere interdisciplinare che, lungi dall’esaurire le molte potenzialità delle moderne scienze antropologiche, vi vede confluire le diverse discipline indicate.
Sono diversi i fattori, scientifici ma anche umani, che possono aver consentito, o almeno facilitato, la creazione della Scuola antropologica palermitana. Il primo può essere rintracciato nel fatto che, in seno prima all’originario Istituto, accanto alle aree disciplinari proprie del settore etnoantropologico vengono ad afferire numerose altre discipline d’ambiti più o meno vicini. Gli allievi della Scuola, a loro volta, non provengono da percorsi di studio uniformi ma da tanti altri variamente assimilabili: praticano discipline diverse ma consimili, in un modo o nell’altro riconducibili a quelle richiamate, ma non identiche.
«All’ombra del magistero [di Buttitta] gli allievi hanno maturato e coltivato una nuova attenzione per l’arte popolare nelle sue diverse forme, la rilettura critica delle feste e dei riti secondo inedite griglie interpretative, le prime capillari ricognizioni di cultura materiale, le originali riflessioni sulla museografia etnoantropologica, il costante dialogo con i paradigmi della letteratura, del mito, del simbolico, anche attraverso le vie della semiotica… Dalle tecniche del lavoro alle pratiche museali, dall’analisi dei rituali festivi alle tradizioni dell’immaginario, dalla storia degli studi alle prospettive che si aprono nella dialettica tra locale e globale, tra mutamento e permanenza, nelle dinamiche socioantropologiche del fenomeno contemporaneo delle migrazioni»[14].
Se veniamo allo specifico dell’organizzazione didattica e della ricerca dell’Università di Palermo, è da dire che cambiamenti incisivi sono collegati alla abolizione nel 1973 degli istituti monocattedra: ad essi segue la nascita del nuovo Istituto di scienze antropologiche e geografiche che può senz’altro aver favorito la nascita della Scuola antropologica in quella sua speciale dimensione interdisciplinare da cui siamo partiti. Anni dopo viene eretto il Dipartimento di Beni Culturali cui finiscono con l’afferire insegnamenti che confluiscono nell’attuale Dipartimento Culture e società, costituendo ogni volta la concreta espressione di un’originaria aggregazione articolata in settori sempre più ampi e diffusi [15]. Ma ci sia consentito segnalare che un importante fattore può aver agevolato il formarsi della Scuola: a partire dai primi anni Settanta, in applicazione dei provvedimenti varati nel 1969 e nel 1973, crescono le possibilità per i giovani di portare avanti la loro formazione post-laurea. L’Università riformata, poiché ha liberalizzato l’accesso ai diplomati di tutte le scuole superiori quinquennali, mostra di avere sempre più bisogno di collaboratori e risponde a simile esigenza ricorrendo appunto prima ai già citati assegni biennali e poi ai contratti quadriennali di ricerca e perfezionamento.
Ma non basta tutto questo a definire la dimensione interdisciplinare, più che pluridisciplinare, della Scuola se non vi si aggiungono altre significative componenti. Non è sufficiente infatti rilevare la molteplicità di insegnamenti che vi confluiscono se ad essi non si aggiunge un ulteriore carattere costitutivo: sono i molteplici temi e argomenti di ricerca che al suo interno sono stati studiati in stretta collaborazione e su cui non si contano le molte ricerche condotte. E questa non è una novità in ciò che concerne questo genere di studi. È nota infatti la molteplicità di temi e argomenti di cui è già a suo tempo costituita la cosiddetta demopsicologia e l’enorme lavoro di ricerca e documentazione condotto da colui che la fondò a fine Ottocento, Giuseppe Pitrè. I titoli dei 25 volumi che costituiscono la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane sono di per sé grandemente significativi e, a un secolo dalla morte, non si è mai mancato di confermare la portata dei saperi ivi raccolti, col passare degli anni imposti sempre di più all’attenzione nazionale [16].
La Scuola antropologica palermitana, che idealmente trova in Pitrè la matrice, non si è esaurita in una ripetizione, sia pure approfondita, di temi e argomenti variamente rientranti nella Storia delle tradizioni popolari. Non si è mai limitata a conservare, in altre parole, né si è impegnata solo a coltivare gli studi sull’arte popolare, sui canti tradizionali e più in generale sul folklore regionale. È stata invece profondamente innovativa e nel giro di qualche decennio ha avuto modo di confrontarsi, e di competere talvolta, con orientamenti scientifici del tutto nuovi, conseguendo risultati di rilievo negli ambiti più diversi.
Una Scuola non pluri- né multi- ma interdisciplinare
Quella presa in esame non è un’esperienza multidisciplinare, nel senso che tiene insieme, direi fisicamente, soggetti che sono però ben lungi dal condividere le esperienze di ricerca via via condotte: “pluri-” e “multi-” non possono che rinviare a una molteplicità di azioni distinte. La nostra è invece un’esperienza di ricerca che diciamo interdisciplinare perché qui docenti, allievi e ricercatori diversi tra loro comunicano e condividono quanto vanno ricercando e studiando, ognuno nel suo o campo: “inter-” rinvia al concetto di interazione, a uno scambio continuo che non può che arricchire.
Proprio in riferimento alla interdisciplinarietà, riteniamo di grande rilievo il fatto che essa sia stata coltivata, e non solo predicata, nonostante la difficoltà di comunicazione fra i locali che ospitavano i diversi insegnamenti. Infatti, anche se rientravano in un solo Istituto, e poi in un unico Dipartimento, gli insegnamenti sono rimasti per molto tempo a occupare locali lontani l’uno dall’altro e di non facile collegamento; alcuni ci sono rimasti fino ad oggi. In queste condizioni, ed è quanto intendiamo ribadire, rimane il fatto che, nonostante le collocazioni loro assegnate nel corso degli anni, il continuo girovagare di docenti e allievi non ha mai messo in crisi il carattere di interdisciplinarietà della Scuola antropologica, né fatto mancare ogni volta le migliori condizioni di lavoro [17].
Dopo averne delineato il carattere interdisciplinare, avendone rilevato la forza di resistenza nonostante le dislocazioni urbane dei singoli insegnamenti, riteniamo sia giunto ora il momento di indicare gli ambiti tematici di cui la Scuola antropologica si è interessata nel corso degli anni, coltivandoli e producendo risultati del più grande rilievo: ciò è stato possibile per aver coinvolto i soggetti impegnati in settori diversi ma sempre disposti a collaborare e a condividere le esperienze condotte e i saperi via via acquisiti. Gli ambiti individuati e le discipline attinenti si sono andati coniugando l’uno con l’altro producendo esiti scientifici poco o nulla prevedibili in partenza: sono quelli che riconosceremo e valorizzeremo adeguatamente man mano che procediamo nella ricostruzione di quella storia.
Al primo posto si collocano i canti e la musica popolare. Le ricerche e lo studio di temi d’ordine etnomusicologico sono tra le prime ad aver trovato udienza in seno alla Scuola. Ed è stato il Folkstudio a promuovere e coltivare le molteplici attività connesse: il lavoro condotto non è consistito solo nella ricerca sul campo, con registrazioni prima solo sonore e poi anche audiovisive; sin dall’inizio ad essa ha accostato una grande attività di riproposta, in seno al nascente folk music revival, curando un’intensa riproposizione di canti nelle piazze, in occasione di feste di paese o di quartiere, in incontri estemporanei o nella sede stessa dell’associazione. I canti degli orbi e dei carrettieri, i canti di lavoro (come quelli della mattanza e dei salinari), i canti e le musiche della Settimana santa, la musica da ballo e le musiche eseguite con strumenti della tradizione isolana, tutti fatti oggetto di attenzione e interesse durati a lungo nel tempo.
Le feste e i rituali, inseriti ognuno nei propri calendari festivi, costituiscono il secondo ambito d’interesse coltivato in seno alla Scuola, le une e gli altri documentati nelle forme più diverse attraverso complesse campagne di ricerca: per docenti e allievi o ricercatori si organizzavano vere e proprie spedizioni nei paesi in cui si celebravano le une e gli altri. I rituali della Settimana santa e le feste pasquali sono state fatte oggetto di più attenta considerazione ad aprile, ma a imporsi all’attenzione è stata anche la festa e il pranzo rituale di san Giuseppe a marzo: le une e gli altri sono anch’essi oggetto di grande interesse da parte del Folkstudio guidato da Elsa Guggino e ad essi è stata dedicata un’attenzione non minore di quella rivolta ad altre forme di cultura.
La cultura materiale ha costituito il terzo settore di maggior interesse per la Scuola, in seno alla quale si è creato uno specifico metodo d’indagine per gli aspetti visibili e concreti della cultura popolare: manufatti urbani e rurali, utensili e strumenti della vita quotidiana oltre i molti altri impiegati nelle varie attività produttive. In ambito antropologico lo studio della stessa è stato portato avanti da etnografi, sociologi e storici della “lunga durata” (Braudel), valorizzandone la dimensione segnica nel contesto sociale ed economico in cui ogni reperto si colloca (Leroi-Gourhan). Rispetto ad altri temi e argomenti che per lunga tradizione sono stati presi in carico dalla Scuola, l’interesse per la cultura materiale è recente, a parte i brevi riferimenti che si ritrovano nella Biblioteca di Pitrè; esso nasce negli anni Ottanta del Novecento adottando specifiche impostazioni di studio e promuovendo un gran numero di ricerche sul campo tese a studiare gli strumenti del lavoro tradizionale in seno ai diversi cicli lavorativi, con allestimenti di mostre e musei in diverse località dell’Isola.
L’attenzione al dialetto come dimensione socioculturale del comunicare non si può dire che sia mai venuta meno in seno alla Scuola: le parlate locali e i contesti comunicativi sono stati prioritariamente presi in carico ogni volta che si è proceduto a raccogliere e documentare reperti sia di cultura orale che materiale. Lungi dal ritenere dialetto e parlate locali sottoprodotti della lingua nazionale, l’uno e le altre sono stati sempre considerati componenti ineliminabili delle forme di comunicazione operanti in seno alle comunità dei parlanti, con una consapevolezza crescente man mano che la componente dialettale è stata sempre più presa in carico e adeguatamente trattata non mancando di esprimersi in progetti di ricerca comuni: da qui il sempre più stretto collegamento della Scuola con gli studi di dialettologia e sociolinguistica oltre che con sociologia della comunicazione.
L’Opera dei pupi costituisce un ulteriore ambito d’interesse coltivato in seno alla Scuola antropologica palermitana. Di essa si hanno già notizie nel Settecento, e per come la conosciamo oggi si è sviluppata nel corso di quel secolo con opere di cui però ci sono arrivate soltanto le farse ancora oggi vengono rappresentate. È invece nella prima metà dell’Ottocento che l’Opera dei Pupi si afferma e si diffonde nei teatrini sparsi per le città di Palermo, Catania, Napoli, ma anche in centri medio-piccoli come Acireale e Partinico. Quello dei pupi siciliani ha costituito un richiamo di rilievo per la Scuola e per coloro che hanno preso in carico lo studio della cultura popolare nelle sue diverse componenti. Esso anzi costituisce un unicum in Italia e in buona parte d’Europa per la presenza operante di scuole di pupari per le quali si promuovono attività museali, festival e altre forme di animazione spesso operando in stretto collegamento con l’Università. Accanto al Museo Pitrè allestito ai primi del secolo scorso, il Museo delle marionette voluto, progettato e realizzato ad opera di Antonio Pasqualino e della moglie Janne Vibaek, è, da questo punto di vista, una realizzazione di grande e riconosciuto prestigio, a cinquant’anni ormai dalla sua fondazione.
Migrazioni e processi d’integrazione
Tra gli interessi variamente coltivati un discorso a parte va fatto per quello relativo alle migrazioni e ai processi di integrazione che da molto tempo ormai caratterizzano la vita delle popolazioni locali e che, col crescere delle comunicazioni e il diffondersi dei processi di globalizzazione, assumono dimensioni sempre più vaste. Sin dall’inizio dell’immigrazione tunisina in Sicilia, che parte nei primi anni Settanta, in seno alla Scuola si sono moltiplicate le ricerche sui processi migratori, incentrate su tematiche relative al lavoro, all’insediamento abitativo, all’integrazione sociale e culturale. Si può ben dire che essa è stata promotrice di un’opera ormai più che trentennale, fatta di ricerche e riflessioni sulle popolazioni migranti, individuando obiettivi e adottando metodi diversi, ma tutti scientificamente validi. Vari contributi d’ordine antropologico, sociologico e geografico-sociale accompagnano lo svolgersi di un simile fait social total di cui solo attente ricognizioni condotte in tempi e spazi determinati possono conseguire risultati adeguati e fornire immagini condivisibili al di là degli stereotipi e dei pregiudizi.
Nel 1976 Antonino Cusumano pubblica da Sellerio un importante contributo, primo in assoluto in Italia, sull’immigrazione tunisina a Mazara del Vallo: è Il ritorno infelice in cui confluiscono i risultati della sua tesi di laurea discussa nel 1972 e frutto della ricerca condotta presso l’allora Istituto di etnologia e geografia. Segue nel 1984 una ricerca a cura di Vincenzo Guarrasi sulla Presenza dei lavoratori stranieri in Sicilia, che va oltre Mazara e il Trapanese e investe le più varie plaghe dell’Isola dove la loro presenza si fa via via più avvertita. Nel 1986, a dieci anni dal primo, uno studio di Silvana Miceli torna a fare il punto sulla situazione migratoria dei tunisini nel Trapanese con risultati raccolti in un volume su La comunicazione negata. Nel 1991, promosso dalla Scuola di Scienze umane, si tiene a Gibellina un convegno su Immagini dello straniero ancora incentrato sull’immigrazione tunisina nella Valle del Belice. Nel 1994 esce Immigrati e minoranze, che aggiorna con nuovi dati lo stato dei fenomeni migratori diretti verso la Sicilia, puntando l’attenzione sugli immigrati maghrebini in crescita e mettendo a confronto i processi d’integrazione in atto con quelli verificatisi tra nuclei di popolazione albanese immigrati in Sicilia nel secolo XVI.
L’interesse per migrazioni e identità continua a esser coltivato negli anni successivi in seno alla Scuola alla Facoltà di Lettere: nel 1995 si tiene a Gibilmanna un convegno, I barbari fra noi, che costituisce una ulteriore messa a punto del fenomeno, con Atti ospitati negli Annali della facoltà. È del 2000 un’altra indagine, Migrazioni e identità, incentrata sulle dinamiche di conservazione o di costruzione d’identità fra immigrati e minoranze storiche, tra le quali in particolare la minoranza galloitalica immigrata in Sicilia orientale tra il XII e il XIII secolo. Seguono altre ricerche su Donne senza confini, sul Disagio comunicativo e culturale dei migranti, sugli Allievi stranieri a scuola. A parte il gran numero di saggi pubblicati in riviste e volumi collettanei da docenti e collaboratori, oltre che le tante tesi di laurea discusse nello stesso arco di tempo, a costituire una tappa importante e a tutt’oggi insuperata nella storia dell’interesse della Scuola per le migrazioni e i processi di integrazione è il congresso internazionale Isole. Minoranze, migranti, globalizzazione che si tiene a Palermo nel 2006, promosso dalla Fondazione Ignazio Buttitta, e i cui Atti vengono pubblicati l’anno successivo.
Il ruolo fondativo della semiotica
Il quadro delineato in seno al carattere interdisciplinare della Scuola non si comprende sino in fondo se non ci rifacciamo ora alla dimensione quasi esclusiva che la caratterizza: la dimensione semiotica. Al di là di quanto finora abbiamo richiamato, c’è infatti un’altra risposta di maggiore, per non dire esclusivo, rilievo: è stata la semiotica a offrire a docenti, allievi e ricercatori di più discipline diverse una base di riferimento comune; essa costituisce la chiave interpretativa che nasce e si diffonde in Europa e in America a partire dagli anni Sessanta. Se Antonino Buttitta «ha liberato l’antropologia italiana dall’abbraccio spesso soffocante dello storicismo crociano e marxista», questo ha potuto fare nel momento in cui egli la orientava verso quella nuova prospettiva d’ordine scientifico e culturale che porta a leggere l’universo della cultura come testo, e in esso tutto diventa segno.
In una serie di interventi Buttitta ha avuto modo qualche anno fa di precisare e mettere a punto gli itinerari più produttivi di un percorso quale quello della semiotica intesa come chiave interpretativa propria dell’antropologia culturale:
«Se un merito ho è quello di aver introdotto la Semiotica nella cultura accademica italiana… A un certo punto, forse senza saperlo e senza volerlo, ho assunto un ruolo importante nel quadro degli studi di semiotica a livello internazionale… Ho tentato anche di dare un contributo agli studi di Semiotica nel senso di una loro evoluzione meno verbosa e più attenta al momento della decodifica che a quello della codifica, per individuare gli stretti legami che intercorrono fra emittenti, messaggi e pubblico».
Qui tornano i nomi dei fondatori e dei fautori di nuovi orientamenti scientifici:
«Relativamente ai nomi di coloro che hanno lavorato alla fondazione della Semiotica mi piace ricordare i grandi maestri della semiologia slava, primo fra tutti Algirdas Julien Greimas, il “grande vecchio” della Semiotica che, nell’ambito di una carriera più che trentennale, ha elaborato una teoria autonoma e coerente nella quale confluiscono suggestioni e modelli attinti dai vari ambiti delle scienze umane. L’incontro con il semiologo lituano veniva da un mondo completamente diverso dal nostro, è stato particolarmente importante. Non meno proficue e stimolanti sono state le presenze di Lotman e Jakobson, giganti dello strutturalismo, che invitati in Italia hanno apprezzato non solo l’ospitalità siciliana ma anche il livello scientifico della Scuola palermitana».
E, quanto allo specifico contributo palermitano non può mancare il riferimento alla decina di congressi antropologici tenutisi in città nel corso degli anni Ottanta e Novanta:
«In ambito internazionale gli studi di Semiotica hanno determinato una svolta radicale nelle scienze umane tant’è che oggi più che di antropologia in molti Paesi si parla di Semiotica della cultura… Tra gli anni Settanta e Ottanta, nell’ambito dei congressi internazionali di studi antropologici, son venuti a Palermo i più noti storici, filosofi, linguisti e antropologi che hanno discusso tematiche di notevole rilevanza culturale: la cultura materiale, i mestieri, il mito, la donna, l’amore, il dolore, l’amicizia, la menzogna e altro: tutto analizzato da diversi punti di vista ma indagato nelle sue strutture profonde… con ampiezza di dibattito che ha intersecato saperi classici e storici con approcci antropologici, logici e semiotici» [18].
Dall’inizio alla conclusione dei due decenni, in pratica, Palermo è assurta a centro di grande richiamo dei più grandi esponenti delle discipline semiotiche, filosofiche, letterarie e antropologiche che vi si sono incontrati e hanno dialogato in sintonia con il pubblico dei giovani del luogo [19].
Dalla dimensione semiotica dell’antropologia culturale non si può prescindere, in effetti, quando si ripercorre la storia della Scuola palermitana: nell’approccio riconducibile alla semiotica della cultura confluiscono infatti saperi e contributi di ricerca in cui l’uno non fa a meno dell’altro, allora come oggi, a fronte di una crescente consapevolezza da parte delle diverse discipline che vi convergono. Nel nuovo contesto, per come si va delineando a partire dagli anni Sessanta, è a Palermo che l’antropologia italiana si apre verso le nuove importanti teorie scientifiche che allora si diffondevano contendendosi la scena mondiale, e la semiotica si colloca in primo piano: a partire dal formalismo russo di Vladimir Ja Propp fino allo strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss; dalla semiologia della letteratura di Cesare Segre fino a Tullio Seppilli e a Silvio d’Arco Avalle; dalla semiotica della cultura di Tzvetan Todorov, Juri Lotman e Boris Uspenskij fino alla narratologia francese di Gérard Genette e Algirdas J. Greimas; per arrivare infine alla semiotica della comunicazione di Umberto Eco e Paolo Fabbri, con i quali la Scuola palermitana ha intrattenuto una stretta interlocuzione per tutti gli anni in cui ha operato.
Dalla ricerca alla riproposta e alla didattica
Le attività di riproposta. Ricerca e “Terza missione”
L’attività pluriennale della Scuola, partendo dalla ricerca sui diversi ambiti d’interesse etnoantropologico sopra richiamati si è progressivamente allargata in direzione di due attività strettamente connesse: la riproposta dei contenuti via via definiti e messi in campo e la didattica dei saperi elaborati nel corso di quegli anni. La prima attività cui la scuola si è massimamente dedicata è quella della riproposta, con ciò intendendo il recupero e la riproposizione di contenuti variamente investigati nel corso della ricerca: attività di folk music revival, in primo luogo, che negli anni Settanta hanno raggiunto il massimo dell’espressione; mostre del lavoro contadino e artigiano che hanno registrato grande successo nei primi anni Ottanta; musei di cultura popolare e attività connesse a partire dai primi degli anni Novanta. A tutto questo, però, è da premettere l’attività di censimento e catalogazione dei reperti del lavoro tradizionale che, per molti versi, ne ha costituito l’elemento motore.
Prima di procedere nella presentazione delle attività di riproposta è il caso di soffermarci sul concetto di Terza missione, di cui al titolo del paragrafo e in cui possono farsi rientrare oggi tutte le attività di cui stiamo riferendo. Cominciamo col rilevare che si tratta di una specificazione specifica dell’ambito accademico: qui l’ultima legge di riforma (la 240/2010 intesa come Legge Gelmini) introduce un sistema di valutazione della ricerca e per questo ha attivato una Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) cui è stato affidato l’incarico di svolgere una valutazione sistematica delle attività di ricerca. Conviene riprendere quanto scrive al proposito chi si è occupato del tema con competenza:
«Si parla di Terza missione dell’Università per sottolineare che gli atenei devono assumere un nuovo fondamentale obiettivo accanto a quelli tradizionali dell’alta formazione e della ricerca scientifica: il dialogo con la società. Termine ambiguo, in realtà, usato per indicare molteplici attività che mettono in relazione l’Universitaria e la società… A parte le attività di trasferimento tecnologico finalizzate alla protezione e alla commercializzazione di tecnologie sviluppate nell’ambito di progetti di ricerca e la gestione della proprietà intellettuale in relazione con gli stessi progetti, quel che più interessa l’ambito umanistico è la “terza missione culturale e sociale” che riguarda la produzione di beni pubblici tesi ad aumentare il livello di benessere della società, che abbiano contenuto culturale, sociale, educativo e di sviluppo di consapevolezza civile»[20].
Non ci vuol molto a comprendere come, con l’introduzione del sistema di valutazione autonoma, la Terza Missione sia stata riconosciuta a tutti gli effetti come una missione istituzionale di tutti gli Atenei, accanto all’insegnamento e alla ricerca. Alla valutazione delle ricerche svolte in università ed enti di ricerca si aggiungono nuovi processi di valutazione, relativi alle attività dette di Terza Missione, svolte cioè al loro esterno: da qui deriva «una prima idea di apertura verso il contesto socio-economico mediante valorizzazione e trasferimento delle conoscenze» definendo nuovi indicatori di valutazione inerenti il “trasferimento tecnologico”, per un verso, e i saperi del “complesso delle scienze umane”, per l’altro. A esser ancora più precisi, viene inteso come Terza missione il complesso delle attività che, pur nascendo o alimentandosi in ambito pubblico, in primo luogo scolastico e universitario, sono destinate a essere svolte al di fuori delle scuole o delle università, pur continuando a far riferimento alla didattica e alla ricerca che ivi si svolgono: accanto a enti pubblici come comuni e regioni vengono prese in considerazione anche le attività svolte in strutture private o privatistiche come associazioni, parrocchie, oratori, ecc.
Nell’ambito appena disegnato, per quanto riguarda più direttamente la Scuola antropologica palermitana, nelle attività di Terzo settore è lecito far rientrare molte delle iniziative che, anche se svolte in anticipo rispetto alla legge e in maniera per allora del tutto volontaria, hanno variamente impegnato docenti e allievi: tra le tante a cui è dato pensare ci riferiamo in particolare a tutte quelle dianzi richiamate: tali sono le attività di folk music revival, l’opera di censimento e catalogazione dei beni etnoantropologici, l’allestimento di mostre e musei del lavoro contadino, molte altre azioni promosse da enti pubblici e strutture private in collaborazione con la scuola e l’Università.
Il Censimento dei beni etnoantropologici
Il censimento e la catalogazione dei beni etnoantropologici costituiscono le attività di maggior rilievo tra quelle di riproposta, avendo conseguito risultati di grande valore storico e socioculturale insieme con ricadute a scuola e nei comuni di cui ancora oggi si hanno grandi persistenze. Il censimento è stato in primo luogo incentrato sugli strumenti del lavoro tradizionale. Il suo specifico ambito di riferimento è stato dunque quello della cultura materiale in relazione alla quale, considerando i processi di sradicamento in atto ormai da anni, si sono imposte due esigenze: la prima, d’ordine conoscitivo, tesa a fornire un quadro della realtà produttiva tradizionale attraverso campagne di ricerca e indagini sul campo in aree di varia dimensione e collocazione; la seconda, riferita a azioni di riproposta tramite il recupero e la fruizione critica dei reperti della cultura materiale raccolti nel corso delle ricerche. Assunti nella loro “dimensione segnica”, i reperti esposti e riproposti all’attenzione dei visitatori, sono stati infatti in condizione di rispondere a esigenze politico-culturali di prim’ordine. Le iniziative di cui ora diamo brevi indicazioni costituiscono adeguati esempi di risposta a quelle esigenze.
Tra i progetti varati dalla Regione siciliana con la legge recante provvedimenti per l’occupazione giovanile (L.R. 37/1978) il Censimento è quello che meglio ha qualificato nel senso dell’innovazione scientifica e culturale le iniziative intraprese. A svolgere il lavoro di catalogazione sono stati due giovani assunti per ogni comune dell’Isola in base a speciali liste di collocamento, a seguirne invece lo svolgimento sono stati chiamati gli istituti universitari, settore etnoantropologico, degli allora tre Atenei isolani, ognuno con riferimento a specifiche porzioni di territorio: Palermo per le province di Palermo, Agrigento e Trapani; Catania per la sua area provinciale; Messina per le cinque province restanti. L’opera di tutorato per le prime tre province è stato per intero svolta dalla Scuola antropologica palermitana. Dopo cinque giornate di formazione iniziale, si è passati alla fase di ricerca e schedatura degli strumenti di lavoro connessi ai cicli produttivi tradizionali: nell’opera di schedatura, svoltasi dal giugno 1979 al dicembre 1980, sono stati i cicli a essere indagati per primi e solo dopo si è passati a documentare i singoli attrezzi. Il compito di aiuto e assistenza assolto dalla Scuola è consistito in riunioni trimestrali nel capoluogo e in visite periodiche ai giovani addetti negli stessi comuni di residenza. A conclusione del lavoro di catalogazione, da gennaio a ottobre 1981 si è proceduto ad una loro revisione e quindi alla raccolta delle schede compilate man mano che si procedeva al loro inventario. A partire dal 1982, in tempi successivi di seguito alla conclusione dei lavori nelle tre sub-aree, sono state raccolte e controllate 18.461 schede provenienti da tutte le province dell’Isola; successivamente sono state depositate presso il Centro regionale del Catalogo dell’Assessorato dei Beni culturali e qui sono ancora oggi liberamente consultabili [21].
Passando ora a valutare il soddisfacimento degli obiettivi dell’attività di censimento e catalogazione, è da dire che è disponibile già da oggi un quadro ampio e dettagliato delle tecniche produttive tradizionali nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato e della pesca propri della prima metà del secolo XX, con ampia documentazione di fatti che sono ad un tempo culturali, linguistico-dialettali, sociali ed economici. Questo vale senz’altro sul piano conoscitivo ma non possiamo non valutare altrettanto la dimensione politico-culturale dell’iniziativa promossa e portata a termine: l’aver impostato nuove prospettive di ricerca in un’area regionale come la Sicilia ha comportato un aggiustamento di parametri nella collocazione sociale dei diversi soggetti lavorativi. Com’è stato più volte rilevato, il giovane addetto al Censimento andava dal contadino o dal pescatore con l’aria umile di chi doveva apprendere, li aiutava a prender coscienza dell’importanza del loro lavoro e del contributo da loro arrecato alla vita sociale e diffondeva così un’immagine di quel mondo che in passato era del tutto mancata.
Le mostre e i musei del lavoro contadino
La seconda attività riferita alla Terza missione, impegnando in una profonda opera di promozione gli allievi della Scuola antropologica, è connessa ai complessi lavori di allestimento di mostre e musei specificamente dedicati alla civiltà contadina dell’Isola. Già la prima mostra, allestita a Caronia (ME) nel 1976, era nata dalla collaborazione di studenti ed ex contadini emigrati, rientrati nel periodo estivo, pur non essendone all’inizio pienamente consapevoli e non sempre condividendo la stessa idea programmatica. Ma consapevolezza e comunanza di idee non tarderanno a nascere e diffondersi: il trasferimento dei materiali della prima mostra al Museo delle marionette di Palermo ha costituito già di per sé una prima riposta, in un contesto culturale nuovo, sensibile e disposto a far propria l’iniziativa del paese di Caronia. Non è passato un anno che, dopo una mostra temporanea nei locali della scuola media, a Campobello di Mazara in un edificio del comune è stato allestito il Museo della vita e del lavoro contadino che ha messo in atto un orientamento sempre più avvertito nel momento in cui si è offerto programmaticamente di essere «non solo sede di conservazione ed esposizione dei materiali, ma luogo di ricerca e di lavoro didattico, centro di documentazione della storia locale della cultura popolare»[22].
Il numero delle mostre allestite dal giugno 1979 al dicembre 1980 è salito a livelli inimmaginabili un anno prima: sono state infatti una decina quelle realizzate con grande partecipazione di visitatori e consenso crescente. Alle mostre presentate nei paesi non hanno tardato a seguirne altre nelle città, accompagnate da sensibilità variabili nei luoghi e nei tempi. Sono i casi di L’Isola ritrovata, organizzata a Palermo nel 1982 dalla Regione siciliana e dal Servizio museografico della facoltà di Lettere; di L’arte del corallo in Sicilia, allestita presso il museo Pepoli di Trapani nel 1986 dalla Regione siciliana; di Arte popolare in Sicilia, a Siracusa, presso Santa Maria di Montevergine nel 1991 dalla Facoltà di Lettere di Palermo. In tutti i casi richiamati non è difficile indicare nel Censimento una sorta di “causa efficiente” del fiorire di iniziative: è come se si fosse attivato in ogni comune un processo di sensibilizzazione per fenomeni culturali dianzi poco avvertiti tra la popolazione. È anzi probabile che esso si sia rivelato in grado di smuovere certi modi di pensare immobili e stagnanti o di portare a compimento proposte che prima non erano neanche immaginabili. Del resto, non è un caso che molte delle mostre da temporanee siano diventate permanenti, trasformandosi in musei o in spazi espositivi duraturi, centri di incontro, ricerca e discussione [23].
Rimane da considerare per ultimo, non perché sia meno importante, il ruolo svolto dalla scuola. A Campobello sono stati i ragazzi di scuola media a raccogliere reperti di cultura materiale; a Palermo è stato un continuo accorrere di scolaresche in visita; in non poche scuole non sono mancate le diverse attività di animazione in una con i lavori collettivi che vedevano la partecipazione di intere scolaresche. Sia le mostre che i musei sono parsi insomma aprirsi quasi naturalmente ad una scuola che si rinnovava nel momento in cui si proponevano non come sedi di conservazione e tutela ma come luoghi di studio e ricerca.
La didattica. Dai corsi liberi all’Università
Nel quadro di cui stiamo ricostruendo la storia, giunge ora l’ora di richiamare l’attenzione sulla didattica a cui si sono dedicati, e molti si stanno dedicando ancora oggi: maestro e allievi della Scuola hanno inteso mettere idealmente a disposizione dei giovani studenti quanto hanno elaborato nel corso delle ricerche via via promosse, svolte e discusse, collaborando alla formazione di coloro che fanno propri i complessi orientamenti scientifici e culturali intensamente coltivati nel corso degli anni. È ben noto, tra l’altro, come l’esperienza didattica metta insieme il piacere della ricerca con quello proprio dell’insegnamento, ed entrambe costituiscono la funzione docente nella sua massima espressione. Questa e quello si può ben dire che è stato attuato in diverse occasioni in cui si è fatta didattica sia nel settore socio-antropologico che in quello propriamente semiotico-culturale: che si trattasse di incontri seminariali nelle scuole superiori, nei comuni e nelle province, o di corsi di formazione attivati presso scuole con corsi post-diploma, com’è avvenuto per alcuni anni nel caso degli IFTS (Istruzione Formazione Tecnica Superiore).
Non c’è alcun dubbio però che, nel quadro che stiamo disegnando, sono due le esperienze formative strutturate e organizzate cui maestro e allievi della Scuola si sono più dedicati svolgendo attività di docenza. La prima è costituita dai corsi annuali di formazione in Beni culturali che tra gli anni Settanta e gli Ottanta si son tenuti nella città di Trapani. Su iniziativa del locale Rotary Club e con il contributo dell’Ordine dei medici guidato dal dott. Giuseppe Garraffa, dal 1974 a fine anni Ottanta, qui ha operato la Libera Università del Mediterraneo che ha promosso e tenuto ogni anno corsi di formazione nel settore umanistico: si intendeva così andare incontro alle richieste cui il mondo istituzionale (scuole, università, master ecc.) non riusciva a rispondere e che solo negli anni successivi cominciarono a essere soddisfatte; per altro verso, obiettivo di sfondo intendeva essere anche quello di far crescere una struttura para-universitaria post-diploma che rispondesse alle esigenze delle famiglie della provincia trapanese, oltre che della popolazione studentesca. Ora che l’esperienza si è conclusa, è giusto dire e ribadire che una risposta a simili esigenze è stata resa possibile, appunto, grazie all’impegno dei docenti della Libera Università e ai suoi più stretti collaboratori. Il maggiore coinvolgimento della Scuola si è incentrato sul Corso di Beni culturali, com’è facile comprendere, corso che, accanto ai tre settori tradizionali (artistico, archeologico e bibliotecario), prevedeva per la prima volta un’offerta didattica basata sui Beni etnoantropologici con insegnamenti di Storia delle tradizioni popolari, Etnologia e Antropologia culturale. A questi si accompagnavano argomenti di folklore regionale, con la presentazione di una ben precisa tipologia dei Beni etnoantropologici: festa, teatro e cultura popolare, dialetto e cultura orale, opera dei pupi. Regolari esami di fine corso articolati in tre sessioni annuali concludevano la didattica che, riletta oggi sui registri cartacei allora disponibili, risulta regolarmente svolta dall’anno 1974/75 all’anno 1984/85 anche grazie alla disponibilità di allievi e colleghi.
Il secondo, ma ben più grande, impegno che ha visto la Scuola grandemente coinvolta nell’attività didattica è costituito dai Corsi di laurea triennali attivati di seguito alla Riforma universitaria di fine anni Novanta (Legge Berlinguer e D.M. 509/1999). All’Università di Palermo è stato allora istituito un corso di laurea triennale in Beni Demoetnoantropologici incentrato su quel particolare settore dei Beni culturali, in passato fatti confluire tra i Beni storici, che intendeva formare «esperti operatori che svolgessero attività professionale in enti locali e istituzioni specifiche come sovrintendenza, musei e biblioteche» (com’è dato leggere negli annuali documenti di programmazione). L’offerta formativa, partendo da una base generale di insegnamenti umanistici, offriva collegamenti sempre più ampi e definiti con discipline specialistiche del corso: tra le materie e i moduli non opzionali il piano di studi prevedeva appunto «storia delle tradizioni popolari, antropologia culturale, letteratura italiana, architettura e storia del paesaggio, legislazione dei beni culturali, laboratori di cultura materiale, dialettologia linguistico-etnografica, informatica per i Beni Dea, scrittura antropologica»[24]. In seno al complesso degli insegnamenti una componente di rilievo risultava costituita dal taglio storico-artistico connesso all’arte popolare nelle sue diverse espressioni, secondo quanto riferibile alla tradizione isolana e alla sua storia culturale: tale è il caso dell’arte del carretto, della pittura su vetro, di canti e musiche popolari.
Al corso di laurea triennale seguiva un corso di laurea specialistica in Etnologia e antropologia culturale attivato nel 2004 di seguito alla legge di riforma (D.M. 270/2004). Di durata biennale, esso intendeva formare figure professionali «di elevata responsabilità in strutture preposte ai servizi sociali, educativi e scolastici, alla pianificazione territoriale, alla cooperazione internazionale e allo sviluppo, alle dinamiche sociali, con particolare attenzione ai problemi della comunicazione interculturale; potranno anche operare in strutture preposte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale delle comunità locali e nazionali, oltre che all’apprendimento e diffusione delle conoscenze etnoantropologiche in ambito nazionale e internazionale». In tale quadro, tra le discipline e i moduli non opzionali, si ritrovano insegnamenti di «antropologia e etnoantropologia, tradizioni popolari e etnografia, sociologia dei processi culturali e comunicativi, ecologia e urbanistica, arboricoltura e culture arboree, storia delle religioni e storia del cristianesimo, museologia e critica artistica e del restauro». Seguono insegnamenti di «civiltà indigene dell’Africa, civiltà precolombiane, sociologia dell’ambiente e del territorio, demografia e slavistica»[25].
Relativamente alla formazione post-laurea, al corso di laurea in Lettere e ai nuovi corsi di laurea triennale e specialistica ha fatto seguito uno specifico Dottorato di ricerca in etnoantropologia, attivato dall’Università di Palermo in consorzio con Cosenza e Roma La Sapienza, che ha operato per un breve periodo, fino ai primi anni Duemila. In realtà è da dire che la stessa offerta didattica della laurea triennale e della specialistica non è andata oltre i cinque anni di durata, allo scadere dei quali i due corsi non sono stati più attivati perché risultavano insufficienti a soddisfare i rigidi criteri di docenza previsti dalla nuova legge che aboliva i contratti con esperti del settore. L’attività didattica è andata dunque riducendosi anno dopo anno sino a spegnersi del tutto, suscitando rimpianti fra gli studenti e facendo avvertire al contempo la mancanza di nuovi progetti formativi nel settore. Dell’esperienza trapanese, come di quella dei due corsi universitari, restano però innegabili la capacità e la disponibilità alla didattica che i collaboratori della Scuola hanno saputo attivare senza sovrapposizioni inutili e con sempre nuovi arricchimenti di quanto avevano via via elaborato sul piano scientifico e culturale.
Dalla Scuola alla facoltà: didattica e attività di formazione al Servizio sociale
E giungiamo così al 1979, anno in cui Buttitta succede a Giusto Monaco nell’incarico di Presidenza della Facoltà di Lettere dell’Ateneo palermitano. Un incarico che, sia pur pesante per la mole di studenti e per la quantità di progetti da far andare avanti, viene svolto in un modo che altri hanno avuto modo di valutare: da facoltà eminentemente letteraria e filosofica, ancora chiusa ai nuovi saperi, Lettere si avvia a trasformarsi in facoltà multidisciplinare e aperta a sempre nuovi sviluppi, dalla semiotica all’antropologia culturale, alla sociologia nei corsi di diploma in Servizio sociale alla cui attivazione il Nostro non si sottrae venendo incontro alla crescente richiesta delle scuole professionali.
Nei fatti, da metà anni Ottanta a oggi la Facoltà si è impegnata in nuove attività didattiche: tra le tante, tra cui il corso di Beni Dea già richiamato, si pone il corso triennale di Servizio sociale la cui gestione è stata tolta alle Scuole private che lo avevano curato fino al 1985 ed è stata affidata alle università. Quella messa in opera a partire dall’a.a. 1985/86 è una struttura di facoltà, com’è facile capire, e non può farsi rientrare tra le attività della Scuola, ma per i motivi su indicati quest’ultima si è rivelata altrettanto presente e operante in almeno due sensi: il primo perché, tra i settori disciplinari previsti, non può mancare quello antropologico per cui vi rientra con piena ragione; il secondo perché, alla richiesta del Ministero di attivare i corsi in questione in facoltà politico-sociali, nell’Ateneo palermitano non sono le facoltà di Giurisprudenza e di Scienze politiche ad attivare quei corsi, ma è la Facoltà di Lettere, di cui allora era preside appunto Nino Buttitta, pur carente di insegnamenti giuridico-sociali e psicopedagogici. Venendo incontro alle esigenze espresse dalle scuole di formazione prima operanti, almeno una per provincia, nel passaggio dalle scuole all’università la facoltà, d’intesa con l’Ateneo, si è impegnata ad attivare Scuole dirette a fini speciali e poi Diplomi universitari nei centri dove prima operavano le scuole: due a Palermo (Esis e Mattarella) e poi Agrigento, Caltanissetta e Trapani. Questo è accaduto anche se, nel giro di dieci anni, a sopravvivere saranno solo in due (Palermo e Agrigento) poiché per la Legge 240/ 2010 le altre venivano a mancare dei requisiti didattici fissati dal Ministero, docenti di ruolo innanzitutto.
Relativamente al caso specifico di Palermo, prima di allora era stato l’E.SI.S (Ente Siciliano di Servizio Sociale) a operare, gestendo la Scuola Italiana di servizio sociale Cesare Vittorelli, sorta a Palermo già nel 1946. Di seguito all’istituzione dei percorsi universitari per la formazione degli assistenti sociali, riconoscendone la dovuta competenza formativa, l’Università ha proceduto a stipulare con l’Esis specifiche convenzioni per il sostegno ai nuovi corsi di laurea comprensivo di cura della formazione di base, della formazione continua degli assistenti sociali e degli operatori del comparto socio-assistenziale, formazione dei supervisori per l’organizzazione di tirocini come sperimentazione dei servizi sociali nel territorio palermitano. Non ci vuol molto a comprendere il ruolo fondamentale e quasi esclusivo che in quel contesto finiscono con lo svolgere docenti e assistenti che in un modo o nell’altro rientrano nella Scuola antropologica palermitana. Ecco perché riteniamo giusto far rientrare anche quest’ultima esperienza tra le attività didattiche più significative della Scuola.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
[*] Si pubblica una prima parte di un corposo saggio dell’autore dal titolo Le Scienze Sociali per i Beni culturali in Sicilia, in corso di stampa.
Note
[1] Avvertiamo che il lavoro qui presentato non si incentra sulle persone (studiosi o allievi che siano), ma sulle aree di ricerca con le iniziative e le attività svolte in seno alla Scuola. Per questo motivo, non essendovi richiamati opere e autori, riteniamo doveroso richiamare in partenza, tutti coloro che, da amici più che da colleghi, hanno operato e interagito nella, e con la Scuola, a partire dal maestro Antonino Buttitta (detto Nino): Giuseppe Aiello (detto Pino), Nara Bernardi, Sergio Bonanzinga, Girolamo Cusimano (detto Gigi), Antonino Cusumano (detto Tonino), Gabriella D’Agostino, Antonino Di Sparti, Salvatore D’Onofrio (detto Totò), Fatima Giallombardo, Vincenzo Guarrasi (detto Enzo), Elsa Guggino, Lucio Melazzo, Silvana Miceli, Elio Marchetta, Gianfranco Marrone, Gaetano Pagano, Antonio Pasqualino, Caterina Ruta, Jole Scavone Trupia, Orietta Sorgi, Alberto Tulumello, Janne Vibaek, per finire con i giovani Ignazio Emanuele Buttitta (detto Ninuzzo) e Rosario Perricone, … e con chi scrive. Alcuni non sono più con noi ma, a nome del comune maestro, sento di dover rivolgere loro il ringraziamento più affettuoso per la disponibilità ad apprendere e rielaborare i saperi e i metodi dell’antropologia buttittiana, disposti di volta in volta a riprendere e rilanciare quanto appreso nelle attività didattiche che hanno tenuto o che stanno ancora portando avanti.
[2] Assistente di Storia delle tradizioni popolari all’Università di Palermo, è stato incaricato e poi stabilizzato di Etnologia; dal 1976 è stato ordinario di Antropologia culturale e docente per alcuni anni allo IULM di Milano. Ha diretto l’Istituto di Etnologia e geografia, ridenominato poi Scienze antropologiche e geografiche, è stato direttore del Dipartimento di Beni Culturali e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1979 al 1992. Per anni è stato segretario regionale e poi deputato PSI nella XI Legislatura (1992/96).
[3] M. Niola, Addio a Buttitta, portò l’antropologia italiana nelle scuole internazionali, in “Repubblica”, 3 febbraio 2017.
[4] A. Cusumano, Antonino Buttitta un maestro di umanità, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 24, marzo 2017.
[5] A. Cusumano, Vivere per raccontare, in A. Buttitta, Orizzonti della memoria. Conversazioni con Antonino Cusumano, Ernesto Di Lorenzo ed., Alcamo 2015: 13-16.
[6] O. Cancila, Palermo, Laterza, Roma-Bari 1999: 325-26.
[7] A. Buttitta, I miei maestri, in A. Buttitta, Orizzonti, cit.: 68.
[8] Una testimonianza sta in Ricordo di Marcello di Andrea Camilleri, collega di studio di Marcello Carapezza, di cui introduce Molti fuochi ardono sotto il suolo (2007), raccolta di saggi pubblicata postuma dall’editore Sellerio.
[9] G. Bonomo, Ricordo di Giuseppe Cocchiara, “Uomo & Cultura”, n. 1-2, 1968.
[10] A. Cusumano, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, Museo Pasqualino ed., Palermo 2020: 335.
[11] Dalla consultazione degli schedari della biblioteca d’Istituto, oggi Dipartimento Culture e società, e dopo aver compulsato il Sistema bibliotecario nazionale (SBN), le Biblioteche Unipa e Google books, vien fuori un numero enorme di titoli, dai 30 dell’ultimo ai 168 del primo anno. A parte Rime e canti popolari del Risorgimento (Università di Palermo, 1960), la produzione scientifica del maestro comprende: Cultura figurativa popolare in Sicilia, Flaccovio, Palermo, 1961; Ideologie e Folklore, Flaccovio, Palermo, 1971; La pittura su vetro in Sicilia, Sellerio, Palermo, 1972; Introduzione allo studio della fiaba e del mito (con S. Miceli), Flaccovio, Palermo, 1973; Costumi siciliani (a cura di), EDRISI, Palermo, 1976; Il vino in Sicilia (con G. Cusimano), Sellerio, Palermo, 1977; Il lavoro contadino nei Nebrodi (con S. D’Onofrio e M. Figurelli), STASS, Palermo, 1977; Pasqua in Sicilia, Grafindustria editoriale, Palermo, 1978; Semiotica e Antropologia, Sellerio, Palermo, 1979; La terra colorata (con S. D’Onofrio), STASS, Palermo, 1982; Il carretto racconta (a cura di), Giada Ed., Palermo, 1982; Gli ex-voto di Altavilla Milicia, Sellerio, Palermo, 1983; Dove fiorisce il limone , Sellerio, Palermo, 1983; Il Natale. Arte e tradizioni in Sicilia, Edizioni Guida, Palermo, 1985; Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali in Sicilia (a cura di), Flaccovio, Palermo, 1988; Percorsi simbolici (con S. Miceli), Flaccovio, Palermo, 1989; Le feste di Pasqua (a cura di), Sicilian Tourist Service, Palermo, 1990; Pane e festa (con A. Cusumano), Guida, Palermo 1991; L’effimero sfavillio. Itinerari antropologici, Flaccovio, Palermo, 1995; Dei segni e dei miti. Una introduzione alla antropologia simbolica, Sellerio, Palermo, 1996; Il mosaico delle feste. I riti di Pasqua nella provincia di Palermo (con P. Guidolotti), Flaccovio, Palermo, 2003; Mito, fiaba, rito, Sellerio, Palermo, 2016; Antropologia e letteratura (con E. Buttitta), Sellerio, Palermo, 2018.
[12] P. Clemente, Antropologia e Sardegna. In memoria di Clara Gallini e Giulio Angioni. Una scuola antropologica sarda?, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 24, marzo 2017.
[13] A. Cusumano, Teorie e pratiche di antropologia museale in Sicilia, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 37, maggio 2019.
[14] A. Cusumano, Per fili e per segni, cit.:21.
[15] Negli anni precedenti la riforma dell’Università nel settore etnoantropologico della facoltà di Lettere di Palermo operavano l’Istituto di Storia delle tradizioni popolari, che curava gli Annali del Museo Pitrè e la rivista Sicilia, e quello di Etnologia, che curava Uomo & Cultura.
[16] Diamo qui di seguito un rapido elenco di volumi tra quelli che compongono la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, inaugurata da Le lettere, le arti, le scienze in Sicilia nel 1871-72, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1872: Studi di poesia popolare, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1872; Saggio di fiabe e novelle popolari siciliane, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1873; Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1875 (quattro volumi, il primo dei quali è il Saggio d’una grammatica del dialetto e delle parlate siciliane); Usi natalizi, nuziali e funebri del popolo siciliano, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1879; Proverbi siciliani confrontati con quelli degli altri dialetti d’Italia, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1880 (quattro volumi); Spettacoli e feste popolari siciliane, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1881; Il Vespro Siciliano nelle tradizioni popolari della Sicilia, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1882; Giuochi fanciulleschi siciliani, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1883; Avvenimenti faceti raccolti da un anonimo siciliano nella prima metà del secolo XVIII, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1885; Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, L. Pedone Lauriel, 1889 (quattro volumi); Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, Torino, C. Clausen, 1894; Medicina popolare siciliana, Torino, C. Clausen, 1896; La vita in Palermo cento e più anni fa, Palermo, A. Reber, 1904 (due volumi); Medici, chirurgi, barbieri e speziali antichi in Sicilia (secoli XIII-XVIII), Palermo, A. Reber, 1910; Cartelli, pasquinate, canti, leggende, usi del popolo siciliano, Palermo, A. Reber, 1913; La famiglia, la casa e la vita del popolo siciliano, Palermo, A. Reber, 1913.
[17] Dopo il 1965, con l’abbandono dell’edificio storico dell’Università posto ai Quattro Canti di città, Storia delle tradizioni popolari fu trasferita nella nuova Facoltà di Lettere in viale delle Scienze, al terzo piano, ed Etnologia al primo piano, in uno spazio attiguo al corridoio; Geografia fu invece trasferita al Villino Partanna di piazza Marina. Di seguito alla creazione dell’Istituto di scienze antropologiche e geografiche, Etnologia e Antropologia passarono a occupare i locali dell’ex Sump e nello stesso edificio si insediò Sociologia. Negli anni successivi per le discipline antropologiche fu reso disponibile il quarto piano di un palazzo di piazza Ignazio Florio, al confluire di via Roma con via E. Amari. Da circa un decennio ormai, di seguito alla creazione del Dipartimento di Culture e società, sia le antropologie che le sociologie sono insediate nei locali dell’ex Sump (oggi ed. 2, attiguo alle attuali segreterie studenti.
[18] A. Buttitta, Orizzonti, cit.: 79-81.
[19] Con riferimento ai seminari e alle conferenze che si tenevano all’ISIDA, Nuccio Vara, giornalista RAI, ricorda come negli anni Settanta uno dei luoghi più frequentati dai giovani studenti fuorisede fosse il Circolo semiologico al palazzetto liberty di via Libertà. Cfr. Idem, Fra il diavolo e l’acqua santa. Fede e politica negli anni dell’utopia, Ist. Poligrafico Europeo, Roccapalumba 2018.
[20] I. Susa, Scienza e democrazia, in “Scienza & società”, ed. Egea, Roma 2014.
[21] M. Giacomarra, La cultura materiale: censimento e fruizione, in AA.VV. (1980) e J. Vibaek, Il censimento dei beni etnoantropologici della Regione siciliana: analisi della scheda “strumenti di lavoro”, in AA.VV. (1984).
[22] A. Cusumano, Il museo etnoantropologico della Valle del Belice. Quaderni del laboratorio antropologico, Università di Palermo 1986.
[23] Indichiamo qui di seguito tutte le mostre temporanee allestite fra il 1976 e il 1980: Caronia (agosto 1976); Palermo, Museo delle marionette (marzo 1977); Campobello di Mazara (novembre 1977); Palermo, Assessorato regionale al turismo (novembre 1978); Castellana Sicula (agosto 1979); Palazzo Adriano (agosto 1979); Polizzi Generosa (agosto 1979); Vallelunga (settembre 1979); Palma di Montechiaro (novembre 1979); Marineo (dicembre 1979); Villalba (gennaio 1980); Caltavuturo (gennaio 1980); Petralia Sottana (marzo 1980); Palermo, Società siciliana per la storia patria (aprile 1980); Castellammare del Golfo (agosto 1980); San Giuseppe Jato (ottobre 1980); Santo Stefano Quisquina (dicembre 1980).
[24] Le indicazioni virgolettate provengono dalla Guida alla facoltà di Lettere e filosofia a.a. 2007/08 della Università di Palermo. Si tenga presente però che leggeri cambiamenti venivano apportati in base alle esigenze che si presentavano col passare degli anni.
[25] Ibidem.
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Mario G. Giacomarra, di formazione antropologica e docente di Sociologia della Comunicazione all’Università di Palermo, è stato l’ultimo Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia prima della sua confluenza nella Scuola delle Scienze umane e del Patrimonio culturale. Si è occupato a lungo di migrazioni e dei processi di integrazione, mettendo a confronto i fenomeni della contemporaneità con quelli che hanno determinato le minoranze storiche galloitaliche nel XII secolo e albanesi nel XV. Tra le pubblicazioni su questi temi si segnalano: Immigrati e minoranze. Percorsi di integrazione (1994); Migrazioni e identità. Il ruolo delle comunicazioni (2000); Condizioni di minoranza oggi. Gli albanesi di Sicilia fra etnicismi e globalizzazione (2003). Ha curato nel 2006 gli Atti del Congresso Isole. Minoranze migranti globalizzazione, promosso dalla Fondazione Buttitta. Ha pubblicato anche: Una sociologia della cultura materiale (2004); Fare cultura in Sicilia (2007); Comunicare per condividere (2008); Il piacere di far libri. Percorsi di editoria in Sicilia (2010); Sharing Sociology. Il ruolo della comunicazione nella sociologia della condivisione (2016).
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