di Antonio Pane
«Il Dnepr immobile, Podòl di notte»; Irpèn’ (distretto di Buča), che «l’estate, le persone ricorda»; Kiev «di là dalla finestra, quieta, | avvolta nella calura dei raggi». Riudire questi nomi oggi tristemente familiari dalla voce di Boris Pasternak stringe il cuore: echeggiano nella raccolta Seconda nascita (Vtoroe roždenie, apparsa nel 1932 e dedicata a Bucharin), che l’editore Passigli offre per la prima volta nella sua interezza al lettore italiano, tradotta, introdotta e annotata da Caterina Graziadei nell’ambito di una esemplare collana votata alla poesia dell’autore del Živago, che annovera l’antologia Anch’io ho conosciuto l’amore (a cura di Marilena Rea, 2015) e le integrali di Temi e variazioni (a cura di Paola Ferretti, 2018), Sui treni del mattino (a cura di Elisa Baglioni, 2019), Quando rasserena (a cura di Alessandro Niero, 2020), Mia sorella la vita (a cura di Paola Ferretti, 2020), annunziando quelle di Il gemello tra le nuvole (a cura di Paola Ferretti) e Oltre le barriere (a cura di Elisa Baglioni).
I toccanti toponimi raggiungono i numerosi altri di un libro che, si può dire, ne è orientato, a cominciare dal poemetto che lo introduce, Le onde (posto da Caterina Graziadei «a metà fra l’epos lirico e il diario di viaggio che scandisce i luoghi visitati in Georgia in un andamento da Baedeker»: vi scorrono in un trasognato documentario «la sconfinata riva di Kobulèti», «Poti ancora nella notte», «Batùmi che albeggia», «Mosca fumigante», Vladikavkàz, il Dagestàn, il Dar’jàl, Lars, Mlèti, il Tèrek, il Devdoràch, il Caucaso, Soči), e proseguendo con le ricordate Kiev di Ballata e Irpèn’ di Estate, il «rione della vicina Réjtarkaja» (Di nuovo non mira all’utile, Chopin), Tiflìs (Imbruniva. Dappertutto cresceva), i fiumi Kurà e Aràgvà, il monte Kazbèk (Mentre c’inerpichiamo per il Caucaso), la Mosca in lutto per il pianista Feliks Blumenfel’d (Non taceva ancora il rimprovero).
La geografia costituisce, del resto, uno dei vettori della poesia di Pasternak. Ne testimoniano ancora i loci che la vogliono persona (il «piede della sua dorsale montana» di Le onde, «l’amico era lui stesso città» di Finestra, leggio e «la tua presenza è come una città» di Tu sei qui, siamo nella stessa aria) e quelli che la pareggiano alla stessa scrittura: Kobulèti fatta «distico» e «poeta al lavoro»; Mosca che ripete il poeta «con un verso, | come una storia che terrai a memoria»; la selva caucasica «come il corso di un racconto», «l’incanto di una descrizione, | di chi vuol dire qualcosa che sa», «resoconto di generazioni | in servizio già secoli prima di noi» e i boschi agiari che ottengono «il primato d’una strofa» (Le onde); le case di Mosca «schierate nel verso» della vita interrotta di Majakovskij (Morte di un poeta); il Dnepr addensato in «registro di lagnanze da sottoterra | per le nostre notazioni quotidiane» (Tu sei qui, siamo nella stessa aria); le insenature in cui «i commiati, come fili del telegrafo | si prolungano» e i ruscelli che «intonano romanze» (A primavera, nella stagione del ghiaccio); il sole che con «l’inchiostro di china» stila «l’elenco dei morti» (Imbruniva. Dappertutto cresceva).
Questi scenari segnano le stazioni della straordinaria vicenda, umana e artistica, inscritta nell’opera e battezzata dal titolo: il cambiamento imposto dal rapinoso amore per Zinaìda Nejgauz e dalla rottura del matrimonio con la pittrice Evgenija Lur’e; e la svolta creativa fondata sulla «semplicità» e sul ritorno ai classici. Al primo – attorto al soggiorno ucraino dell’estate 1930 (commemorato in Estate e Ballata), che la famiglia di Pasternak condivise con quelle del fratello Aleksandr, del pianista Genrich Nejgauz (sposo di Zinaìda e futuro marito di Evgenija), del filosofo Valentin Asmus – si riconducono le poesie ‘di conforto’ alla moglie (Se un giorno a un concerto mi suoneranno; Non affannarti, non piangere, non estenuare; Versi miei, svelti, svelti), all’amico tradito (Finestra, leggio), e la serie gaudiosa per Zinaìda (Seconda ballata; Pesa come una croce, amare un altro; Ancora neve, non resta che pazientare; Di una diceria dolciastra, amore; Sei bella! Tutta la figura; Intorno, disseminata ovatta; Nessuno sarà in casa; Tu sei qui, siamo nella stessa aria): poesie che maneggiano, con disarmante e molto russa onestà, un plesso di sentimenti contradditori e inestricabili. La seconda si affida, oltre che a una certa regolarità metrica, alla dichiarazione d’intenti di Le onde («Nell’esperienza di grandi poeti | ci sono tratti di naturalezza | che non potrai, dopo averli provati, | non ammutolire, infine, del tutto»; «finiremo per cadere, come in un’eresia, in una semplicità inaudita»), o alle citazioni del Festino in tempo di peste di Estate, che sembrano rivendicare, ricorda Caterina Graziadei, l’eredità puškiniana.
L’idea del rinnovamento stenta invece ad affermarsi nel gruppetto di poesie ‘politiche’ (non a caso escluse da edizioni posteriori). Quando si sporge sugli ideali e sulle pratiche del comunismo vittorioso, lo slancio del poeta vacilla, zavorrato di perplessità. Angelo Maria Ripellino osserva che in Seconda nascita «l’accettazione della nuova realtà è sempre sobria, incrinata da titubanze e da ipòtesi, ben diversa da quella dei poeti laureati, dei fragorosi verseggiatori, i cui nomi tramontano in una breve stagione» [1]. Questa lettura, che sembra specialmente guardare a Quando mi viene a noia il chiacchiericcio, Giorno di primavera, il trenta aprile, Per un secolo e più, non dico ieri (con le obiezioni al «carro del progetto», al Piano quinquennale, alla «promessa di eliminare | gli ultimi flagelli che ci hanno sbaragliato», con il presente paragonato ai giorni di Pietro il Grande, oscurati da «condanne e sedizioni»), si può estendere a Le onde (laddove le ambizioni del ‘Piano generale’ e l’«orizzonte socialista» si misurano invano con la saldezza del paesaggio caucasico, «terra al riparo da calunnie e maldicenze») e a Morte di un poeta (nelle frecciate alla cerchia di Majakovskij, «landa di pavidi e di pavide», «canaglia» che si perde in cavilli, «purché non trabocchi | il fiotto del grosso caso, di certo | troppo veloce per gli storpi»). Ma anche in questi versi, per dirla di nuovo con Ripellino, «il colore dell’epoca è certamente più vivo che in tante giaculatorie di menestrelli»[2]. Basti pensare a «l’ossatura sottile dei tramezzi» di Le onde e al distico «d’inverno espanderemo l’area da abitare | e mi stabilirò nella stanza del fratello» (Intorno, disseminata ovatta), finestre sulle angustie abitative dei tempi sovietici, o alla quartina che restituisce il clima paesano di un Primo Maggio anni Trenta: «Si batterà ancora la sabbia umida, | e sul cornicione illuminato a festa | ecco assicelle e teli rossi, e le attrici | saranno scarrozzate ai punti d’incontro» (Giorno di primavera, il trenta aprile).
Lasciato questo sentiero decisamente secondario e ‘senza uscita’, si viene al meglio di una prova che dispensa una summa particolarmente felice di temi e procedimenti pasternakiani. Ritroviamo così le stillanti meraviglie del poeta meteorologico (in versi come «Di nuovo fioccheranno sbruffi dal cielo», «Diluvio di saette, piovasco all’apice», «Scroscia la pioggia. Sferza già da un’ora»), le ingegnose metafore ‘culinarie’ («il piatto dei laghi bavaresi, | col midollo dei grossi monti ossuti»; «Di avena odorosa goccerebbe il vespero»; «stapperemmo, come una bottiglia, | la finestra ricoperta di muffa»; «il sole innaffierebbe | d’olio l’insalata dell’asfalto»; «rimesta il ruscello il grido degli uccelli, come le dita plasmano i ravioli»; «La gelatina del cieco meriggio»; «il rossiccio cioccolato del fango»; «Nera liquirizia delle gore al disgelo»; «di cieche saette ribolle un paiolo»; le onde «cotte dalla risacca come cialde» o «arrotolate come cialde»), l’araldica equina da allineare alla celebre divinazione di Marina Cvetaeva, che vede nel poeta riunirsi un arabo e il suo cavallo («io ti accetterò come una briglia»; «e per le briglie è preso | il tiro del firmamento»; «Quando nel petto c’è una sorta di guado | e come un cavallo che vi si impantana»), la cifra dell’identità vita-scrittura («Invece della vita di chi scrive versi, | vivrei la vita stessa dei poemi»; «Assopisci ballata, dormi, leggenda antica»; «con l’orizzonte avvia un epistolario»; «Ma tu – di una segreta recondita | gloria sei l’onnivoro glossario»; «Io vorrei che dopo morti, | quando appartati ce ne andremo, | più stretti che cuore e precordi, | da noi due traessero una rima»). Ritroviamo, nelle liriche per Evgenija e Zinaìda, il poeta d’amore di Mia sorella, la vita. Alla moglie abbandonata Pasternak ridarà «il benevolo sorriso, un sorriso repentino, | enorme e luminoso sorriso, un planisfero», dirà parole di consolazione («Non affannarti, non piangere, non estenuare | le forze esauste, non esacerbare il cuore»), convocandone la casa «dove spezzata è la sequenza dei giorni, | dove il calore è vano e accantonato il lavoro», | e si piange, si pensa, si aspetta»; della nuova fiamma canterà l’arcana e melodiosa e necessaria bellezza: «ma tu sei bella senza alcun orpello, | e il segreto della tua leggiadria | equipara l’enigma della vita»; «Sei bella! Tutta la figura, | l’essenza tua mi aggrada, | bramosa tutta di farsi musica | e tutta solo rime invoca»; «A tal punto mi sei intrinseca vita | che ciò che non sei tu – mi è niente»; «La tua presenza è come un appello | a occuparci in fretta del mezzogiorno».
Ma il tema dei temi, il procedimento dei procedimenti, rimane la musica. Figlio di una pianista, studente di composizione al Conservatorio, Pasternak la chiama direttamente in causa negli incipit «Se un giorno a un concerto mi suoneranno» e «Di nuovo non mira all’utile Chopin» o con versi come «Prorompe Chopin dalle finestre, romba», «la frase luttuosa di Chopin | affiora come un’aquila malata», «Ruglia un fagotto, romba una campana», e soprattutto ne fa materia di un metaforismo che induce suggestivi sposalizi (le onde «schiumanti in minore», «l’unisono di sei cuori», il «prato dell’Intermezzo», i «tappeti ricolmi di suono», il «bosco azzurro di righi con pensili note») talora distribuiti in distici («E a mo’ di tromba, inarcandosi con loro | scambia i suoi saluti l’orizzonte»; «Finestra non a due battenti, alla breve, | ma più ampia, a tre: col ritmo di tre mezzi»; «E la malinconia di melodie solitarie | somiglia al destino dei semi sui viali»), sino alla solenne quartina di Non taceva ancora il rimprovero: «Come un elefante, rimuovendo le assi | e svincolandosi dai ceppi delle travi, | il corale emergeva, Sansone lui stesso, | dalla malta che lo aveva murato».
È sempre la musica a modellare percorsi poetici che hanno l’andamento inquieto, rapsodico, vibratile delle sonate di Chopin, Brahms, Skrjabin, e lo stesso impianto fonico ad incastri stridenti, a dissonanze (che fa pensare ai modi di Stravinskij, Prokof’ev, Šostakovič). Orditi non geometrici, cammini faticosi, impervi, non rettilinei: un avanzare alla cieca dentro irte boscaglie, flagrante nelle poesie ‘di viaggio’ come Le onde (di cui Ripellino fulmina il procedere «per inerzia, con un continuo oscillare e ammucchiarsi di nuclei tematici», il «ritmo lunatico a sbalzi, a lacune, con improvvisi raccostamenti e passaggi, talvolta a sproposito, di palo in frasca, senza tràmite logico, sbandatamente, in un giuoco di dissolvenze e di quadri che si accavallano»[3]) o Mentre ci inerpichiamo per il Caucaso (dove «dando il cambio alle olmaie, s’increspa la minutaglia boschiva»), ma attivo, si può dire, in ogni verso: a fare d’ogni parvenza una preda precaria, oscillante come la realtà che si vuol catturare, e a produrre l’«immaginoso balbettìo» mirabilmente ritratto da Ripellino: «Col respiro stentato di chi s’affatica a dimostrare qualcosa agli increduli, discute, barbuglia, s’arresta, come a cercar le parole, annaspa, vaneggia, e poi all’improvviso prorompe in una girandola di rutilanti metafore» [4].
La singolare felicità di queste magnifiche derive, di questi splendidi farfugliamenti non incoraggia una scelta. Lo stesso Ripellino poté escludere dalla sua superba antologia solo quattro dei ventisette testi che formano il libro (fra cui, con buone ragioni, due poesie ‘politiche’). Per quanto mi riguarda, oltre l’imprescindibile Le onde, compendio dell’arte e della poetica pasternakiana (culminante nell’epos spazio-temporale delle innumere «generazioni» in marcia verso le montagne caucasiche), segnalerò Seconda ballata (per il cullante refrain «come si dorme solo nella prima infanzia», e per quel «Dormi, storia vera, la lunga notte della vita» che riassume le incantagioni del poeta), Estate (con la sua serenità a impennarsi nello «scaltro armeggio» di un tramonto degno del Doganiere, che lega «alla penombra la bardana affocata, | alla terra le ombre enormi delle donne di Irpèn’ | e al cielo l’incendio delle gonne a strisce»), Morte di un poeta, epicedio di Majakovskij deflagrante nel titanico sparo-Etna – appeso, spiega la curatrice, al raffinato calembour poroch (polvere pirica) e prach (pulvis, spoglia mortale) –, Se un giorno a un concerto mi suoneranno, chiuso sulle «quattro famiglie» che danzano «come un albero cingendo il canto, ombre | mosse dal motivo tedesco, puro come l’infanzia», Nebbia cimiteriale, delicato acquerello che prende, nella tacita «impresa immensa» del sottosuolo, una dimensione cosmica, Di una diceria dolciastra, amore, inno alla trinità natura-poesia-musica («Non spetta oggi ai coetanei dei poeti, | ma all’ampio di sterri, olivagni e prode | far rimare con Lermontov l’estate | e con Puškin la neve e le oche»; «Che l’unisono del nostro accordo | sorprendesse l’orecchio di qualcuno | con ciò che assorbiamo e beviamo | e con le labbra dell’erba assorbiremo»), l’emblematica Sei bella! Tutta la figura, Nessuno sarà in casa (per la donna che incede «come il tempo a venire», vestita di «bioccoli di neve»), Di nuovo non mira all’utile Chopin, dove si ammira il caleidoscopio notturno degli aceri, che «quando a notte accendiamo la lampada, | come salviette siglando le foglie, | si sminuzzano in una pioggia di fuoco», e dove, calamitato da Chopin, «rimira le stelle il secolo scorso», Imbruniva. Dappertutto cresceva, che presenta una vertiginosa veduta aerea della capitale georgiana, foggiata, diresti, sulla bandiera cittadina («come un’elsa niellata, baluginando, | nello sprofondo oscillava Tiflìs») e consegnata, come «chimera» e «città non di questo mondo», al precipizio dei secoli:
Come se là, col tributo di un riscatto,
durasse il tempo in cui la vita si spense,
e di là dai monti Tamerlano assediava
le calide sorgenti sulfuree.
Quasi sospinta dalla sera in pianura,
come allora sotto il fuoco dei persiani,
s’invermigliava nel carminio dei tetti,
come un’antica armata, screziandosi.
La mia selezione non può non includere Mentre c’inerpichiamo per il Caucaso, che contempla, in un ennesimo tuffo all’indietro, «i colli dei fortilizi | flottare nell’azzurro violaceo, | annegando nel gorgo di generazioni», e interroga la montagna dal profilo quasi umano («Il grosso occhio celato dalla palpebra, | di che ti stai beffando tu, o Kazbèk?»), Ah, l’avessi da subito capito, capolavoro interno che conquista la quarta di copertina, dove il poeta è l’attore-gladiatore cui si assegna «una morte vera, senza appello», Versi miei, svelti, svelti, professione di fede e protesta contro «lo spettro ingiurioso del disamore», il cui congedo «significa che amo», A primavera, nella stagione del ghiaccio, che chiude il libro abbracciando «il destino della donna»: «l’orma del poeta è solo l’orma | del cammino di lei e niente più». Ma so bene che i florilegi, di qualsiasi genere, non rendono giustizia ai grandi poeti. Pasternak chiede un ascolto continuo, concorde, intimo e ‘arreso’, non centrato comunque sui ‘contenuti’. La sua bizzarra complessità e le sue caparbie evoluzioni (è il caso di dirlo) da cavallo di razza, restano per «felici pochi»: sempre ‘fuori moda’, refrattarie alle grandi platee, al ‘volemose bene’, all’ecumenismo dei reading.
Quanto al correlativo impegno richiesto al traduttore, nella Nota ai testi (ricca di chiose che danno un provvido ausilio alla decifrazione di linee inclini alla crittografia) Caterina Graziadei, che ha utilizzato l’edizione di Diana Tevekeljan (Mosca, 2003-2005), avverte di aver evitato «la via delle rime, supplendo, se mai possibile, con assonanze e allitterazioni al virtuosismo fonetico dell’originale – con qualche riequilibrio nelle rime al mezzo o distanti fra loro – puntando piuttosto sul permanere di una traccia sonora» (operazione mimetica orchestrata in versi come «lo scoppio di razzi piazzati fra le càrici» o «dal cuore scrollando scorie di parole»), e si dice in debito verso il primo traduttore di Pasternak, «che mi è stato maestro negli anni universitari, accostandomi alla poesia russa come a una Suprema malattia».
Il risultato mi sembra cospicuo: l’antica allieva non ha deluso il Maestro, allestendo, con orecchio da poeta, versioni di concisa eleganza, ricche di offerte originali e spesso davvero belle. Penso alla scelta di variare con termini equivalenti le ripetizioni enfatiche, che Ripellino tende a mantenere («non morire, non morire?» diviene così «non venir meno, non morire?»; «Caucaso, Caucaso, che debbo fare?» «Caucaso, dimmi, che debbo fare?»; «nella primavera smisurata, | nella primavera smisurata» «in una primavera immensa, | immane primavera»), o di guadagnare concentrazione elidendo il verbo («Tutta la riva sembra calpestata dal bestiame» diviene «La riva, battuta come da una mandria»; «Non siamo vita, non unione d’anime» «Non vita, non fusione d’anime; «di musica son pieni i tappeti» «tappeti ricolmi di suono»), tralasciando il deittico («Irpen’: questo è il ricordo degli uomini e dell’estate» diviene «Irpèn’ – l’estate, le persone ricorda»), sfrondando il superfluo («Come collette per una corona comune, | le siepi alla barriera nereggiavano» diviene «Collette per una corona comune, nereggiavano le siepi alla barriera»; «Passavano i giorni, passavano le nubi, sonavano la diana» si condensa in «Passavano giorni e nuvole, alla squilla»). Penso alla felpa dell’incipit «Intorno, disseminata ovatta», cui Ripellino imprime una vivacità circense («Intorno, con bambagia sgambettante»), alla veste dimessa di Ah, l’avessi subito capito, che Ripellino sembra declamare in toga, con enfasi da istrione (il suo «Mi sarei nettamente rifiutato | di scherzare con siffatto intrigo» si modera nell’andante «Dal tranello di quei tiri mancini | mi sarei certo tenuto alla larga»). Penso, infine, alle frequenti inversioni, chiamate, credo, a evocare l’elemento rétro della scrittura di Pasternak: «Non con la fauna dei fagiani catturava»; «della resina | l’aspra pazienza»; «del tramonto lo scaltro armeggio»; «di vitellina la tua tenerezza»; «e dall’alto il Tuo mondo immergi»; «e il vapore di lacrime gelate | trafisse con un ago di ammoniaca».
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] Vd. Angelo Maria Ripellino, Primo tentativo di interpretazione della poesia di Pasternàk, in Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi («La ricerca critica. Letteratura»), 1968: 237.
[2] Ivi: 233.
[3] Ivi: 226.
[4] Ivi: 224.
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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