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La Tunisia, tra inflazione, emigrazione e resistenza

Tunisi, mercato (ph. Giada Frana)

Hamman Lif, mercato (ph. Giada Frana)

di Giada Frana 

Salwa varca la soglia dell’hattar, il piccolo negozietto vicino casa che equivale a quello che un tempo erano le nostre drogherie. Si vende di tutto: alimentari, dal latte, allo yogurt, a biscotti, merendine e pane fresco, fino ai prodotti per la pulizia della casa. Prende un pacco di farina e chiede se per caso è arrivato finalmente lo zucchero. Il negoziante fa segno di no con la testa. E la semola? Si guarda attorno, nessun altro cliente li sta osservando, e infila di nascosto un pacchetto nel sacchetto di Salwa, dicendole sottovoce di non dire in giro che è arrivata. Salwa è una sua cliente di fiducia, per lei può fare un’eccezione.

È ormai da un anno a questa parte che scene del genere sono entrate a far parte nella vita quotidiana dei tunisini. Farina, semola, riso, zucchero e caffè, sono i beni che di volta in volta mancano per settimane. Una situazione che si ripete ciclicamente, senza sapere se e quando questi prodotti torneranno disponibili. Un circolo vizioso continuo, che alla lunga sfinisce la popolazione, unitamente ad altri problemi che si ritrovano ad affrontare. A volte questi prodotti sono reperibili al mercato nero, al doppio o al triplo del prezzo, e quando ricompaiono, sono razionalizzati: uno o due chili a testa massimo. Con conseguenze anche per le varie attività commerciali: ad esempio, diversi panifici, non avendo più la farina sovvenzionata dallo Stato, hanno chiuso i battenti; quelli che resistono sfornano ormai solo una volta al giorno, mentre prima il pane era garantito per tutta la giornata, in modo continuo.

«La settimana scorsa, la mia famiglia è riuscita a procurarsi il pane solo tre volte» afferma Samia, che abita al Kef, una cittadina a nord ovest del Paese, al confine con l’Algeria. Sonia, che ormai da un anno si è trasferita all’estero con la famiglia, quando parla con le amiche rimaste in Tunisia, si dice sollevata di non avere più a che fare con queste problematiche e di potersi recare a fare la spesa senza la preoccupazione di non trovare qualcosa. 

Biserta, Donna col sefseri al mercato (ph. Giada Frana)

Bizerte, Donna col sefseri al mercato (ph. Giada Frana)

Inflazione ed emigrazione 

L’inflazione per il mese di maggio ha avuto una leggera diminuzione (si è passati dal 10,3% al 9,6%), ma non è stata accompagnata da una diminuzione dei prezzi. Questi ultimi in un anno, hanno infatti subito un aumento del 15,9%, che ha riguardato principalmente le carni ovine (+31,2%), le carni dei volatili (+28,2%), le uova (+25,6%), gli olii alimentari (+23,4%) e le carni bovine (+21,1%). «Riso, farina, semola, pane, caffè, latte e benzina sono i beni che mancano dal mercato tunisino nelle ultime settimane – racconta Samira, di Tunisi. Le aziende producono e i prodotti scompaiono completamente, per poi ricomparire in piccole quantità sul mercato nero dove si pagano il doppio o il triplo. I prezzi sono alle stelle, superiori anche a quelli europei. Un ragazzo dell’età di mio fratello è stato aggredito e ferito dalla polizia e resterà cieco per tutta la vita. Poi vi chiedete perché la gente sale sui barconi e affronta il mare: la morte è meglio di questo inferno».

A voler emigrare dal Paese, non solo giovani tunisini che vogliono costruirsi un avvenire altrove, ma anche italiani che vivono in Tunisia da decenni, guadagnando e vivendo con la moneta locale. Per chi infatti guadagna in dinari, la situazione non è più sostenibile come un tempo.

Monia, sposata con un cittadino tunisino, da vent’anni a Tunisi, è tra gli italiani che stanno programmando il rientro in Italia. Il grande passo verrà fatto appena il figlio più grande avrà i risultati dell’esame di maturità: 

«Ormai dal post Rivoluzione noi come famiglia tunisina – perché guadagniamo in dinari tunisini e la nostra quotidianità è quella di una famiglia tunisina, dalla spesa, al modo di vestirci e al cibo – quello a cui abbiamo assistito è un degradarsi della qualità della nostra vita, parallelamente a un peggioramento della situazione socioeconomica del Paese. Sulla scelta del rientro in Italia giocano due fattori: quello economico e quello socioculturale. Mi rendo conto che per chi non vive con i dinari tunisini è difficile capire che il budget per una famiglia come la nostra ad esempio, di quattro persone, due adulti e due adolescenti, è il doppio se non il triplo di quanto spenderebbe una stessa famiglia in Italia. Ci sono tutta una serie di fattori, principalmente i servizi, che incidono notevolmente sulle spese. Tradotto, per chi ha figli, nelle scuole, nell’assistenza sanitaria e via dicendo, per cui noi dobbiamo rivolgerci necessariamente al privato, mentre invece in Italia ci si può affidare al pubblico, nonostante la criticità sui tagli alla sanità pubblica. Ad esempio, l’anno scorso per un intervento banale e non urgente, mi ero informata: in Lombardia avrei avuto il tempo d’attesa di un anno, ma sarebbe stato gratuito, mentre qui ho dovuto spendere tremila dinari (circa 890 euro), per un intervento in day hospital. Per non parlare dell’istruzione: senza scendere nei dettagli della fatiscenza di alcune strutture scolastiche e della frequente non presenza dei professori, anche i tunisini ultimamente si rivolgono al privato. A conti fatti, per quella che è oggi la nostra situazione economica, tutto ciò che per un italiano è la normalità, mangiare carne tutti i giorni, burro, surgelati, e via dicendo, è diventato un lusso, per non parlare dei costi per l’igiene della persona e della casa. Inoltre dobbiamo avere un’auto, perché i trasporti sono quelli che sono, e anche la benzina è aumentata. Parallelamente a ciò c’è un degradarsi terribile della situazione sociale del Paese: a questo punto non troviamo più nessun vantaggio nel rimanere in Tunisia. Anche nell’ottica di dare delle maggiori opportunità ai nostri figli, sebbene viviamo qui da molto tempo, abbiamo deciso di andarcene. Nei gruppi Facebook degli italiani in Tunisia, animati per lo più da pensionati, non figurano gli italiani che come me conducono una vita più simile a quella dei tunisini. Ma tra questi italiani, tantissimi stanno pensando di rientrare in Italia. Un’altra realtà di cui non si parla». E aggiunge: «Ieri un amico di mio marito, un poliziotto tunisino, ci ha informato di aver mandato moglie e figli in Francia. È strano ciò che sta succedendo: sta partendo chiunque, anche persone che non avresti mai pensato che potessero lasciare il Paese. È tutto talmente irreale, come una sorta di fuga di massa». 
Tunisi, mercato

Bizerte, venditore di gelsi (ph. Giada Frana)

I pensionati e la crisi 

Molti pensionati od expats che vivono nel Paese, avendo entrate in euro, sembrano non accorgersi delle difficoltà della gente comune. Un euro è arrivato a quasi 3 dinari e mezzo: nel 2016 ne valeva due e mezzo. La Tunisia sta cominciando a spopolarsi dei suoi giovani, per accogliere tra le sue braccia pensionati europei: italiani, francesi, ma non solo, che sfuggono dal carovita delle città europee trovando nel Paese che ha dato il via alla Primavera araba una seconda opportunità, dove poter vivere dignitosamente e permettersi sfizi che spesso si sognerebbero nel Paese natio. La defiscalizzazione, unita al clima, alla vicinanza al Paese natale, e il ritorno a un ritmo rallentato, fa della Tunisia una delle cinque mete preferite dai pensionati.

Ma la vita non è appunto così semplice per il resto della popolazione che guadagna invece in dinari, siano essi tunisini o stranieri. «Per arrivare a fine mese, a causa degli aumenti dell’ultimo anno, spendo il doppio di prima, pur acquistando gli stessi prodotti – riferisce Alessia, in Tunisia da dieci anni – eppure stiamo molto attenti e non viviamo sopra le righe».

«Sto insegnando italiano ai ragazzi che vogliono proseguire i propri studi universitari in Italia – racconta Amal, di Bizerte – e li incoraggio dicendo loro di fare un’esperienza all’estero e poi tornare per fare qualche progetto nel loro Paese. Ma io stessa sto per lasciarlo, per poter avere delle opportunità migliori: ho avuto un’offerta interessante per l’Arabia Saudita. Nel mio paesino di origine, a qualche chilometro da qui, non ci sono più giovani, si è completamente svuotato. Ma ottenere un visto per l’Europa non è affatto semplice: perché non aprire le frontiere, come lo erano in passato? Di cosa si ha paura?». 
Kairouan, negozio di dolici e grissini

Kairouan, negozio di dolci e grissini (ph. Giada Frana)

Camminando in Place Barcelone, vicino alla stazione dei treni di Tunisi, la città è immersa nel suo solito tran tran. “Un dinaro, un dinaro”, grida un venditore del fripe, le bancarelle del mercato dell’usato. Bancarelle improvvisate, dove si trovano soprattutto vestiti e scarpe, che spesso provengono dall’Europa e che qui trovano una seconda vita. Le persone – donne soprattutto – si accalcano, alla ricerca del capo migliore da portarsi a casa.

È venerdì mattina, Tunisi si risveglia piano piano, tra vocii, colori e profumi – quelli del tipico street food – che si espandono nell’aria. Verso Avenue Bourguiba, luogo indiscusso delle manifestazioni oceaniche che hanno rovesciato nel 2011 l’ex dittatore Ben Ali, il via vai di gente è continuo. Si trovano anche diversi mendicanti e senza fissa dimora. Secondo l’inchiesta nazionale sul budget, consumazione e livello di vita pubblicata dall’INS, l’Istituto Nazionale della Statistica, a febbraio 2023, il tasso di povertà in Tunisia è passato dal 15,2% del 2015 al 16,6% nel 2021. Per “povera”, si intende una persona la cui spesa annuale è inferiore a 2.536 dinari (circa 752 euro). In generale, l’inchiesta mostra un aumento della povertà in diverse regioni del Paese: il centro ovest rimane la zona più svantaggiata, dove il tasso di povertà è passato dal 30,8% nel 2015 al 37% nel 2021. Il divario tra ricchi e poveri diventa sempre più evidente. 

Tunisi, mercato (oh. Giada Frana)

Bizerte, mercato del pesce (oh. Giada Frana)

Lo Stato tunisino a rischio default 

Lo Stato tunisino è a rischio default, tanto che l’agenzia Fitch Rating ha recentemente declassato la Tunisia a “CCC”, uno status che «riflette l’incertezza per la capacità della Tunisia di mobilitare i fondi sufficienti per rispondere al suo bisogno di finanziamento. (…) Il nostro scenario prevede un accordo tra la Tunisia e il Fondo Monetario Internazionale da qui alla fine dell’anno, ma è molto più tardivo rispetto alle nostre previsioni precedenti e i rischi restano elevati».

L’accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un prestito di 1,9 miliardi di dollari è infatti slittato: le condizioni chieste dal primo, in particolare modo l’eliminazione delle sovvenzioni statali che riguardano determinati beni di prima necessità (tra cui la farina, il pane e il carburante) non sono state accettate dal Presidente Kais Saied, che ha evocato il rischio di una nuova cosiddetta “rivolta del pane”, che si ebbe nel dicembre 1983 proprio in seguito all’eliminazione delle sovvenzioni sui prodotti cerealicoli e che costrinse l’allora presidente Bourguiba a ritirare le misure austere introdotte.

Tunisi, mercato (ph. Giada Frana)

Bizerte, il fripe, mercato dell’usato (ph. Giada Frana)

Il FMI chiede inoltre tagli alla spesa pubblica (la massa salariale è tra le spese più importanti, rappresenta il 14,2% del PIL, tra le più alte al mondo) e la riduzione delle imprese statali. Ma la privatizzazione delle imprese pubbliche porterebbe servizi come trasporti, elettricità e gas a un aumento non indifferente: si stima che questi ultimi aumenterebbero rispettivamente del 30% e 15%. Le critiche contro le richieste del FMI sono mosse anche da altre realtà tunisine, che sottolineano come altri Paesi che hanno accettato le sue misure, si siano trovati in un circolo di debiti da cui non riescono ad uscire.

L’ONG Al Bawsala in un suo recente rapporto ha evidenziato come i prestiti accordati a delle condizioni standardizzate non risolvano le crisi nazionali. L’Ugtt, il principale sindacato del Paese, che era inizialmente contrario alla privatizzazione delle aziende, ha cambiato recentemente la sua posizione e propone un approccio caso per caso. Nonostante alcune siano misure integrate nella Legge di Finanza 2023, non sono ancora state attuate, proprio perché il Presidente sostiene di voler «preservare la pace sociale». Non è la prima volta che la Tunisia, negli ultimi anni, rifiuta le richieste del FMI. Ma al momento non è chiara quale possa essere la via d’uscita. Per il 2023 il budget che serve è di 53,9 miliardi di dinari (circa 17 miliardi di euro). Il debito pubblico ha raggiunto 35 miliardi di dinari. 25 miliardi di dinari non entrano nelle casse dello Stato a causa dell’evasione fiscale massiccia, che potrebbe essere ridotta con un sistema fiscale più equo. 

Tunisi (ph. Giada Frana)

Tunisi, Porte de France (ph. Giada Frana)

L’autoritarismo di Saied 

Sono passati quasi due anni dal 25 luglio 2021, giorno in cui il Presidente Kais Saied ha congelato il Parlamento, per poi successivamente chiuderlo del tutto e mandare a casa i parlamentari regolarmente eletti. Sono seguiti un Referendum – senza quorum – per la redazione di una nuova Costituzione e delle elezioni politiche con una partecipazione bassissima. Al secondo turno di queste ultime, solo l’11,3% dei Tunisini – dati Isie, l’Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni – si è recata alle urne, 4,84% il tasso di partecipazione degli elettori tra i 18 e i 25 anni. Si tratta della percentuale più bassa nella storia del Paese dal post Rivoluzione ad oggi.

Eppure Saied continua a godere del consenso della maggior parte della popolazione, nonostante l’autoritarismo sia sempre più evidente. Secondo l’ultimo sondaggio di Emrhod Consulting, richiesto dal sito Business News e dal canale televisivo Carthage Plus, diffuso il 16 giugno 2023, in caso di elezione presidenziale, Saied vincerebbe al secondo turno con il 68,7% delle intenzioni di voto. Il sondaggio è stato realizzato tra il 6 e il 9 giugno 2023, su un campione rappresentativo della società tunisina composto da 1.176 persone con più di 18 anni e provenienti dai 24 Governati del Paese.

La popolazione è contenta che finalmente Ennahda, il partito di ispirazione islamica, sia stato mandato a casa, poiché ritenuto il principale colpevole della situazione in cui versa la Tunisia. I politici erano ormai visti come lontani dalle istanze della popolazione, delusa dalla politica. E Saied sembrava essere l’uomo giusto per guidare il Paese: professore di diritto, uomo al di fuori dei partiti politici, era riuscito a conquistare la fiducia di giovani e meno giovani nelle elezioni presidenziali ad ottobre 2019.

Tunisi (ph. Giada Frana)

Le Kef, uno scorcio della medina (ph. Giada Frana)

Se la libertà di espressione sembrava essere una delle poche conquiste rimaste della Rivoluzione della dignità, con il decreto Legge 54 del settembre 2022, contro la “falsa informazione”, è ora minacciata. A febbraio Noureddine Boutar, direttore della Radio Mosaique Fm, è stato arrestato e rilasciato solo a fine maggio dietro il pagamento di una cauzione di un milione di dinari (pari a 301 mila euro) e con il divieto di viaggiare all’estero. Nel frattempo continuano i processi nei confronti dei giornalisti: tra gli ultimi casi, Khalifa Guesmi, giornalista della stessa radio, è stato condannato a cinque anni di prigione, una condanna senza precedenti nel Paese, come affermato da Reporters sans frontières.

Nell’ultimo rapporto dell’associazione, dedicato proprio alla libertà di stampa nel mondo, la Tunisia ha perso ben 23 posizioni rispetto al 2022, classificandosi al 121esimo posto su 180. Lo stesso SNJT, il Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, ha denunciato più volte il deteriorarsi della libertà di stampa, scendendo in piazza, parlando di regressione e di un ritorno alla prigione per il reato di opinione, situazioni che avvenivano con l’ancien regime. In piazza negli ultimi mesi si manifesta ancora, pro e contro Saied, contro l’ondata di razzismo verso i subsahariani che si è manifestata nei mesi scorsi (e che ha portato a un aumento vertiginoso delle partenze via mare), contro le visite della premier Giorgia Meloni, considerata “persona non grata” e le politiche migratorie europee. 

Tunisi (ph. Giada Frana)

Tunisi, medina (ph. Giada Frana)

Emergenza migranti? 

Negli ultimi mesi la Tunisia è tornata al centro dell’attenzione dei media e dell’Europa soprattutto in seguito a quanto successo ai subsahariani presenti nel Paese e a un aumento esponenziale delle partenze via mare di questi ultimi. Lo scorso 21 febbraio, durante una seduta del Consiglio di sicurezza nazionale, Saied ha annunciato l’intenzione di adottare «misure urgenti per far fronte al grande afflusso di migranti irregolari dall’Africa subsahariana», sottolineando che la loro presenza è causa di“ violenza, crimini e atti inaccettabili» e aggiungendo che «la migrazione clandestina fa parte di un complotto per modificare la demografia della Tunisia», con l’obiettivo di trasformarla «in un Paese solo africano e non più anche arabo e musulmano». Queste dichiarazioni hanno suscitato immediate reazioni di sdegno da parte di attivisti e organizzazioni della società civile tunisina, che hanno definito i commenti del Presidente “razzisti e discriminatori”.

Nei giorni successivi, molte associazioni di studenti africani in Tunisia hanno invitato i giovani ad essere prudenti e a prendere tutte le precauzioni necessarie, evitando di circolare in alcuni quartieri della città, e uscendo solo se necessario, comunque portando sempre con sé il passaporto e la carta di soggiorno. Diverse ambasciate si sono messe a disposizione per fornire supporto ai connazionali, organizzando anche dei voli di rimpatrio per chi ne ha fatto richiesta. Se il Ministero degli Esteri tunisino ha respinto le accuse di razzismo precisando che vi è stato un fraintendimento, e il Presidente tunisino si è affrettato a rassicurare la comunità sub-sahariana presente regolarmente nel Paese, le conseguenze di questo discorso sono state immediate. Aggressioni, arresti e sfratti sono stati registrati in molte zone del Paese.

Contemporaneamente, la società civile ha fatto sentire la sua vicinanza alla popolazione subsahariana, organizzando una marcia antirazzista nel centro della capitale tunisina. Ma questa stretta sui migranti subsahariani ha aumentato notevolmente le partenze di questi ultimi verso l’Italia,  portando l’Europa a parlare di emergenza. Ma è veramente tale? Dalla Tunisia, vista la sua posizione, si è sempre partito e sempre si partirà: molti subsahariani la considerano una terra di passaggio prima di compiere la traversata del Mediterraneo, spesso fatale. Ma non partono solo subsahariani: anche tunisini, ad oggi 3.300, il 7% degli arrivi in Italia. 

Biserta, Il vecchio porto (ph. Giada Frana)

Biserta, Il vecchio porto (ph. Giada Frana)

L’Unione Europea e il controllo delle frontiere 

E l’Unione Europea? Per gli Stati membri il problema sembra essere uno solo: l’arrivo massiccio dei migranti sulle coste europee. Secondo il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali, dal 1 gennaio al 31 maggio 2023 sono stati 23 mila 110 i migranti intercettati dalla guardia costiera tunisina, 10 volte di più dello stesso periodo del 2020. Il ministero dell’Interno italiano parla di oltre 47 mila migranti sbarcati finora. Non si fa che parlare di altro, e le visite dei vari capi europei nelle ultime settimane si susseguono senza tregua.

L’Unione Europea ha anche promesso aiuti economici alla Tunisia. L’11 giugno la presidente del consiglio Giorgia Meloni, il premier olandese Mark Rutte e la presidente dell’Ue Ursula Von Der Leyen sono volati a Tunisi per incontrare Saied. Da quest’incontro, è venuto fuori un programma di cooperazione che comprende 5 assi principali: sviluppo economico, investimenti, settore energetico, migrazioni (100 milioni di euro per controllare le frontiere e lottare contro l’immigrazione irregolare e gli scafisti, “nel rispetto dei diritti umani”), e le relazioni interpersonali, con 10 milioni di euro per supportare il programma di scambio universitario Erasmus+. Inoltre l’Ue avrebbe promesso un appoggio finanziario di 900 milioni di euro per sostenere e sviluppare l’economia e ulteriori 150 milioni per supporto al budget.

Maktar, Il collège (ph. Giada Frana)

Maktar, Il collège (ph. Giada Frana)

Ma di quale cooperazione e scambio culturale si può parlare, quando i visti per la Fortezza Europa sono sempre più difficili da ottenere? Di quali accordi economici ci si può vantare, quando vanno solo a favore dell’Europa e non tengono in nessuna considerazione anche i bisogni reali e le ragioni sociali dell’altro Paese? La stessa stampa tunisina è particolarmente scettica al riguardo:

«L’immigrazione non smetterà, per la semplice ragione che il desiderio d’Europa è per i popoli del sud incontenibile – si scrive in un editoriale su Tunisie Numerique. Non è dovuto solamente a una ragione economica, ma a un’irresistibile aspirazione alla libertà. È un tratto caratteristico dei popoli del Sud del Mediterraneo, i Greci, i Fenici, i Romani…. La Tunisia non potrà mai impedire ai subsahariani di emigrare in Europa. Inoltre non ha i mezzi di offrir loro delle alternative, dato che è in crisi economica e sociale permanente. (…)  I 150 milioni di euro annunciati dalla Presidente della Commissione europea, sono come una paghetta. Siamo lontani, ben lontani da un nuovo piano Marshall!».

Senza contare che l’Europa e l’Italia sovvenzionano da anni la Tunisia per il controllo delle frontiere: dal 2011 ad oggi sarebbero 59 i milioni di euro dati dall’Italia al Paese nordafricano. Soldi utilizzati soprattutto per l’acquisto di equipaggiamenti e mezzi per il controllo delle frontiere. Di questo aspetto se ne parla nel progetto “The big wall”, “Il grande muro” (https://www.thebigwall.org/), un osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori portato avanti da Action Aid Italia e IrpiMedia. Inoltra la Tunisia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo: ha ratificato la Convenzione di Ginevra del ’51 relativa al diritto di asilo, ma non ha mai approvato una vera e propria legge al riguardo. 

Amel di O livre (ph. Giada Frana)

Le Kef, Amel di O livre (ph. Giada Frana)

La Tunisia che resiste 

Se sono molti i Tunisini a voler emigrare, dall’altra parte negli ultimi anni ci sono stati anche diversi “tunisini di ritorno”, che dopo la cosiddetta Rivoluzione della dignità sono ritornati nel Paese e hanno voluto in qualche modo dare un loro contributo, nonostante le difficoltà. Ne è un esempio Lotfi Hamadi, imprenditore, nato in Tunisia, cresciuto in Francia, che dopo aver vissuto anche in Canada per diversi anni, è ritornato in Tunisia e ha dato vita all’associazione Wallah we can. Quest’ultima ha portato avanti un progetto pilota a Makhtar, migliorando il collège della cittadina dal punto di vista strutturale ma non solo, rendendolo energeticamente indipendente grazie all’installazione di diversi pannelli solari, promuovendo dei laboratori per i ragazzi, migliorando il dormitorio, creando una cooperativa agricola che dà lavoro ai loro genitori e rifornisce la mensa. Un progetto che presto sarà esteso ad altre realtà a livello nazionale.

A sinistra Azia e a destra Chaima (ph. Giada Frana)

Le Kef, a sinistra Azza e a destra Chaima (ph. Giada Frana)

E poi ci sono i giovani che decidono di rimanere nella propria regione d’origine, spesso dimenticata dallo Stato tunisino, e sviluppare progetti di valorizzazione del territorio. Come quello promosso dall’associazione Museum Lab, che al Kef ha restaurato e valorizzato diverse strutture all’interno della Medina, creando dei percorsi ad hoc che raccontino in modo interattivo le bellezze del territorio, con il supporto delle nuove tecnologie. O ancora Les graines mobiles di Chaima Arbi, sempre in questa città, che valorizza le semenze locali e conduce i visitatori alla scoperta della flora e della fauna del luogo; Cuisart di Azza Bdioui, che riporta al centro i sapori locali; O livre di Amel Moula, un piccolo negozio per l’acquisto di libri usati per grandi e piccini. Progetti resi possibili grazie al sostegno di Museum Lab (tutte e tre sono state beneficiarie dei progetti Patrimoni). O ancora Kachabella di Khadija Essefi, artigiana specializzata nella realizzazione di tessuti ed abiti tinti in modo naturale. Questi giovani rappresentano l’altra faccia della medaglia del Paese, un Paese che nonostante le difficoltà in cui si trova, prova a resistere. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023

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Giada Frana, giornalista pubblicista, si occupa di Tunisia dal 2013. Ha vissuto a Tunisi dal 2014 al 2016: da questa esperienza è nata la pagina facebook Un’italiana a Tunisi, in cui ha raccontato la vita quotidiana in questo Paese, che ormai considera la sua seconda casa. A giugno 2021 ha dato vita a L’Altra Tunisia, un progetto editoriale che si pone l’obiettivo di dare una narrazione diversa sulla Tunisia e avvicinare sempre più le due sponde del Mediterraneo. (www.laltratunisia.it)

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