di Leo Di Simone
Comprendo che non è risultata agevole all’intelletto razionale, dico quello ormai assuefatto al “cogito” cartesiano o/e alla speculazione metafisica orchestrata dai vertici del pensiero filosofico occidentale pre-heideggeriano, la comprensione della riflessione apocalittica da me sviluppata nello scorso numero di questa rivista focalizzando l’ultima delle guerre eclatanti della nostra epoca [1]. La nostra cultura fa fatica a porsi su una prospettiva escatologica per una lettura filosofica della Storia a partire dall’accoglienza di una parola “altra”, ove l’essere abita come sconosciuto in attesa di con-cedersi come a-létheia, come non nascondimento, come verità; a patto che cadano le nostre precomprensioni e tutte le logiche causative che sostengono con dialettica mortifera le ragioni della guerra di cui s’è parlato in quella riflessione, e tutti i sofismi delle politiche che pretendono di stare dalla parte della verità quando invece essa è occultata dall’ombra sempre più gigantesca della prosopopea del “progresso democratico”, quale frutto maturo di quell’oblio dell’essere denunciato da Heidegger già a metà del secolo scorso.
Da tali posizioni ideologiche tutti possono accusare tutti di essere “anticristi”, tutti possono accusare tutti di essere assassini, tutti possono proclamarsi salvifici messia accusando tutti gli altri di essere l’avversario dia-bolico nelle sue molteplici ipostasi. La posizione immanentista dell’Impero di questo mondo si consolida con lo scaltrito gioco delle parti approntato con dia-bolica maestria per separare, confondere e distrarre. Tutto si gioca nel cerchio magico dell’hic et nunc, senza speranza teleologica, senza una possibile via d’uscita escatologica. Manca la consapevolezza che forse viviamo davvero sull’orlo dei tempi ultimi di questo Evo, il cui inizio è stato segnato dall’Evento dell’Incarnazione, segno di radicale contraddizione e di una opposizione irrisolvibile tra ciò che è di Cristo e ciò che è dell’Anticristo, in una battaglia ancora in atto e che dopo due millenni è forse giunta epocalmente alla sua fase terminale. Cristianamente sappiamo che cosa aspetta i credenti: la resistenza eroica al di là di ogni umana speranza, il martirio. La Chiesa lo sa, almeno a livello teologico: è scritto nella sua tradizione ma non sembra fare buon uso di tale consapevolezza.
Nel corso dei duemila anni della sua storia, la cristianità ha smarrito la sua stessa visione apocalittica, almeno da quando Costantino intraprese la cristianizzazione di quell’impero che l’Apocalisse giovannea aveva designato come Babilonia e prostituta. La Chiesa perse l’interesse per qualsiasi fine di questo mondo (dico il telos), salvo identificare il regno millenario con il suo trionfo temporale sulla terra, fino all’emergere dell’utopica visione della fine gioachimita che bollava la stessa Roma papale coi suoi pontefici come “prostituta di Babilonia”. Nella Chiesa temporalizzata l’oblio dell’essere si andava così configurando come oblio di quella parola “altra”, di quel Logos «pieno di grazia e verità» (Gv 1,14), con la conseguenza di quell’appiattimento ontico che ha provocato il materialismo religioso degli “enti” del culto e dei dogmi, con la distruzione dell’éthos cristiano, asimmetrico rispetto ad ogni altro già in atto, dove éthos ha il significato primo di soggiorno, dimora, e non di dottrina del comportamento elaborata razionalmente nella casa delle “cose”.
Già Eraclito aveva presagito: “Éthos anthrópoi daímon”, che Heidegger rese con «l’uomo abita nelle vicinanze di Dio» [2]. Il cristianesimo non pose le sue fondamenta in “costumi” tradizionali, in una cultura specifica, in una determinata “polis”, in un éthos linguistico, ma si pose a fondamento di ogni etica possibile con lo stesso “abitare” nella casa dell’essere disvelato. Ciò obbligherebbe, anche oggi, quanti nominalmente affermano di aderirvi, di mettere in crisi le loro sicurezze etiche e chiedersi da che parte si collocano rispetto alla verità cristiana, considerando che l’Evento-Cristo non è stato ancora sondato in tutta la sua profondità ed estensione. Sarebbe una bella deterrenza per lo spirito di belligeranza che sta rendendo il mondo sempre meno umano, ma anche un’occasione per mettere mano ad una riflessione nuova fondata sulla radicalità cristiana, secondo lo slogan paolino: «Il vangelo da me annunciato non segue un modello umano» (Gal 1, 11).
Chiarita la necessità di un cambiamento di visione prospettica che si configura apocalittica nel senso assoluto che non c’è altra verità da attendere, desidero adesso, continuando a riflettere sulle cause nefande della guerra, tornare sulle aporie che concludevano le mie inattuali riflessioni apocalittiche, per esplicitare in maniera più coerente la portata di quel “mistero d’iniquità” la cui attualità dichiarata da Paolo di Tarso ci tocca nel midollo esistenziale metaculturale, lasciandoci attoniti e senza apodittiche certezze se non quelle delle tante guerre in atto da cui né i tracciati saputi della geopolitica, né la presunta benignitas dell’Impero riescono a liberarci.
La verità è che è in atto una guerra globale combattuta con armamenti bellici e strumenti finanziari che si dilata con costante progressione, nonostante l’umanità ritenga o si illuda ci siano rimedi umani efficaci per contenere la sua espansione. La fede cristiana, dal suo canto, crede che l’ultima parola di Dio non suona come giudizio di condanna e distruzione, ma è sempre parola creatrice: «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5) e il «nuovo cielo e la nuova terra» succedono al «cielo e alla terra di prima» ormai scomparsi (Ap 21,1). Tuttavia la situazione in cui ci troviamo è metaforicamente percepita come “diabolica”, “apocalittica”, mentre lo stato di divisione e di rivelazione sono patenti. L’ a-létheia è sotto i nostri occhi eppure si nasconde alla nostra miope consapevolezza.
«Quanto resta della notte?» chiedevo tacitamente e implicitamente alla sentinella di Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!”» (Is 21, 11-12). La risposta della sentinella vigilante sugli spalti dell’esserci sembra essere quella stessa di Dio che vuole continuare a sentire quella pressante richiesta fino a quando domanda e risposta diventeranno un tutt’uno. La lunga notte della “Terza guerra mondiale a pezzetti”, come dice papa Francesco, sembra non passare più e l’attesa del sole che «nasce da oriente» si fa più trepida almeno per quanti non hanno avuto la percezione della sua già avvenuta «nascita dall’alto» per «illuminare quanti siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte e per dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79).
Ma la domanda vera, che esplicito ulteriormente, era ed è poliedrica: se davvero è sorta «la stella del mattino», quella «che non conosce tramonto», perché vaghiamo ancora nelle tenebre, incapaci di vedere la luce, di ascoltare quel Logos che in sé è Luce indefettibile che le tenebre non possono accogliere? (Gv 1,5) [2]. Chi o cosa ritarda, trattiene il pleroma parusaico di quella visione rivelatrice, la fruizione piena della verità che sola garantisce la libertà autentica? Perché in venti secoli di cristianesimo la “novitas” evangelica non si è radicata nell’ethos delle culture che la Chiesa ha preteso evangelizzare? La “novitas” che consiste nel sovvertimento di tutti i valori presunti, alla luce di una completa e nuova visione di Dio e dell’uomo? Eppure il cristianesimo precostantiniano rivoluzionò il mondo pagano essenzialmente religioso con una religione nuova, di cui mai si era sentito parlare, e sovvertitrice essa stessa delle forme della religione che il mondo aveva utilizzato fino ad allora! Fu questo l’impegno di coloro che per primi aderirono alla metanoia cristiana e si de-cisero per un vivere alternativo in una lotta che li impegnava senza sosta; poiché il de-cidere è taglio che ferisce e separa, che re-cide ed uc-cide mentre coincide con una vita nuova di cui si spera si adempia l’escatologica pienezza. Non senza opposizioni, incomprensioni, vessazioni culturali, politiche, religiose, che hanno una causa unica: ὁ ἀντικείμενος, colui che avversa, che ostacola l’espansione del verbo nuovo. E non senza pagare, con la decisione stessa, il prezzo alto per la libertà donata e accolta come arbitrio voluto e scelto. Tale era la situazione dei cristiani di Tessalonica che Paolo incoraggia ed esorta con due lettere che sono i testi più antichi del Nuovo Testamento ma anche i più criptici. Propongo i versetti della seconda lettera ai Tessalonicesi che si riferiscono a quel qualcosa o/e qualcuno che frena, trattiene il manifestarsi della felicità umana con la parusia di Cristo:
«Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo […] nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti nell’iniquità» (2Ts 2, 1. 3-12).
Sarà dunque il «soffio della bocca» del Signore ad annientare l’empio, l’Avversario, ὁ ἀντικείμενος, quando si sarà mostrato in tutta la sua malefica consistenza, mentre il suo «pleroma coinciderà con la sua distruzione» afferma Massimo Cacciari al cui saggio abbiamo precedentemente fatto cenno [3]; un saggio di teologia politica che sviscera le forme in cui «idee e simboli escatologico-apocalittici si sono venuti secolarizzando nella storia politica dell’Occidente, fino all’attuale oblio della loro origine» [4]; e a partire dall’enigmatica figura del katechon. Si dovrà dunque osservare l’agire di “ciò” o di “chi” trattiene” (to katechon/ho ketechon) tale malvagia epifania che si manifesta in tutta la sua contraddittoria ambiguità che consiste nel far durare il più a lungo possibile il momento subdolo dell’Antikeimenos, ritardando nello stesso tempo la venuta del Signore Gesù.
Con quale e quanta consapevolezza che Gesù sia davvero il Cristo il cui alito è datore di vita? In favore di chi lavora l’energia catecontica che con-tiene quella dell’Avversario che sarà distrutta dal soffio del Signore, dallo Spirito che esce dalla sua bocca, dall’amore del suo bacio santo? In apparenza questo “potere frenante” potrebbe apparire benefico, potrebbe collocarsi dalla parte dei giusti contro l’anomia e il dilagare del male, se solo non inibisse col non disvelamento dell’empio anche la parusia del Signore. Un potere che non può essere identificato, dunque, nell’Anticristo, di cui appunto “trattiene” l’avvento, ma che neppure coincide con la Chiesa, alla quale è affidato il compito di custodire la speranza nel prolungarsi dell’attesa orante e vigilante. «La sua ambivalenza appare insuperabile» poiché il suo con-tenere implica il tenere in sé «il principio che intende frenare, ritardare, se non arrestare», afferma perentorio Cacciari [5]. Ed è nell’ambivalenza che si mostrano le figure catecontiche dello zar, del suo patriarca e degli altri reggitori d’iniquità che in qualche modo “contengono” la conflagrazione dell’hobbesiano bellum omnium contra omnes, lo spettro della Terza guerra mondiale.
«La figura catecontica – osserva Cacciari – appare sempre più come un complesso di persone che giocano in campi distinti, che assumono vesti ora decisamente politiche, ora religiose, ora di funzionari imperiali, ora di diakonoi e leitourgoi» [6]. Il termine persona non è utilizzato a caso dal filosofo; lo riferisce al significato originario di “maschera teatrale” che consentiva il per-sonare della voce del personaggio. È la compagnia teatrale dei “Cateconti” che mette in scena la tragedia sempre in atto nel mondo senza redenzione. Non ci sono state tramandate né mai sono state scritte tragedie a lieto fine, per il semplice fatto che al cuore dell’azione tragica c’è sempre l’uccisione del tràgos (capro) cui si canta un’ode. C’è sempre un capro espiatorio o una uccisione rituale nella tragedia del mondo, qualcuno che dev’essere eliminato “per il bene della comunità”, per il benessere di tutti. Ciò sembra accadere anche per la morte in croce di Gesù di Nazareth. Caifa disse:
«“È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”, e l’evangelista chiosa: “Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”» (Gv 11, 50-51).
Stava cioè espletando la sua funzione catecontica. Stava usando «Gesù come vittima innocente di una frenesia mimetica collettiva» stando a René Girard [7]. Con la croce di Cristo, però, lo stesso meccanismo vittimario è stato messo in luce, dando all’umanità la rappresentazione vera dell’origine di cui è prigioniera, e per privare il meccanismo vittimario, riversato su una vittima realmente innocente, della sua efficacia. «Il trionfo della croce è il frutto di una rinuncia così totale alla violenza che quest’ultima può scatenarsi a sazietà su Cristo, senza sospettare che tale scatenamento le si ritorce stavolta contro, perché sarà registrato e rappresentato nella maniera più esatta nei resoconti della Passione. Sottraendo il meccanismo vittimario alle tenebre da cui dev’essere circondato per governare ogni cosa, la Croce mette a soqquadro il mondo» [8]. È rivelativa, apocalittica nella sua essenza!
Gli studi di René Girard sui meccanismi vittimari della violenza sacrale sono illuminanti ed eloquenti al fine dello smascheramento catecontico; quando afferma che «i Vangeli rivelano tutto quello di cui gli uomini hanno bisogno per comprendere la loro responsabilità nelle infinite violenze della storia umana e nelle religioni menzognere che ne derivano» [9], non fa che ribadire l’asimmetricità della novitas cristiana che l’ostinazione catecontica cerca di eliminare così come contribuì ad eliminare il suo autore. Ma è una lotta impari, perché tutto può contenere l’energia catecontica, eccetto la luce del Logos. Il prologo di Giovanni è molto chiaro su questo punto: «la luce splende nella tenebra», si manifesta per contrasto (ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει) «e la tenebra non la accolse», o meglio, non potè con-tenerla (οὐ κατέλαβεν) (Gv 1,5). Davanti allo splendere della rivelazione della luce ogni finzione catecontica raggiunge la pienezza della sua rivelazione in quanto tenebra: «Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta» (2 Ts 2,8).
Nel precedente articolo mi sono soffermato sulla figura contraddittoria del Grande Inquisitore di Dostoevskij. La contraddictio come regula veri è emersa dalla fisionomia di quel personaggio come catalizzante il mysterium iniquitatis ed emblematica della funzione storica dell’azione catecontica. Collocato nel novero degli “anticristi” la sua missione è sembrata votata al confondere e al disorientare, perché ciò che appare appaia verosimile, somigliante al Vero che s’è mostrato come portatore di una deprecata insopportabile libertà. Anche la sua teologia e la sua teodicea, nel dipanarsi della logorroica arringa, appaiono verosimili, costruite come sono su quel canovaccio dell’oblio dell’Essere/Logos di quella filosofia che del Dio di Gesù Cristo ne ha fatto l’Ente supremo, la causa causarum da cui discende anche quell’etica “degli schiavi” tanto deprecata da Nietzsche. Perché è la libertà portata da Cristo il vero motivo del contendere e la vera causa dell’odio che l’Inquisitore nutre per il Salvatore. Con il cristianesimo è cominciata l’etica come de-cisione, come un nuovo sistema di valori da scegliere che inaugura lo stato doloroso della de-cisione come re-cisione in cui l’essere umano si sente “mollato”, “gettato” in senso heideggeriano, nel mare in tempesta della libertà. Ed è per porre riparo a tale situazione drammatica che ogni katechon si pone in azione, si frappone tra ciò che crede e ciò che accade, tentando di condurre l’accadere all’idea che ne ha. Se ciò non accade tanto peggio per l’accadere.
L’Inquisitore ha una concezione pessimistica dell’uomo, afferma che questi «è un servo ribelle, e colui che ne ha annunciato la capacità di essere libero come potenza del corrispondere, del farsi prossimo, del dovere, o ha mentito o mai lo ha conosciuto» [10]. Emette così la sua rigorosa professione anticristica che non è ateistica, areligiosa o negatrice dell’esistenza storica di Gesù di Nazareth o del nesso tra questi e il Cristo, dice Cacciari; avverte solo «la prepotente istanza di spezzare ogni simbolo tra divino e umano, l’affermazione della intrascendibilità del vulnus che rende impotente l’esserci all’essere libero» [11]. Si fa mediatore, pontifex, tra l’umano e il divino con l’affermazione di un potere coercitivo “in favore degli uomini”. E del pontifex ha gli atteggiamenti e l’assetto.
Ci sembra di vederlo scendere dalla tribuna inquisitoria, paludato con la cappa magnificentiae dal lungo strascico purpureo e passando tra il volgo genuflesso e preso da sacro timore arrivare davanti a Gesù e ordinarne l’arresto. «Cosa sei venuto a fare?», lo apostrofa, «sei venuto a rovinarci?» (cf. Mc 1, 24). Presagisce la sua sconfitta e la fine della sua funzione catecontica; lo rode il sospetto che la sua azione di contenimento sia fallita se Colui che sarebbe dovuto venire nell’eschaton è lì, davanti a lui, e non “nella gloria” ma ancora una volta in una rivoltante impotenza kenotica. Anche la sua teologia va in frantumi: è venuto ancora nella carne, e c’è il rischio che ritorni ancora. È forse qui l’eschaton? E il giudizio, l’inferno, il paradiso sono forse legati al pover’uomo che gli sta davanti e che è suo dovere far bruciare insieme alla libertà? Forse ha dimenticato che Paolo lo vuole “tolto di mezzo” perché sia svelato l’empio per essere distrutto con il soffio della bocca del Signore e annientato con lo splendore della sua venuta?
Nel racconto dell’Inquisitore di Dostoevskij accade un coup de théâtre. Con una mossa imprevista ma genialmente immaginata è rappresentata l’uscita di scena del vecchio cardinale: Alëša Karamàzov era rimasto scandalizzato dal racconto del fratello Ivàn; la figura dell’Inquisitore lo aveva raccapricciato. Rivolgendosi con enfasi al fratello gli dice: «Il tuo poema è un’esaltazione di Gesù e non una denigrazione… come avresti voluto. E chi ti crederà riguardo alla libertà?». Inoltre, per lui era assurdo che il perfido vecchio avesse condannato Cristo al rogo: «Ma come finisce il tuo poema […] è così che finisce?». Ed Ivàn a quel punto precisa:
«Volevo finirlo così: l’Inquisitore tace, aspettando per un po’ che il prigioniero gli risponda. Il suo silenzio gli pesa. Ha notato come il prigioniero l’ha ascoltato per tutto il tempo senza mai distogliere da lui il suo sguardo calmo e penetrante, non volendo, evidentemente, obiettare nulla. Il vecchio desidererebbe, invece, che gli dicesse qualcosa, anche di terribile e di amaro. Ma a un tratto Egli in silenzio si avvicina al vecchio e lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui. Ed è tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle sue labbra hanno come un tremito; va verso la porta, l’apre e gli dice: “Vattene e non venire più… mai più, mai più!” E lo lascia andare per le oscure vie della città. Il prigioniero allora si allontana» [12].
Gesù si allontana, ma tornerà, iterum, cum gloria, con la gloria che non è quella del trionfo umano ma quella della croce, dell’innalzamento: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» afferma Gesù durante l’ultima cena dopo che Giuda è uscito per mettere in atto il suo tradimento (Gv 13,31). L’azione catecontica dell’Inquisitore è speculare a quella di Giuda, ne costituisce il riflesso storico destinato a durare millenni, «come la luce di una stella morta», reiterato più e più volte, così come la consequenziale venuta di Gesù, iterum, come presenza che incarna l’umanità crocifissa più e più volte. «Chi “se ne va”, al termine della grandiosa “scena” dostoevskiana, è proprio l’Inquisitore. Ora il luogo è tutto “libero” per l’apostasia» [13]; da ἀϕίστημι come presa di distanza, di allontanamento. Entrambi un tempo discepoli hanno ripudiato il Maestro, hanno preso drammatica distanza da Lui.
Nel racconto di Dostoevskij sorprende quel bacio che nessuno si sarebbe aspettato, quel bacio che fu «tutta la sua risposta». Risposta dopo un silenzio inquietante che richiama un’altra figura catechontica: inquietato dallo stesso silenzio del prigioniero Gesù, Pilato gli disse: «Non vuoi parlarmi? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?» (Gv 19, 10) dimenticando che poco prima Gesù gli aveva fatto la rivelazione di se stesso come testimone della verità: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». E Pilato non capisce perché pensa che la verità sia astrazione, filosofema cui non è avvezzo. Perciò conclude: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 37-38). Eppure la verità era davanti a lui, avrebbe potuto ascoltarla dal silenzio, come l’Inquisitore, vederla nella concretezza dell’ecce homo; ma il loro ruolo catechontico, adagiato sul registro del nomos, lo ha impedito, nell’incapacità di vedere il Logos dell’essere, chiusi nella logica illusoria di un potere frenante che nel con-tenere sottomette anche chi lo agisce, stando all’etimo originario di katechon: katà (giù)-echo (ho): “tenere giù”, nella zona infera. La consistenza catecontica è quella di una struttura di potere, di ogni forma di potere. E il potere è autoreferenziale, non gli importa della verità, e il silenzio da cui solo può svelarsi l’Essere-Logos lo infastidisce, lo frastorna perché mette in luce la sua nefandezza, getta luce nelle sue tenebre. Ciò che veramente con-tiene è il suo costituirsi avversario o/e apostata, due posizioni che denotano rifiuto ostinato e sdegnoso.
Di contro c’è la risposta di Gesù, nel bacio. Bacio altamente simbolico che ci consente di superare l’istintivo disgusto della sua collocazione sulle labbra fredde e avvizzite dell’Inquisitore. «Che lui baci con i baci della sua bocca!», così esordisce la Sposa nel Cantico dei Cantici attendendo il suo Amato (Ct 1,2), e san Bernardo di Chiaravalle utilizza il linguaggio dell’amore tra lo sposo e la sposa per spiegare il mistero trinitario. La Trinità, concepita come comunione di amore e intimità tra le tre divine persone, è interpretata come un bacio dato dal Padre al Figlio nello Spirito: «Se, giustamente, il Padre viene inteso come colui che bacia e il Figlio come colui che è baciato, non sarà certo fuori luogo interpretare lo Spirito Santo come bacio, poiché è l’imperturbabile pace del Padre e del Figlio, il saldo vincolo, l’indivisibile amore e l’indissolubile unità» [14] È così, afferma Bernardo «poiché il bacio è giudizio d’amore» [15]. Nel bacio di Gesù c’è il dono dello Spirito, ma non è automatico; dev’essere cercato e voluto nella libertà. Le labbra serrate dell’Inquisitore sono impenetrabili e la sua reazione finale di sgomento: «Vattene e non venire più!». Lo sappiamo che il peccato contro lo Spirito Santo è l’unico che «non sarà perdonato» (Mc 3,29). L’Inquisitore non può fare più nulla per arrestare il giudizio di Colui che «verrà di nuovo nella gloria per giudicare i vivi e i morti»; il Giudizio verrà, «e gli suonerà profondamente ingiusto, poiché il metro su cui verrà formulato è per lui estraneo alla natura dell’uomo e della sua storia. È appunto il metro di quel bacio che lo condanna, ora» [16], «Quia amoris iudicium osculum est».
Qual è la portata dell’illusione che può pensare la dilazione di un tale giudizio o addirittura il suo annullamento? Che possa giustificare il cosciente rifiuto d’amore operato con la stessa libertà che si vuole negare, salvo dare conferma, con lo stesso rifiuto, della irredimibilità della natura vulnerata e quindi per ciò stesso votata alla morte? Perché non c’è una plausibile ragione che possa scagionare la colpa dell’uccisione dell’innocente, della crocifissione dei piccoli, dei poveri, dei deboli, dei senza voce, dei senza diritti… di tutti i “poveri Cristi” scartati della storia. Di illusione si tratta, che costituisce la forza presunta dell’agire catechontico: l’illusione che, scacciato Cristo dalla propria presenza, egli non tornerà più nella forma inquietante in cui s’è presentato la prima volta, nella carne mortale. L’illusione di poter inserire le sue parole e i suoi insegnamenti in una struttura metafisica aliena dall’incarnazione.
Questo procedimento utilizzato fino al presente fu ben intuito da Paolo che dice ai Tessalonicesi che essi conoscono bene sia “cosa” che “chi” trattiene la venuta dell’empio nella potenza di Satana, con ogni sorta di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità; metodo e persona che bisogna togliere di mezzo. A noi però non è stato detto apertamente, e ciò costituisce il rovello degli esegeti. Ma qualcuno ha indagato più a fondo, e ha formulato una plausibile teoria che è talmente evidente, così platealmente sotto i nostri occhi che noi non la vediamo, così vicina a noi che non la percepiamo. E ciò costituisce la forza della complessità catechontica e del Misterium iniquitatis, la sua pia illusione e la sua maschera.
L’enigma del mistero del katechon è sciolto nell’ultima lettera enciclica che l’ultimo papa scrive «a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (1Cor 1,2) e che nell’intento spera di mettere in atto una radicale riforma della Chiesa. Tranquilli, non è una nuova lettera di Francesco, nonostante ne ricalchi lo stile e ne richiami le tematiche; è di Pietro II, l’ultimo papa stando alle sibilline profezie di Malachia [17]. Si tratta, evidentemente, di una finzione letteraria con cui Sergio Quinzio, autore ispirato e mistico come pochi altri, tra il filosofo e il biblista, mette in campo, sullo spirare del secolo scorso, le questioni più importanti riguardanti il cristianesimo nel suo rapporto con un mondo fortemente segnato dalla dimenticanza di Dio, che è l’aspetto religioso della questione dell’oblio dell’essere sollevata da Heidegger.
L’opera, contrassegnata da forte tensione escatologica si intitola, non a caso, Mysterium iniquitatis [18] e in essa Quinzio, con venticinque anni d’anticipo, in piena epoca di restaurazione wojtyliana, analizza con piglio bergogliano tutti i mali della Chiesa, proclamando solennemente il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia del mondo. L’interrogativo di fondo è sempre lo stesso: come, dopo venti secoli di cristianesimo, si possa essere giunti a livelli così alti di cinismo, cattiveria, aggressività e inumanità più totali: «Nel mondo continua a succedere tutto ciò che di orribile succedeva prima del sacrificio redentore di Cristo». Tanti sono i mali di questo mondo, è quasi impossibile elencarli, e ciò per Quinzio sostanzia l’anticristicità del mondo stesso, ma «non si ha la forza di arrestarsi per guardare davvero, per considerare la realtà al di là dello spettacolo» [19]. La Chiesa, d’altra parte, si è preoccupata assai poco della realtà anticristica, e il suo “ufficio escatologico” è rimasto chiuso per la maggior parte del tempo. L’Anticristo non ha trovato molto spazio nella sua teologia che, essendo speculativa si è «fondata su postulati razionalmente universali. L’ha trovato però nelle prime generazioni cristiane che dovettero affrontare le persecuzioni dell’Impero romano e poi nelle generazioni successive che assistevano alla crescente compromissione della Chiesa con i poteri mondani» [20]. Dopo una lunga serie di considerazioni simili a queste l’enciclica di Pietro II torna all’esordio iniziale: la seconda lettera ai Tessalonicesi e il «mistero dell’iniquità già in atto».
Mistero di cui la Chiesa ha sottaciuto la portata, lasciandolo quasi cadere fuori dal deposito della fede, mentre «è debitrice verso tutti, credenti e non credenti, di una risposta adeguata su ciò che è accaduto nei lunghi secoli della cosiddetta “storia cristiana”. Deve rispondere proclamando il mistero dell’iniquità che la percorre tutta» [21] e confessare la sua “apostasia” che Quinzio individua nel suo istituzionalizzarsi costituendo una «continuità con l’impero pagano». L’apostasia consiste in tante cose: «dall’adozione della lingua e del diritto romano allo stile solenne delle celebrazioni, al concetto di Chiesa come istituzione gerarchica che svolge un ruolo storico e politico» [22]; cose tutte che ne hanno assicurato la rinomanza mondana e che si sono espanse dalla prima Roma alla seconda, Costantinopoli, e da questa alla terza, Mosca. In queste Chiese, paragonate a quella di Laodicea dell’Apocalisse «che sta per essere vomitata dalla bocca di Cristo» è stata reintrodotta anche la “legge del Tempio”, così deprecata da Paolo che vede nei tentativi di questo “ritorno” la negazione dell’incarnazione e della croce (cf. Gal 2,21; 5,4-11).
La Chiesa delle origini, uscita fuori dagli ambiti della religione e orientata al culto «in spirito e verità» voluto da Gesù, si trovò lentamente gravata da due continuità: quella imperiale e quella giudaica. «Ma nessun ordine sacro avrebbe dovuto ricominciare, perché avrebbe protratto indefinitamente il tempo dell’incompiutezza, dell’attesa sempre rimandata […] L’anticristicità non è qualcosa di morale, non nasce da un intenzione eticamente riprovevole, ma consiste in tutto ciò che si oppone all’efficacia unica e definitiva della croce» [23].
E qui siamo al punto da cui scaturisce tutta la forza di resistenza e di contenimento dell’energia catecontica: il sacro! Il sacro di ogni ordo, di ogni nomos, di ogni religio e politeia, di ogni devotio, per il fatto stesso che ogni apostasia dell’Avversario, come ricorda Cacciari, «è fatto civile, politico, religioso in uno. Anomos, si, ma nei confronti della legge del Cristo e della follia del Logos della Croce (1Cor 1, 18)» [24]. Il sacro non nasce cristiano né può diventarlo senza rinunciare alla sua avversione al Santo, senza re-cidere i lacci della religio perdendo così la sua essenza, decidendosi per Dio e vanificando con ciò stesso l’autolatria che lo sostanzia. Lo sa bene Paolo: il sacro è ciò «che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio»: ὁ ἀντικείμενος che lotta per vincere innalzando davanti a sé la cortina dei sacri incensi che stordiscono i sensi e annebbiano la vista, attestando la sua presenza nel vacuo templare dove nessuno può entrare per sacro timore. È quella «forza di seduzione» di cui parla Paolo che avvince a sé impedendo accesso all’altro, alla verità che è l’altro.
Ma il velo che celava quell’inganno si «squarciò da cima a fondo» (Mc 15,38 e //) nel Kairòs della Croce, rivelando completamente la finzione di una religione senza Dio e con molti presunti pontefici. La ripresa sacrale di quel modello ha cercato di rabberciare il velo, ri-coprendo il vuoto, il vacuo, l’ambiguo, l’arcano e lasciandoci in eredità un sacerdozio di mediazione e di gerarchia, articolato in maniera levitica, come se Cristo non fosse venuto, non avesse parlato, non fosse morto per opporsi a quel sistema. La sacralità dell’impero ha completato la restaurazione sacrale: “sacro” e “romano” si è appellato, con il suo sacro imperatore e le sacre leggi piovute dall’alto sul sacro cubicolo. «Non si dà autorità imperiale senza culto di sé» ricorda Cacciari riferendosi al deus imperator della Roma imperiale [25].
Noi ci siamo culturalmente così abituati alla forma sacrale del cristianesimo che non sappiamo concepirlo diversamente, vederlo difforme a quella forma che attribuiamo alle necessarie inculturazioni, quando invece è stato il nume della cultura pagana ad invadere la forma essenziale della nuova religio che legava indistricabilmente amore di Dio e amore del prossimo. Così il processo di inculturazione è stato invertito. Il Signore ci ha tirati fuori dalla triplice tentazione del maligno, il suo rifiuto non ci ha abbandonati ad essa; ci siamo voluti cadere spontaneamente e rimanere nell’idolatria, nell’inganno sacrale, nella brama del potere. Da questo ci libera quando chiediamo ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo.
Non sto qui a dilungarmi su processi che la storia mostra ampiamente e l’antropologia culturale indaga in profondità; né devo ulteriormente ribadire l’ambiguità e la vacuità del sacro che gli eccellenti studi di Rudolf Otto hanno messo in luce. Non si può negare che tali indicazioni non siano servite all’elaborazione delle teologie più recenti, nate dal basso e con intenti non dogmatici. Ma davanti a tutto questo c’è una forte, fortissima resistenza catecontica, e una sordità ormai cronica nella Chiesa istituzionale. L’auctoritas non vuol sentir parlare di queste cose né vuol vedere il volto dell’avversario, accontentandosi di mirare la sua maschera. Per bacchettare la nuova riflessione teologica c’è l’ex sant’Uffizio, già ex santa Inquisizione, mentre per le bacchettate di papa Francesco si formulano “dubia” da parte di “prelati” che emulano anche nel vestiario il vetusto diabolico Inquisitore. Di fatto la teologia “ufficiale”, prudente e frenante, non è stata capace di abbattere i bastioni sacrali che ancora reggono le arcate del “tempio”, né ha veramente affrontato, confrontandosi seriamente col deposito neotestamentario, la questione del “potere che frena”, dentro la Chiesa, la piena manifestazione dell’Anticristo e la sua distruzione che prelude alla venuta del Signore; del “potere sacrale che frena”, potremmo dire senza ombra di “dubia”, al cui smascheramento ed implosione contribuisce lo stato d’apostasia in cui è venuta a trovarsi la Chiesa. Non ha detto Paolo che prima deve venire l’apostasia e poi essere tolto di mezzo ciò o chi trattiene l’epifania del nemico? Parlava in astratto Paolo o aveva riferimenti concreti?
L’apostolo sapeva chi era l’Anticristo e che cosa o chi ne trattenesse la manifestazione finale; lui ebreo “ellenista” e cittadino romano aveva votato la sua vita all’annuncio della novitas cristiana a tutti i popoli. In Cristo era stata superata la cultura cultuale giudaica: né circoncisione, né legge mosaica, né, meno che meno, il culto templare la cui persistenza era una negazione del potere salvifico della Croce e delle più semplici forme liturgiche gesuane. Ma la persistenza durava frenando la novitàs con fiere e aspre polemiche tese alla conservazione. I cosiddetti “giudaizzanti” erano capeggiati da Giacomo. «il fratello del Signore» (Gal 1,19), noto per la sua incrollabile fedeltà alla legge mosaica. Basta leggere il libro degli Atti e molti altri passi neotestamentari per comprendere l’entità del contrasto. Giacomo contestava violentemente le posizioni di Paolo che da parte sua, con un certo sarcasmo si riferisce ai “conservatori” chiamandoli «superapostoli» (2 Cor 11,5; 12,11).
Quinzio spiega con dovizia di riferimenti scritturistici la contesa serrata tra il conservatore Giacomo e l’innovatore Paolo; l’utilizzo dei due aggettivi è nostro, giusto per condurre alle soglie della contemporaneità le due posizioni contrastantesi sia in campo politico che religioso in genere e nel cristianesimo in specie. L’oggettiva apostasia dalla vera fede in Cristo e quindi la «religiosa empietà» di Giacomo «consisteva, agli occhi di Paolo, nel fatto di affermare la necessaria continuità dell’ordine sacro. Dopo la venuta del Messia ciò equivaleva a negare il carattere ultimo e decisivo della sua venuta», ribadendo ancora una volta «la separazione tra sacro e profano, tra Dio e uomo […] e l’inefficacia salvifica dell’incarnazione e della croce» [26]. Questa in sostanza l’eresia dei “giudaizzanti” che l’Apocalisse appella «sinagoga di Satana» (Ap 2,9). Ambiguità ed equivoci, lotte e divisioni, a partire da questo originario conflitto hanno attraversato, fino al presente, la storia della Chiesa che ora sembra essere giunta ad uno snodo epocale. Con questo è stato lasciato campo libero all’espandersi di polemos, mitica personificazione della guerra che Eraclito chiamava «padre di tutte le cose», e contemporaneamente messo in luce il carattere demoniaco di ogni guerra che si presenta con le caratteristiche note di opposizione violenta e spirito di supremazia mascherate dal sacrale motto “Dio lo vuole”.
La guerra ideologica ingaggiata contro papa Francesco dai “conservatori” interni ed esterni alla Chiesa muove da una concezione sacrale del mondo e della storia, da una concezione teologica di una divinità sacrale ed intangibile, separata e metafisica. Ciò contraddice l’originaria essenza del cristianesimo e la rivelazione evangelica. È duro rinunciare al sacro che è fonte di distinzioni e privilegi, separato com’è per essenza da ogni “altro” in quanto “altro” assolutamente. Il sacro è esclusivo e non concepisce inclusioni ed intrusioni: tiene a distanza, esige riverenza ed obbedienza. Da ciò sono nate corporazioni di “sacri pastori” e “sacri ministri” parallelamente alle caste dei dignitari imperiali addetti al culto della “sacra maestà”. Creazione di privilegi e arbitrarie gerarchie sono state stabilite in base alla maggiore o minore vicinanza alla sacralità dell’imperio, sia civile che religioso; nella Chiesa è il fenomeno del clericalismo che papa Francesco non esita a mettere alla berlina denunciandone la logica aberrante. Vengono messi al bando supremazie e privilegi e i suoi detrattori non esitano a bollarlo come “eretico”, perché vedono in lui un traditore della dottrina e della tradizione, ignorando, e non si sa quanto astutamente, che ciò che difendono ha origine dalla concezione sacrale giacobita avversata da Paolo.
Nessuno può vantarsi di Paolo o citarlo in maniera moralistica senza considerare la sua avversione per la sacralità di un culto creato ex novo da una casta sacerdotale che con esso ha voluto legittimare la propria supremazia politica e religiosa, allacciandola alla rivelazione mosaica. La storia dell’esegesi biblica conosce la portata dell’infiltrazione del “Codice sacerdotale” negli scritti dell’Antico Testamento. I detrattori di Francesco o fingono di non saperlo o non hanno studiato. L’apostasia non è la presa di distanza dai dogmi di una tradizione creatasi all’insegna della sacralità metafisica, ma è la presa di distanza dal Vangelo e dalla novità assoluta di Gesù Cristo. È quest’apostasia a dilagare nella Chiesa nelle dimensioni di un “contenimento” del Vangelo che sta, con sempre maggior evidenza, svelando l’opera dell’Anticristo pur affermando di contrastarne l’operato.
«Chi sono oggi gli apostati e dove possono trionfare? Non sono certo i peccatori, che anzi Gesù è venuto a salvare (cf. Mt 9,13), ma coloro che come il fariseo della parabola (cf. Lc 18, 11-12), sono convinti di avere Dio dalla loro parte, di fare la sua volontà, di possedere la salvezza nella sacralità del tempio (cf. Ger 7,4). Non c’è modo di sfuggire all’identificazione. Roma, sia la prima o la seconda o la terza, è la potestà, l’autorità che non tramonta fino alla fine dei giorni. E la Chiesa che è romana, è Gerusalemme e Babilonia insieme, in un miscuglio destinato a risolversi solo con il giudizio dell’ultimo giorno. Dobbiamo dunque prendere atto dell’apostasia della Chiesa che elude lo scandalo della fede, che lo stravolge più o meno consapevolmente in ciò che fede non è, che riduce ad etica la salvezza escatologica, e perciò ne fa un’opera ragionevolmente umana, anziché riconoscere e attendere l’umanamente incredibile miracolo di Dio. L’apostasia della Chiesa consiste nel porre se stessa come regno di Dio già in atto» [27].
È qui tratteggiata lucidamente da Quinzio l’alleanza tra Impero e Chiesa per l’opera catecontica che in passato ha assunto la fisionomia sacrale di “santa alleanza”, fra trono e altare, che ha retto e regge ignorando tutte le aporie ad essa implicite. Icona contemporanea ne è quella dello “zar devoto” della santa Russia che presiede, in quanto emanazione sacrale dell’Impero, la veglia pasquale celebrata nel maggior tempio della “terza Roma”. Lui ignorando le significazioni del rito che dicono vita e pace con lo stesso שלום (schalom) del Risorto; il suo cappellano, il Patriarca della santa Russia, ignorando la valenza mortifera e belligerante del suo patrono, la sua anticristicità. Mai liturgia può contenere più patenti contraddizioni invalidando e infrangendo la sua simbolica. Il simbolo infranto regredisce così nella diabolicità sacrale di potenza impotente: ciò che si pone in atto non ha alcuna relazione con la santità di Dio, il simbolo non si ri-com-pone. La figura del katechon si delinea così «come uno spazio di progressivi sdoppiamenti […] Figura composta da simulatores, da coloro che simulano volontà di potenza e in realtà vogliono contenerne l’espressione; simulano decisivi contrasti con l’Antikeimenos, ma in realtà debbono anche parteciparvi». Cacciari sta indicando in questa ambiguità, in questa dissimulata “diplomatica” attitudine, la potestas del sacro che risiede nel “fingere”: «Simulare non è ingannare, è fingere (in tutti i sensi del termine) una potenza di cui in realtà non si dispone» [28].
Adesso anche la simulazione sacrale è stata scoperta, si è rivelata come conseguenza di quella secolarizzazione insita nell’essenza del cristianesimo, con la sua vocazione alla laicità e all’universalismo scaturita dal fatto che Dio si è incarnato, eterno fatto saeculum in Gesù di Nazareth con i doni della giustizia e della pace. Per il cristiano l’esperienza di Dio non è trascendenza, comincia nel secolo, nella storia, nella prospettiva storico-escatologica dell’unità del genere umano in Dio, dell’uomo baciato da Dio. L’Apocalisse non è un testo di gnosi sacrale, è visione di fede tramite la speranza nell’adempimento totale dell’Amore. Porre argini di sacralità alla rivelazione cristiana significa snaturarne il senso e vivere nell’equivoco della simulazione tentando, col timore e il tremore provocati dal sacro, di arginare il deserto. Lo zar Vladimiro non incanta più nessuno: appare ridicolo con la candela in mano su quella foto che ha fatto il giro del mondo.
A Cacciari scappò detto: «II Papa deve smettere di fare il katéchon!» rispondendo ad una intervista nel lontano 1993 [29]. Si era al tempo di Giovanni Paolo II che si stava molto impegnando nella lotta al comunismo e alla galoppante secolarizzazione, ripristinando forme di governo e di culto consone alla tradizione sacrale del più stretto conservatorismo. Tradizione esaltata dal suo successore Benedetto XVI, sostenitore di una linea di continuità ininterrotta e irrinunciabile con un passato teologico ed ecclesiale non vagliato dalla critica evangelica. Intanto l’opera anticristica prendeva piede nella Chiesa, ed erano le propaggini del deserto che si espandevano con gli scandali di ogni natura.
Sodoma, il libro inchiesta tra il sociologico e lo scandalistico di Frédéric Martel che punta sugli scandali sessuali e finanziari gestiti nel bene e nel male dal Vaticano, pur rappresentando una dura sferzata per la Chiesa, mette in evidenza la portata catecontica del suo agire fino all’incapacità di contenimento sfociata con le dimissioni di papa Benedetto [30]. La Chiesa non trattiene più i suoi nemici? Il papa non ha più saputo frenare le potenze anticristiche all’interno della stessa Chiesa? Era lui, insieme allo spirito sacrale, colui che doveva essere “spazzato via”? Non ci sono risposte certe, altrimenti il mysterium iniquitatis cesserebbe di essere mistero. Noi possiamo scorrere i segmenti della storia passata, non della futura, presagendo soltanto, nel manifestarsi veritativo dell’essere, la direzione escatologica dell’esserci.
Intanto la guerra continua, al tempo di Francesco, che tutte quelle cose scaturite da una tradizione metafisica e da una cultualità sacrale le valuta al pari di Paolo: «tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,8). Non fa mancare agli organismi internazionali più alti il suo rimprovero per la loro inerzia nell’arrestare la guerra, sostenendo che essere profeti significa «fare ruido», baccano, mentre si annuncia lo spirito del Vangelo. La franchezza senza mediazioni, senza diplomazia, sgomenta la corte e i potenti; è tacciato di populismo dal cattolicesimo conservatore perché liquida per sempre l’idea di una Chiesa “minoranza coesa” e fondata sui “valori” e chiude col costantinismo. Intanto altre forze catecontiche si organizzano per frenare Francesco che per proiezione appellano anticristo, reputando pericoloso il con-tenerlo insieme al «sì, sì, no, no» della parresia evangelica.
«È Francesco la salvezza della Chiesa. E solo innalzando la croce di Francesco la Chiesa potrà custodire la propria paternitas nei confronti dell’autorità politica. Solo una Chiesa che, confessando apertamente di non essere la città di Dio “in atto”, rinunci radicitus ad ogni potere terreno, potrà ancora essere ascoltata e valere nel secolo». Così Cacciari nel suo itinerario esegetico del katechon mentre parla dell’influsso del Poverello nella visione politica di Dante [31]. Un inciso prebergogliano che suona come una profezia, Benedetto regnante. È Quinzio che confessa dubbi e speranze dopo aver vergato l’enciclica di papa Pietro II sul Mysterium iniquitatis: «Non so se vedrò l’irrompere della giustizia divina, ma finora è andata delusa anche la ben più modesta aspirazione: quella che un papa alzi la sua voce per parlare con autorità, in nome di Cristo, del significato sempre più terribile dei tempi che viviamo, della terra che abitiamo, e insieme della salvezza che attendiamo» [32].
Adesso, trent’anni dopo, quella voce suona chiara e forte e interpreta il dubbio dell’umanità: «Come può esistere Dio in un mondo crocifisso dal male?». Ma il male ci costringe a toccare con mano la nostra precarietà, la nostra fragilità ed è una rivelazione della realtà. Ci svela l’altro aspetto dell’abisso divino nella concezione trinitaria del cristianesimo. Nei monoteismi “puri” il male assume un valore metafisico, che fa di Dio un dio crudele o privo di onnipotenza; nella Trinità radicale il mysterium iniquitatis perde il suo carattere metafisico e diviene male morale, storico, inscritto nella kenosis redentrice di Cristo, nello sprofondamento dell’Incarnazione che è la vertiginosa vicinanza di Dio all’umanità. Lì c’è la manifestazione dell’Essere, nella realtà del suo svelarsi senza più ri-velarsi da quando con la croce di Cristo si è compiuta la “grande ingiustizia”. Con quella violenza ingiusta, gratuita, dettata da volontà di potenza, ammantata di simulazione sacrale, è stata violata la divinità di ogni essere umano.
Come si sale dall’abisso del male? Con quale forza il Cristo, iterum venturus cum gloria, distruggerà l’Empio? Col soffio della sua bocca, con il bacio santo! Con lo stesso bacio dato all’Inquisitore che dell’Empio è presenza vicaria. È l’amore la vera risposta al male e alla violenza, l’amore disarmato e crocifisso. Con quel bacio Cristo ci indica la via, e questo rimane il modello a cui la Chiesa, troppo spesso tentata di ricorrere al potere che schiaccia e alla violenza della parola deve rimanere fedele. Troppo spesso, nella sua storia bimillenaria, si è illusa di combattere il male con le stesse armi dell’Avversario, dimenticandosi di quel «bacio della bocca». Il bacio che è la croce! La croce che è la gloria! La gloria che è la vita che scende fino agli inferi, nella vertigine della kenosis, per sconfiggere la morte col bacio di Dio.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] L. Di Simone, La guerra, il drago rosso, l’Anticristo e l’impero. La perenne attualità dell’Apocalisse, in «Dialoghi Mediterranei», n. 55, maggio 2022.
[2] M. Heidegger, Lettera sul’ “umanismo”, cit. in U. Galimberti, Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, Milano 2020: 140.
[3] M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013, citato nel mio articolo di cui alla nota [1].
[4] Id., in 4^ di copertina.
[5] Id.: 61. 62.
[6] Id.: 66.
[7] R. Girard, Vedevo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001, 203.
[8] Id.: 184. 187.
[9] Id.: 168.
[10] M. Cacciari, Il potere che frena, cit.: 109.
[11] Id.: 108.
[12] F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano 1994, 21^ ristampa, 275-276.
[13] M. Cacciari, Il potere che frena, cit.:113.
[14] Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici (SCC) 8, 2, Milano 2006, vol. 1: 100.
[15] Id., SCC 8, 6, vol.1, 104: «Quia amoris iudicium osculum est».
[16] M. Cacciari, Il potere che frena, cit.:112.
[17] Intorno al 1140 il vescovo Irlandese Malachia profetizzò le successioni papali, sino al tempo in cui Pietro sarebbe ritornato sulla terra per riprendere le chiavi della Chiesa. Pietro II sarebbe l’ultimo papa.
[18] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Milano 1995.
[19] Id.: 68. 63.
[20] Id.: 58-59.
[21] Id.: 70.
[22] Id.: 72.
[23] Id.: 73.
[24] M. Cacciari, Il potere che frena, cit.: 65.
[25] Id.: 101.
[26] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit.: 76-77.
[27] Id.: 83-84.
[28] M. Cacciari, Il potere che frena, cit.: 68-69.
[29] Cfr. https://www.esonet.org/massimo-cacciari-ii-papa-deve-smettere-di-fare-il-katechon
[30] F. Martel, Sodoma, Feltrinelli, Milano 2019.
[31] M. Cacciari, Il potere che frena, cit.: 100.
[32] S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, cit.: 112.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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