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L’antropologia applicata in un progetto di prevenzione per donne migranti

Momenti di incontro

Momenti di incontro

di   Filomena Cillo e Luisa Messina 

Il 12 e il 13 Dicembre 2014 si è tenuto a Rimini il Secondo Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA). Nella sessione “Antropologia applicata, servizi e migrazioni” abbiamo presentato parte dei risultati raccolti nel corso della nostra ricerca, avviata all’interno di un progetto di prevenzione rivolto alle donne straniere, regolari e irregolari, presenti sul territorio di Bologna e provincia.

Nato all’interno dell’associazione “Pace Adesso”, il progetto “La prevenzione non ha colore”, della durata di tre anni, ha come obiettivo cardine quello di offrire la possibilità di accedere a visite gratuite per sottoporsi al pap-test e all’ecografia al seno, e prevede il finanziamento di 100 visite per il primo anno, 150 per il secondo, 200 per il terzo.  In primo luogo, è nato per rispondere ad una problematica collegata alle campagne di screening nazionale. Da diverse fonti emerge che le donne straniere regolari in Italia aderiscono alle campagne di screening in misura minore rispetto alle donne italiane, tanto che ci sono casi in cui arrivano ai Pronto Soccorso con tumori ormai ad uno stadio avanzato, per le quali non c’è più niente da fare.

Questo obiettivo iniziale, nel tempo, si è evoluto verso l’offerta di un servizio complesso, ricco, e multifattoriale, che si svincola in qualche misura dalla necessità di raggiungere il numero di visite programmato, per diventare un più ampio progetto di inclusione sociale, volto a coinvolgere attivamente le donne e gli operatori nelle varie fasi, così da diventare attori consapevoli, informati e creativi capaci di negoziare la loro posizione e il loro ruolo in termini relazionali.

Giunto al terzo anno dal suo avvio, il progetto, nella sua complessità, mostra numerose criticità. In particolare per il primo anno, non si poteva fare a meno di notare che, seppur le schede venivano riempite con gli appuntamenti, molte erano le donne che non si presentavano.  La prima questione è stata chiedersi perché alcune donne non aderivano al progetto, e di conseguenza si è cercato di capire chi prendesse gli appuntamenti e in che modo. I canali principali sono stati il Sokos e il Biavati, ambulatori ad accesso facilitato per stranieri, anche irregolari, e le associazioni che lavorano con i migranti, con le quali si è cercato di fare rete.

Gli appuntamenti fissati, in molti casi, riportavano nominativi di donne poco consapevoli dei controlli che andavano a fare. A partire da questa problematica abbiamo deciso di impegnarci personalmente per raccogliere gli appuntamenti e occuparci delle relazioni, avviando un nuovo tipo di collaborazione con le associazioni, che fosse non di delega ma di rinforzo. Bisognava partire dalle piccole cose al fine di avviare un discorso efficace rivolto a donne già impegnati in altri progetti di vita propri in cui la prevenzione non necessariamente trova spazio, o comunque non è una pratica diffusa.

L’importanza della relazione ha costituito l’elemento chiave del nostro lavoro. Per questo motivo ci siamo recate presso i vari enti e le associazioni per conoscere le visite, abbiamo anche mantenuto contatti telefonici e  accompagnato alcune donne direttamente in ambulatorio il giorno della visita. Si è rivelata decisiva, altresì, la nostra presenza in ambulatorio, sia nel momento dell’attesa che nel post visita, da un lato per rassicurare la donna su eventuali paure e ansie, dall’altro per sondare più a fondo su alcune questioni legate al corpo, alla salute e alla malattia.

Lavorare sulle relazioni, è stato importante per stabilire un rapporto di fiducia anche con l’oncologa che si occupa delle visite. Mentre in un primo momento i rispettivi ruoli apparivano nettamente separati, la situazione ha preso una piega diversa dopo che l’abbiamo intervistata. Ci ha dato totale disponibilità, la discussione che ne è derivata è approdata verso esiti interessanti, toccando varie tematiche e argomenti di spessore legati al mondo delle donne migranti. Da quel momento si è instaurata una relazione di fiducia, e il confronto che ne è scaturito ha avuto propaggini interessanti: la dottoressa si è confrontata con noi su come migliorare l’approccio con le pazienti e sul modo di chiedere alcune cose, in varie occasioni ha condiviso alcune sue esperienze, come per esempio quando è uscita dall’ambulatorio dicendoci che una paziente (che ha chiamato per nome) la ha abbracciata prima di andarsene. È emerso come lavorare sulle relazioni abbia influito sul «duplice processo di personalizzazione del professionale e di professionalizzazione del personale» (Quaranta 2012: 272).

Quest’ultimo aspetto appare particolarmente eclatante in occasione di alcuni incontri organizzati in collaborazione con le dottoresse dello screening, presso una casa che ospita donne in difficoltà con figli a carico. Le dottoresse, utilizzando mezzi molto semplici ma incisivi, hanno spiegato cosa sia la prevenzione, partendo da un discorso molto più ampio legato al corpo della donna e in particolare ad alcune sue parti (seno e utero). Si è discusso della maternità, dell’essere madri migranti, della contraccezione, del sangue mestruale e delle sue simbologie, della cura del sé e dei propri bambini, dei tumori femminili e anche di mgf (mutilazioni genitali femminili). In quell’occasione si sono impegnate nel cercare dei canali comunicativi efficaci e di facile comprensione per donne che non parlavano bene l’italiano: per esempio, hanno usato dei disegni e della frutta per spiegare come è fatto un utero (pera e mandorle) e un seno (grappolo d’uva).

Esperienze dimostrative

Esperienze dimostrative

Le donne che, in seguito a quegli incontri hanno fissato l’appuntamento per la visita, non solo si sono presentate tutte, ma dimostravano una chiara consapevolezza della loro presenza in quel momento, all’interno del progetto e del più ampio discorso sulla prevenzione. Le dottoresse e gli altri attori presenti hanno vissuto gli incontri con trasporto, e questo ha significato per tutti un investimento personale che andasse ben oltre l’impegno lavorativo, tanto da chiedere di mantenere il contatto, soprattutto nel caso in cui gli esiti delle visite avessero implicato una presa in carico di secondo livello.

Risultati soddisfacenti si sono ottenuti, anche, per la raccolta dei dati. Per prima cosa abbiamo cambiato la struttura delle schede delle Visite. Il titolo della scheda da “ETNIA”, è stato sostituito con “Progetto. La prevenzione non ha colore”. A livello comunicativo il titolo ETNIA non ci è parso molto indicato, poiché rischiava di veicolare il messaggio che l’etnicità fosse la caratteristica principale e sufficiente a determinare i bisogni della persona. Nell’intento di offrire visite gratuite non emerge la priorità di riconoscere la donna straniera, tanto è vero che una parte del progetto è finanziato per includere donne italiane che versano in situazioni di disagio. La priorità piuttosto consiste nell’individuare quelle fasce di donne che, per motivi di varia natura, non aderiscono ai programmi di screening nazionale. Per questo si parla anche di inclusione sociale e di “prevenzione non ha colore” nel senso di prevenzione per tutti, poiché si cerca di coinvolgere le donne che non hanno avuto la possibilità di scegliere consapevolmente se fare o non fare prevenzione, e la cui scelta di non fare prevenzione è in qualche modo obbligata poiché dettata dal fatto che non conoscevano le alternative.

Da qui è evidente il carattere equo del progetto poiché teso a rispondere ai bisogni differenziati di donne che accedono verso servizi condivisi ma attraverso canali diversificati. Ad esempio, una categoria particolarmente svantaggiata è quella delle ragazze di strada, spesso irregolari, di età molto giovane, ma che per questi motivi non rientrano nelle campagne di screening, anche se per loro il rischio di contrarre il papilloma virus è molto elevato. Nelle schede che raccolgono i dati anagrafici, abbiamo anche inserito la voce “Paese di origne”. Conoscere il Paese di origine ci ha aiutato a capire quali gruppi di donne riusciamo più facilmente ad agganciare e quali, invece, risultano difficilmente raggiungibili. La classe più rappresentata  è quella del Maghreb, a cui segue l’Europa dell’Est , e l’Africa Subsahariana.

Oltre alla raccolta dei dati, sono state particolarmente utili per elaborare criticamente le nostre osservazioni, le annotazioni su un Diario di Campo sul quale abbiamo raccolto anche i report scritti dopo ogni incontro, evento o visita a cui prendevamo parte. La partecipazione a feste ed eventi sono state occasioni per aprire il progetto al territorio, così da rendere partecipi, in un’ottica solidale, persone non direttamente coinvolte nell’accesso alle visite gratuite.

Una volta compreso il meccanismo burocratico, la ricerca si è rivolta ad aspetti teorico-qualitativi indispensabili per la realizzazione concreta del progetto. Sono emersi due nodi concettuali fondamentali: da un lato è stato necessario problematizzare il concetto di prevenzione, dall’altro  indagare la conoscenza  specifica del cancro e le relazioni sussistenti tra l’idea della malattia e la sua cura. È subito emersa l’intraducibilità di alcuni termini: pap- test, screening e prevenzione. La prima domanda che ci siamo poste è stata se questa intraducibilità fosse legata a questioni strettamente linguistiche (prestito linguistico) o se l’assenza del lemma corrispondesse ad un vuoto significante. In altre parole, le donne praticavano la prevenzione pur non conoscendo la parola oppure no? L’analisi qualitativa del campione ha indirizzato la nostra ricerca verso la seconda opzione: le donne praticano la prevenzione  come un’abitudine pur non conoscendo la parola.

Per arrivare a questa conclusione abbiamo cercato degli spazi di negoziazione di senso analizzando le esperienze vissute dalle migranti. La maggior parte di loro ha avuto l’esperienza della genitorialità o comunque dell’accudimento di un membro della famiglia. Abbiamo capito che non conoscevano la parola prevenzione ma conoscevano il significato quando abbiamo chiesto loro di farci degli esempi concreti di come accudivano i propri figli (o cari o anziani nel caso delle badanti). Legare il concetto di prevenzione alle esperienze incarnate ci ha permesso di fare un salto qualitativo nella comunicazione: svincolare la prevenzione dalla logica del rischio e proporla in modo positivo come accudimento della persona.

Incontro con le dottoresse dello sceening

Incontro con le dottoresse dello screening

Analizzando alcune delle principali campagne comunicative di prevenzione (non strettamente legate al cancro ma anche al fumo, all’alcol) si riscontra in tutte un binomio quasi tautologico: assenza di prevenzione = rischio, che connota la responsabilità della mancata adesione alla prevenzione. Riflettendo sul significato che si nasconde dietro alcune campagne comunicative di prevenzione ci siamo chieste fino a che punto nel parlare di prevenzione rischiavamo di trasmettere un messaggio di senso negativo connesso alla paura della malattia. Come scrive Susan Sontag, «la malattia che poteva essere ritenuta parte della natura quanto la salute divenne […]  un fenomeno di tutto ciò che era innaturale» (Sontag 1992:71). Abbiamo cercato di presentare la questione in chiave positiva, problematizzando il concetto di salute non quando viene a mancare, perché subentra la malattia percepita come innaturale ed estranea al corpo, ma a partire da una condizione in cui viene data per scontata, poiché percepita come condizione naturale del nostro corpo e del nostro essere nel mondo. Siamo partite da questa considerazione: chi percepisce il rischio di ammalarsi può decidere di fare prevenzione; per esempio è più probabile che faccia prevenzione chi ha avuto casi diretti di tumori in famiglia percependo come a rischio la propria immunità soggettiva. Allo stesso modo è importante considerare quanto afferma Mary Douglas: «Dal punto di vista della sopravvivenza della specie, il senso di immunità soggettiva è anche un fattore adattativo in quanto consente agli esseri umani di rimanere lucidi di fronte al pericolo, di osare nuovi esperimenti, e di non perdere il controllo di sé di fronte all’evidenza dei fallimenti» ( Douglas 1991: 46).

Emerge come sia difficile trasmettere un’idea di prevenzione svincolata dall’esigenza di esorcizzare la malattia e dal timore di scoperchiare il vaso di Pandora. Per esempio, ci sono state alcune donne che non si sono presentate alla visita per paura di riscontrare un’anomalia a partire da una condizione di salute. Tutte, inoltre, sono concordi nel riconoscere uno stato d’ansia durante la visita per l’attesa degli esiti. Ricordiamo anche l’episodio di una donna che ci ha raccontato che la madre,  cui era stato trovato un nodulo al seno, aveva deciso di non farsi operare per paura che il male una volta aperto si espandesse in tutto il corpo.

Oltre al timore della scoperta di qualcosa, durante l’intervista all’oncologa è emerso che  «uno dei motivi che causa il fallimento delle campagne di prevenzione è che fare prevenzione non assicura che non avrai la malattia» (dall’intervista all’oncologa, 20 Novembre 2014)

Rispetto a quanto evidenziato  con la nostra  ricerca, nonostante il range delle azioni standardizzate riprenda lo schema delle campagne di screening, abbiamo allargato creativamente le maglie dei picchetti burocratici/organizzativi, e abbiamo scelto di dirigere le azioni da una politica di adesione ad una di condivisione. L’obiettivo è stato quello di  veicolare l’attenzione verso la propria persona, per intendere la prevenzione come cura del sé. A questo scopo è stato fondamentale analizzare in modo ancora più profondo gli aspetti idiosincratici dei progetti migratori per capire, nella gerarchia delle necessità, quale percezione potesse avere la richiesta di prendersi cura di sé e che spazi di attuazione potevano essergli riservati.

L’esperienza della genitorialità è risultata essere, ancora una volta, il fulcro di tutto e in relazione ad essa anche la cura del sé assume importanza: «La prevenzione è importante perché se non mi  curo io e sto male, chi cura i miei figli? » (Focus group, Biavati, 19 Novembre 2014). Lo stesso punto di vista emerge nel corso dell’intervista all’oncologa:

«Vuoi continuare a fare la mamma? Se stai male la mamma non la fai più […]. È angosciante, vi posso assicurare, vedere delle mamme giovani, ammalate, che perdono i capelli… non si deve arrivare a questo punto, è per questo che io ho scelto di stare da questa parte. Se non stai bene, non ci riesci a fare la mamma, non ti dico che non ti verrà la patologia, ma si può arrivare in tempo ed evitare che la malattia ti modifichi così tanto da arrivare a dover dare delle spiegazioni […] » (dall’intervista all’oncologa della Lilt, 20 Novembre 2014).

La diade madre-figlio è un canale comunicativo che è ritornato più volte come capacità-valore della donna. Giungiamo così al secondo nodo tematico: la conoscenza specifica del cancro e della sua cura. Prima di interrogare le donne rispetto alle loro conoscenze/credenze sulla malattia, è stato necessario compiere un’analisi at home su più livelli: ci siamo chieste quali fossero gli strumenti comunicativi ufficiali, quali  le categorie  che mediano le rappresentazioni della malattia  e infine in che modo tali categorie vengono rinegoziate nei vissuti personali.

Festa con le donne eritree

Festa con le donne eritree

Oltre la lettera d’invito dello screening, una donna riceve al proprio indirizzo una lettera contenente l’esito del pap-test. Rispetto alla domanda: “sa che cosa vuol dire esito positivo o esito negativo del pap-test?”. Molte donne hanno ammesso di non comprendere, in effetti, il significato. Una volta spiegato loro, è emerso con chiarezza che «il risultato è positivo per la malattia non per la persona» (Donna marocchina, visita 2 Dicembre 2014).  Questo esempio ci ha riportato ad un altro macro tema che un’analisi delle categorie deve considerare: l’autoreferenzialità del sistema medico.

Nell’architettura di conoscenze strutturate per locis et functiones, il cancro rappresenta uno scandalo: non ha un sito preciso in cui si origina, né può definirsi come una malattia di una certa parte del corpo. Questa impossibilità di localizzazione si riflette nel linguaggio clinico: il tumore migra, viaggia attraverso, invade, prolifera sino a diventare una parte del corpo che è a tempo stesso componente ed estraneo. L’indistinguibilità spaziale e la capacità di crescita nell’organismo fanno del cancro una malattia del corpo che può definirsi come una rivolta autodistruttiva in cui «the body turning on itself»  (McMullin&Weiner 2009). È un vero e proprio tradimento del corpo: «è una malattia furba perché è silenziosa, tu stai bene e in realtà già ce l’hai» (Focus Group, 5 Novembre 2014).

La malattia equivale ad una condanna a morte che può essere al più procrastinata ma non elusa. Come emerge nei racconti delle donne: «Anche se aveva il cancro, continuava a fare tutto quello che faceva prima, noi sapevamo che lei aveva la malattia ma non lo dicevamo e lei non lo diceva alle persone perché non voleva che poi le dicessero poverina e la guardassero con pena» (Donna marocchina, Focus Group, Biavati 19 Novembre 2014). «La segretezza fa sì che si possa vivere una doppia dimensione: una fortemente inquinata dall’attesa della fine, un’altra di negazione dell’attesa attraverso la ripetitività quotidiana e la non ancora alterata vita relazionale» (Marino 2003:18).

Nel mantenimento della routine si intrecciano diverse strategie individuali per combattere la malattia. L’immagine del corpo si struttura, d’altra parte, nella comunicazione tra soggetti: la paura del cancro è direttamente connessa al giudizio degli altri, che può avere dei riscontri pratici e portare a dei cambiamenti netti nella sfera sociale. Rispetto a questo, ad esempio, molte donne marocchine ci hanno parlato della vergogna di partecipare alle saune: «per come ti guarda la gente»,  del rischio di perdere il marito e, consequenzialmente, di non potersi più occupare dei figli, o di diventare sterili.

Un ulteriore step di ricerca è quello di passare all’analisi delle metafore del corpo e della malattia nei differenti sistemi di valori e credenze.  “Che parole usate quando parlate di cancro?” A questa domanda tutte le donne hanno risposto che usavano la parola cancro, tuttavia quando poi articolavano il racconto delle paure parlavano di un brutto male, della malattia incurabile o, nel caso di una signora svizzera, le “tumeur” è diventato espressamente un “tu meurs”. La difficoltà da noi incontrata nel ricavare queste informazioni ci ha fatto riflettere sulla necessità di creare un contesto discorsivo più ampio (rispetto a quello dei questionari post-visita o dei focus) necessario per far emergere le simbologie e le credenze  e completare questo aspetto dell’indagine.

Nel percorso fin qui tracciato abbiamo superato le problematiche iniziali legate agli aspetti standardizzati del progetto. L’azione creativa messa in atto ci ha permesso di raggiungere un duplice scopo. Il servizio offerto è risultato efficiente rispetto agli obiettivi numerici, poiché è aumentato il numero delle donne presenti alle visite. La sua efficacia, tuttavia, risiede nel fatto che sono stati individuati dei canali che vanno ben al di là della semplice adesione, in cui la prevenzione è intesa come acquisizione di buone pratiche per la cura del sé, da trasmettere anche agli altri. In questo senso il tempo investito nella relazione fa di ogni attore coinvolto un moltiplicatore sociale, la cui responsabilità va ben oltre la singola persona. In quest’ottica la cornice di riferimento rispetto alla salute del migrante non è più quella dell’emergenza bensì della solidarietà, che si realizza attraverso la costruzione di percorsi non uguali per tutti, ma equi.

Dialoghi Mediterranei, n11, gennaio 2015
Riferimenti bibliografici
Dotti Monica, Luci Simona, Donne in cammino: salute e percorsi di cura di donne immigrate,  Milano, F. Angeli, 2008.
Douglas Mary, Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Milano, Feltrinelli, 1991.
Fusaschi Michele, Corpo non si nasce, si diventa: antropologie di genere nella globalizzazione,  Roma, CISU, 2013.
Quaranta Ivo, La trasformazione dell’esperienza. Antropologia e percorsi di cura, in “Antropologia e Teatro”, Rivista di Studi, n.3, 2012.
Sayad Abdelmalek, La doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, trad.it., Milano, Cortina, 2002.
Sontag Susan, Malattia come metafora: Aids e Cancro, Torino, Einaudi, 1992.

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Filomena Cillo, laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia con un lavoro di ricerca dal titolo: Regole infantili per un’assistenza matura.Un’analisi antropologica in contesto pediatrico. Ha conseguito una successiva specializzazione in Cure Palliative Pediatriche presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa di Bologna. Ha approfondito ambiti di ricerca legati alla salute del migrante con particolare attenzione all’assistenza sanitaria pediatrica e delle donne. Collabora con la rete TogethER in un progetto di sensibilizzazione sul tema delle mutilazioni genitali femminili.
Luisa Messina, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, fa parte di alcune associazioni di volontariato che si occupano di emarginati e immigrati. È impegnata a studiare e analizzare i processi di violenza strutturale presenti nella società attraverso un approccio antropologico.

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