di Concetta Garofalo
È un giorno di agosto 2018, sono a mare, stesa a filo di superficie, l’acqua mi avvolge, l’aria mi attraversa percorrendo i respiri lenti, il cielo mi sovrasta e l’orizzonte unisce e separa. Penso, come sempre, ai colori della natura. Il mio corpo fa parte di una distesa di sfumature di azzurro. Aria e acqua, due elementi naturali così diversi, dialogano fra loro complementari nella mia esperienza sensoriale. Mentre si dispiega fra me e il mondo l’armonia degli elementi e il contrappunto del frastuono della routine, i miei pensieri vanno sciolti, seguono il mio sguardo rivolto all’infinito.
Nei giorni di questa indecisa estate italiana si susseguono notizie sconfortanti. In mare, barconi attendono le decisioni politiche, oggetto di sciacallaggio mediatico e dell’opinionismo superficiale e dilagante. L’acqua e l’aria cullano, proteggono e minacciose mettono a dura prova l’incuria umana. Nelle ore in cui seduta al mio PC, scrivo questo mio contributo, l’ultim’ora dei telegiornali annuncia che un ponte è crollato! Le prime immagini, che giungono in diretta dal luogo della tragedia, mostrano il vuoto lasciato dal crollo, riempito dal buio delle nuvole, mentre i primi soccorsi affrontano la pioggia incessante e le acque di un torrente ingoiano le auto e i corpi volteggiati tragicamente sospesi nell’aria. Si cominciano a contare i morti e i feriti; progressivamente i numeri, le date, le cifre e le percentuali si alternano a cose e persone. Vite che si spengono. Persone che si recano al lavoro, che ritornano a casa, che viaggiano in vacanza. Piangiamo tutti per queste innocenti vittime della vita quotidiana! Il senso di appartenenza deve prevalere, la solidarietà degli affetti dà voce al dolore della perdita, l’indignazione risveglia dal torpore mediatico dei social.
E io continuo a pensare fra l’aria e il mare. Sono antropologa del mondo contemporaneo e volgo il mio sguardo alle azioni di vita quotidiana che ci accomunano nella unicità dei nostri percorsi individuali. Quindi procedo nella mia scrittura e, divagando, riporto il breve testo de Il racconto dell’acqua:
«Nel piccolo studiolo di casa, sul far della sera, si sente ancora il ticchettio dei tasti della tastiera di un PC. Le scadenze incombono e i lavori vanno ultimati e consegnati per tempo. Si tratta di una tabulazione di dati, un lavoro ripetitivo, ritmato dal susseguirsi di lettere dell’alfabeto che compongono parole che si traducono in numeri. Mentre digita le informazioni richieste dal dispositivo, le lettere della tastiera impresse nello schermo si traducono in numeri. Le vengono in mente le parole di un economista, durante un seminario di sociologia. Il quale esordì il suo intervento dicendo “Il compito di noi analisti non è predire il futuro. Noi descriviamo il presente utilizzando numeri”. Sorrise a questo ricordo chiedendosi ancora una volta come sia possibile descrivere la realtà delle cose ricorrendo alle cifre. Nel frattempo continuava a digitare lettere e pensarle numeri, totali, medie e mode e progettare le formule e le funzioni efficaci ed efficienti per trasformarle in dati utili. Inavvertitamente portò la mano verso i capelli per assicurare dietro l’orecchio sinistro una ciocca di capelli. Che ribelle pensò! Si rimise a digitare. Con la coda dell’occhio avvertì cadere qualcosa. Voltandosi rivolse lo sguardo alla parete dietro le sue spalle: non ci sono porte, non ci sono finestre, nessuna folata di vento, il condizionatore è spento, la porta innanzi a sé è socchiusa. Forse sarà stato un post-it, caduto dalla lavagna magnetica dove si sovrappongono appunti, date, scadenze e dispositivi di legge. Uno sguardo sotto il tavolo, sotto la sedia e ancora un po’ più là, un po’ più in qua. Nulla! Non è volato via nulla. Ritornò a digitare e a ticchettare, guardando lo schermo sembrò passare qualche insetto. Ancora una volta la mano in autonomia compì il gesto di cacciare il volatile. Strano! Ora, alla coda dell’occhio sinistro sfilarono colori, luci e piccoli lampi! È il caso di ricorrere al telefono, digitare il numero dell’oculista al quale conviene raccontare gli accaduti.
– Non si preoccupi Signora, si è verificato un parziale distacco del corpo vitreo. Dovrei vederlo meglio.
– Dottore oggi è venerdì quando dovremmo vederci?
– Ma non c’è fretta, potremmo vederci anche un giorno della prossima settimana. Conveniamo, dunque, per vedere l’occhio.
La visita diede esito più che positivo!
– Tutto bene Signora, il suo occhio è in ottime condizioni di salute. Lei ci vede benissimo. Il distacco del vitreo avrebbe potuto causare a sua volta il distacco della retina. Ma tutto ciò non è accaduto. Lei i lampi li vede ancora? Vede come una serrandina che si abbassa?
– No, No! Ma questo vedere passare insetti?
– Dipende dal modo di raccontare e interpretare di ogni paziente: chi lo definisce insetti, ombre, puntini. Sono effetti visivi della componente acquosa dell’occhio. Per sicurezza rivedrò l’occhio fra una quindicina di giorni.
– Mi consiglia precauzioni?
– Sì. No. Si deve bere molta acqua, perché nel periodo estivo aumenta il rischio di disidratazione e l’organismo attira l’acqua da ogni organo del corpo. Inevitabili gli occhiali da sole. Sarebbe meglio evitare i tuffi di testa.
– Ok, mi piace il mare però, se proprio devo, vedrò di evitare i tuffi di testa.
– Veda di evitare di “zappettare”
– Beh, direi, non ho “proprietà”, non ho terreno dove “zappettare”!
– Quindi, veda di evitare di correre e preferire la bicicletta
– Oh no! Io amo correre, scandire il ritmo dei miei passi mentre il viso attraversa l’aria e il vento accarezza i miei occhi!
– La bicicletta non zappetta
– E io che la bici non ce l’ho! Vedrò come ovviare! Allora arrivederci!
– Arrivederci a presto!»
Dunque io sono ancora in spiaggia e ri-penso mentre sono ancora immersa e dondolata dall’acqua del mare.
Dunque il bulbo oculare degli essere umani è costituito al 98% da acqua in un corpo costituito dal 60 % prevalentemente di acqua. Come dire che fra me e il mondo delle cose che vedo c’è l’acqua. A questo punto cedo alla tentazione di ridefinire quanto detto da Umberto Eco, fra il significante e il significato c’è l’acqua. Contestualmente ai processi di significazione e di interpretazione c’è acqua.
E non mi lascia indifferente il fatto che queste due piccole sfere del volume di 6000-7000 mm³ e di un diametro trasversale di 23,6 mm e un diametro verticale di 23,2 mm circa, posizionate nel mio viso, non solo si frappongono fra me e il mondo della cose ma sono strettamente interconnesse con il resto del mio corpo a tal punto che se io, in una calda giornata di agosto, vado a correre in riva al mare sudo e attraverso la violenza del vento che colpisce i miei occhi succede l’inimmaginabile. Gli organi vitali rischiano la disidratazione e attirano l’acqua che compone i miei occhi, causando il distacco del corpo vitreo che a sua volta può determinare il distacco della retina. Insomma “cala la serrandina”! Caspita! Devo bere molta acqua! Ripensando, allora, alla mia routine giornaliera, estate o inverno che sia, scopro che riesco a trascorrere ben sei ore di filata senza bere. Non ci vedo chiaro! Ho perso di vista il punto della questione. Le mie azioni di vita quotidiana, i numerosi impegni di lavoro sottraggono acqua ai miei occhi. Devo fermarmi e bere. Dovrei portarmi dietro una bottiglietta di acqua. Ma come? In borsa! Ma la borsa è già molto pesante; ci sono i libri, non posso rinunciare ai libri. Non devo rinunciare al portafogli, all’agendina degli impegni di lavoro, all’ombrello, al tablet, alla pochette per ritoccare il trucco …
Nel progredire delle mie riflessioni sto ripercorrendo le mie azioni e l’uso degli oggetti che riempiono la mia vita quotidiana in un susseguirsi di azioni e micro-azioni di uso di oggetti d‘uso, di movimenti e spostamenti, nel tempo e nello spazio. Prendo consapevolezza che sto riorganizzando le mie azioni di vita quotidiana attorno ai “no” e ai “devo”. Il verbo dovere, ad esempio, richiama nel mio sistema di idee ai doveri. Questo termine non mi è certamente nuovo: esso rimanda ai diritti e ai doveri. Dunque ho anche dei diritti. In questo caso qual è il diritto in questione? Sono una cittadina italiana, pertanto il mio testo di riferimento è la Costituzione italiana che all’art. 32 recita il diritto alla salute: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ecco ho appena istituzionalizzato i miei occhi, o meglio, l’acqua contenuta nei miei occhi! Quelle piccole sfere fanno parte di un sistema fortemente regolamentato.
Quello che io vorrei mettere a fuoco è che, dal mio punto di vista, interazione, comunicazione, narrazione e scrittura siano istanze fortemente interconnesse. Più proseguo le mie ricerche di antropologa con maggiore fermezza sostengo che le azioni narrano noi stessi. Narriamo le azioni, le interazioni e le sequenze automatizzate e culturalmente storicizzate. Mi riferisco a ciò che Bourdieu definisce habitus, in particolar modo, specificando che si tratta di strutture strutturate e strutturanti il fare umano nel suo agire sociale, «prodotto della storia incorporata» (Garofalo, 2016). Mediante il mio ri-pensare, storicizzo ogni singola parte del mio corpo, del mio agire e interagire con me stessa, con gli altri, con le istante istituzionali e sociali, con le entità sostanziate dai processi di significazione interconnessi fra i diversi livelli esperienziali di ciò che riferiamo e indichiamo come realtà che ci circonda. Faccio inevitabilmente un riferimento implicito a Bateson e, con un volo intertestuale nel tempo e nello spazio, implicito è il richiamo a De Certeau e, ancora, alla semiotica narrativa di stampo greimasiano.
Sfilano questi grandi autori e studiosi nei miei pensieri di antropologa, poiché, dal mio punto di vista, narrare storicizzando agenti, umani e non umani, implica il posizionare azioni, controazioni e interazioni nel tempo e nello spazio costruendo attanti la cui attribuzione di agentività determina i livelli di performatività delle azioni sociali all’interno dei sistemi socio-politici in cui gli attori in campo interagiscono e comunicano (Greimas, 2007). Eppure, in Roland Barthes leggo i raffronti binari fra scrittura e storia, fra scrittura e comunicazione, fra lingua e stile. Dal mio punto di vista mi confortano i passaggi che seguono e che sembrano rimettere insieme i pezzi del puzzle che sto cercando di costruire, dipingere. A proposito della lingua, dice:
«Essa racchiude tutta la creazione letteraria pressappoco come il cielo, il suolo e la loro congiunzione rappresentano per l’uomo un habitat familiare. E assai più che una riserva di materiali essa è un orizzonte, cioè un limite e un punto di sosta insieme, in una parola la distesa rassicurante di un’economia. Lo scrittore non vi attinge letteralmente niente: la lingua per lui è semmai una specie di linea la cui trasgressione potrebbe designare una metanatura del linguaggio: essa è l’area di un’azione, la definizione e l’attesa di un possibile» (Barthes, 2003: 10)
A proposito della scrittura egli dice:
«Queste scritture sono in effetti diverse ma paragonabili, perché il risultato di un identico movimento, che è la riflessione dello scrittore sulla funzione sociale della propria forma, e sulla responsabilità che egli assume scegliendola. Al centro della problematica letteraria che comincia solo con essa, la scrittura è dunque essenzialmente la morale della forma, è la scelta dell’area sociale nel cui ambito lo scrittore decide di situare la Natura del proprio linguaggio. Ma questa area sociale non è affatto quella di un effettivo consumo. Non si tratta di scegliere il gruppo sociale per cui scrivere: […]. La sua è una scelta di coscienza, non d’efficacia. La sua scrittura è un modo di pensare la Letteratura, non di divulgarla» (Barthes, 2003: 13).
Vorrei utilizzare questo passo per riflettere su vari punti. Sono consapevole di forzare il ri-uso di un testo classico di un autore e di un paradigma teorico considerato da molti studiosi di scienze umane una pietra miliare delle discipline letterarie. Vengo al dunque: uno spazio azionale apparentemente neutro, nella sua natura anonimo, si riempie di individualità soggettive delle storie personali cariche dei bisogni, abitudini, ideologie, conoscenze, ricordi, aspettative … Nelle consuetudini, il senso di appartenenza trova l’occasione per ri-creare la storia collettiva dei micro-sistemi quotidiani. Ricreare la Storia comporta ri-scrivere e tracciare percorsi, ciò stesso ci riconduce alla natura narrativa delle interazioni sociali. La narratività, intesa in tal senso, va scritta. La scrittura antropologica, in particolare, non predice il futuro e non rimpiange il passato, essa narra-descrive-interpreta le configurazioni di senso, le modalità di attribuzione di significati, le strategie agentive, gli esiti performativi. I passi citati da Roland Barthes li attribuisco all’antropologo laddove il lavoro sul campo comporta scambiare i posizionamenti e le funzioni sociali che derivano dai ruoli di interlocutore/scrittore, scrittore/antropologo; mettere a fuoco le implicazioni di un gioco delle parti fra comunicazione e scrittura, letteratura e stile, lingua e linguaggio.
Per uscire da questo comodo impasse intertestuale propongo un altro breve racconto di conversazione fra colleghi, un simpatico quadro, frammento della grande tela della vita quotidiana:
«– È il momento della pausa-caffè!
– Un caffè? Fuori ci saranno circa 30 gradi!
– Dimenticate che a me non piace il caffè!
L’altro collega confessa a malincuore che il medico gli ha proibito il caffè per via della pressione alta, dell’aritmia cardiaca, della gastrite: – Solo uno al mattino!
– Ma insomma! Allora, che pausa-caffè è se nessuno prende e gusta un caffè?
Sorridono.
– Beh, potremmo optare per un aperitivo, un succo di frutta, un gelato, una granita … Ti ricordi, almeno vent’anni fa, l’antico chioschetto in centro, vicino al porto? Le granite erano servite in grandi bicchieroni, anche una bevanda a base di limone veniva servita in corsa contro il tempo dell’esplosione di bollicine che sorgevano irruente dall’incontro del bicarbonato e del succo di limone, giallo e verdello, freddo e ghiacciato. Che bei ricordi! Il collega sorride e dice – Dimenticate che io non sono di qui! Dalle mie parti nessun chioschetto da ricordare! Sorride».
Mi soffermo a riflettere, anche adesso che scrivo: quante volte, immersi nella routine, diamo per scontato il senso di appartenenza, la conoscenza dei luoghi, la condivisione del nostro passato individuale! Mimetizziamo persone e cose nei nostri ricordi che non gli appartengono affatto. Eppure, in questo gioco delle parti continuiamo inconsapevoli a percepire il senso di appartenenza, siamo “nativi” di noi stessi (utilizzando il linguaggio specifico disciplinare dell’antropologia classica). Restiamo ancorati al proprio senso di appartenenza dell’altrove. Inoltre, vorrei far notare che la conversazione, apparentemente casuale e disimpegnata, si svolgerebbe entro un sistema forte di regolamentazione delle azioni individuali. La normativa vigente nel diritto del lavoro dispone l’obbligo di una pausa, il diritto alla disconnessione, l’organizzazione dei carichi di lavoro e la predisposizione di un organigramma rispettoso delle potenzialità, dei bisogni, dei tempi di attenzione, sforzo, efficienza dell’impegno lavorativo delle risorse. Il contenuto della conversazione è, a sua volta, determinato da una fitta rete di automatismi derivanti da un bagaglio linguistico-culturale stabilizzatosi nei decenni di uso quotidiano della lingua italiana (Ochs, 2006).
Allora, pongo una questione: è errato affermare che esista una sorta di grado zero della comunicazione umana al di qua del quale si compiono le infinite combinazioni di scelta individuali, in maniera più o meno consapevole? Immagino come un limite che si sposta in continuo divenire. Un confine mobile fra il sé e l’altro. Una semiosfera fra l’istanza individuale e i dispositivi sociali, istituzionali e collettivi. Ogni atto linguistico esprime la facoltà di scelta. Come leggo in Roland Barthes
«L’esempio di una scrittura la cui funzione non è più soltanto quella di comunicare o esprimere, ma anche d’imporre un al di là del linguaggio che è al tempo stesso la Storia e la posizione che vi si assume» (Barthes, 2003: 3).
Il grado zero che tento di spiegare è lo spazio-tempo della comunicazione in cui Storia e Letteratura, Linguaggio e Stile, Comunicazione e Narratività si incontrano. Il loro interconnettersi nell’hic et nunc dell’atto, nel loro farsi atto comunicativo si attualizzano i mondi linguistici possibili. Giocando sempre sulla falsa riga del contrappunto fra comunicazione e scrittura approfondirei questo aspetto leggendo ancora questo passaggio chiarificatore:
«Le scritture possibili di un dato scrittore si definiscono sotto la pressione della Storia e della Tradizione: c’è una Storia della scrittura, ma questa Storia ha due aspetti: nel momento stesso in cui la Storia generale propone – o impone – una nuova problematica del linguaggio letterario, la scrittura resta ancora piena del ricordo dei suoi precedenti usi, perché il linguaggio non è mai innocente: le parole hanno una seconda memoria che si prolunga misteriosamente in mezzo ai nuovi significati. La scrittura è precisamente questo compromesso tra una libertà e un ricordo, è quella libertà piena di ricordi che non è libertà se non nell’attimo della scelta, ma già non più nella sua durata» (Barthes, 2003: 14)
Dunque, intendo usare l’espressione “grado zero” consapevole dei rimandi disciplinari di cui è pregna. In questa sede, disegno un grado zero inteso non tanto come punto di inizio ma come soglia al di qua e al di là. La soglia fra tradizione, innovazione e creazione. Si tratta, a mio avviso di una semiosfera di necessaria consapevolezza. Se si perde tale consapevolezza la comunicazione perde coerenza ed efficacia, nell’interazione si scioglie il legame necessario fra comunicazione e Storia, fra articolazione e coerenza, fra sistema linguistico e valori. Lo slegamento comporta la produzione, vera e propria, di significati altri, dotati degli attributi di estemporaneità, precarietà, caducità.
Tali fenomeni di comunicazione sociale sono ricorrenti oggi più che mai, nel momento in cui scrivo. Essi sono causa di una comunicazione inefficace e generativa di fraintendimenti. Le dinamiche di innovazione tendono, oggi, a trascendere i fondamentali processi di dialogo fra presente e passato, a evitare il confronto fra le realtà sociali e collettive, a sciogliere l’ancoraggio al senso comune di appartenenza, a dissimulare valori virtuali e volatili. L’oscillazione agentiva è causa di performatività sconnessa, non progettata, non prevedibile e, di conseguenza, inefficace. La comunicazione sociale e politica tendono sempre più ad abbandonare le modalità persuasive e argomentative e si mostrano maggiormente inclini al frastuono urlato e proclamato.
Prendere consapevolezza di tale soglia di grado zero è la condizione indispensabile alla consapevolezza delle potenzialità agentive e performative dei linguaggi (specifici e non) e necessaria all’interazione responsabile nei contesti di comunicazione. Rimettere l’individuo al centro del discorso sulla comunicazione vuol dire ribadire i valori della partecipazione sociale e promuovere l’acquisizione di un senso civico e sociale che trascenda la dimensione soggettiva senza, pertanto, negarle la natura statutaria.
A questo punto urge un chiarimento. Ogni mio lavoro da scrivere e da pubblicare nasce come progetto di scrittura. Nel caso del presente contributo, per giorni si riproponevano ai miei pensieri questi due brevi racconti, spaccati di vita vera, così diversi e lontani fra loro. Eppure li percepivo come dialoganti al fine di focalizzare, con le mie riflessioni, aspetti di vita quotidiana costituenti la dimensione interazionale fra le istanze individuali e i sistemi istituzionali di una comunità sociale composita di agenti umani e non umani. I personaggi che vengono qui narrati, sono, chiaramente, alter-ego di natura antropologica, dunque potrebbero anche non essere mai esistiti in quanto tali, non avere un nome e un cognome, non costituire dei riferimenti diretti o indiretti, biografici o autobiografici. Eppure, facilmente, chi scrive e il lettore potranno identificarsi e identificare “tipi” sociali. Userei il termine «ciascuno” proprio perché credo sia il Tal dei Tali, il Dupont di cui parla Augé nel Prologo a Nonluoghi» (Augé, 2009). È, forse, anche, «l’uomo comune. Eroe di tutti i giorni. Personaggio diffuso. Uno dei tanti che camminano per la strada. […]. Questo eroe anonimo viene da molto lontano. È il mormorio delle società» della Dedica di De Certeau (De Certeau, 2001: 25).
Non credo sia necessario che Dupont sia qualcuno, che abbia un nome di cui essere l’alter-ego (Augé, l’etnologo, io, il paziente, l’oculista, i colleghi, il lettore). È un attante. Dupont può esser considerato il simulacro testualizzato della individualità soggettiva che agisce una molteplice esperienza interazionale. Chiaramente è superfluo precisare che, trattandosi di scrittura etnografica, alcune evidenti ovvietà ed estreme semplificazioni, sia pure velatamente provocatorie, hanno una loro progettata funzione ai fini delle dinamiche di proiezione e auto-proiezione, individuazione e identificazione di tipi cognitivi individuali e collettivi, definiti secondo Umberto Eco (Eco, 1997).
Con questi brevi stratagemmi narrativi sto procedendo con un’analisi meta-conversazionale di frammenti di vita quotidiana, uno come tanti innumerevoli altri frammenti che compongono, come uno spartito, il ritmico susseguirsi di azioni, fatti ed eventi delle nostre vite. Passo dal piano della soggettivazione alle duali prospettive del piano dell’oggettivazione in un andirivieni di riflessioni “meta” e di narrativizzazione degli interlocutori. A questo punto il mio contributo giunge a fare un ulteriore riferimento intertestuale e interdisciplinare, a me molto caro, volgendo a conclusione le mie riflessioni. Durante un’intervista diffusa dai social e dai mezzi di comunicazione televisivi e radiofonici, il maestro Ezio Bosso afferma che un’orchestra funziona come un’ideale società democratica in cui ognuno concorre al funzionamento del sistema sociale collettivo. Ognuno agisce nel rispetto dei ruoli altrui e contribuisce alla realizzazione delle interconnessioni armoniche e melodiche del ritmo e del fraseggio. Ne esita La Musica! Dice Ezio Bosso, presenziando alla conferenza sul patrimonio culturale presso il Parlamento europeo di Bruxelles nel mese di giugno 2018: «La musica ci insegna la cosa più importante: ad ascoltare e ad ascoltarci. Un grande musicista non è chi suona più forte ma chi ascolta più l’altro».