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L’Antropologia Giuridica in Luigi Maria Lombardi Satriani

 

Luigi Lombardi Satriani

Luigi Lombardi Satriani

per Luigi

di Patrizia Resta

In un caldissimo giorno di inizio giugno, di quelli in cui l’afa, il calore, l’umidità e la salsedine tarantina tolgono il respiro, saltano fuori a caso dagli scaffali della mia libreria alcuni volumi firmati da Luigi Maria Lombardi Satriani.  Da pochissime ore lui non è più, almeno non è più con noi, anche se ci piace immaginarlo, affaccendato, in cammino sul suo Ponte di San Giacomo.

I ricordi emergono. Proprio ne Il ponte di San Giacomo Mariano Meligrana riprendendo De Martino (De Martino, 1964), aveva scritto che «oggetti e sistema di oggetti circoscrivono tempo e spazio e rendono così possibile […] l’orientamento nel mondo; oggetti e sistema di oggetti che trattengono il passato e costituiscono un rassicurante argine verso l’avvenire» (Lombardi Satriani, Meligrana, 1982: 150-151).

I volumi accatastati sulla mia scrivania non sono sufficienti per costruire una bibliografia tematica esaustiva, e costituiscono solo una piccola parte degli scritti a firma di Lombardi Satriani in mio possesso, ma guardandoli mi sembra rispondano ad un disordine calmo. Invitano alla riflessione, alimentano i ricordi, si pongono come un balsamo volto a sanare il mio personale spaesamento per aver perso una guida. Riguardano tutti il medesimo argomento: l’antropologia giuridica. Sfogliandoli emergono temi cari ad entrambi: vi si discorre di mafia e di vendetta.

I ricordi si infittiscono. È sul piano di quella che Lombardi Satriani ha amato definire la «Storia di un’assenza» (Lombardi Satriani, Meligrana 1975: 7) che ci siamo incontrati. Sul piano di quell’ambito disciplinare, l’antropologia giuridica, che, pur essendo un campo di studio vasto ed attraente, non sempre ha restituito una formalizzazione dell’idea del diritto paragonabile a quella occidentale né si è preoccupata di sviluppare in prospettiva antropologica l’analisi dei sistemi giuridici occidentali moderni (Lombardi Satriani, Meligrana 1995:VI), portandosi dietro lo stigma di essere una disciplina centauro (Geertz 1988:218), metà antropologia e metà diritto e che in Italia, nonostante alcuni encomiabili tentativi, sul tema della mafia ha prodotto un limitato numero di studi (Lombardi Satriani 1975,  Resta 2002, Scionti 2011, Palumbo 2020 ).

È in questo spazio caratterizzato dall’assenza che si è sviluppato il dialogo intellettuale, breve, e a tratti faticoso, che ci ha visto spesso ragionare intensamente, assumendo il più delle volte posizioni antagoniste. A me, che non sono stata una sua allieva ma ho vissuto al suo fianco la stagione della contrapposizione accademica all’AISEA, prima come sua vicepresidente e poi, su suo suggerimento, come presidente, assumendo spesso posizioni a lui avverse, è toccato persino avere l’arroganza di volergli rappresentare una visione della mafia diversa dalla sua. Io pensavo alla mafia transnazionale contemporanea e lui alla mafia, alla ndrangheta e alla camorra tradizionali. Sulla base di queste contraddizioni si è sviluppato non solo un interessante, e per me salvifico, dibattito disciplinare ma si è anche consolidata e cementata una solida amicizia.

I libri sparsi sulla mia scrivania sono il ricordo tangibile di quella stagione a cui in questo caso mi piace tornare nel tentativo non di riassumere gli scritti in cui ha espresso la sua interpretazione della mafia, ma piuttosto con l’ambizione di raccontare di una storia intellettuale spesso preveggente, a tratti sprezzante verso chi, come me, ha preferito leggere il presente guardando al futuro più che al passato e, nonostante ciò, nella quale si è lasciato coinvolgere nel dialogo, dimostrando a tutti che, privandosi di pregiudizi e saltando gli steccati accademico disciplinari, pur partendo da presupposti diversi, si possono costruire discorsi plurali, intessere dialoghi liberi, costruire pensiero, ad onta di chi ama leggere per schieramenti, di chi gode di plausi addomesticati e di coloro che si predispongono a generare un pensiero unico.

In questo Luigi Maria Lombardi Satriani è stato il mio maestro, perché mi ha dimostrato che scienza, anche nelle nostre amate discipline umanistiche, o forse soprattutto in queste, è libertà. È opposizione critica che non costruisce barricate ma apre a scenari diversi, su orizzonti lontani, spesso inattuali e talvolta scomodi. 

Discorrendo di mafie 

Cosa ci può essere di più scomodo di due intellettuali, e chiedo scusa al lettore se annovero anche me in questa schiera, che affrontano un tema come la mafia da posizioni opposte? Da una parte un pensatore eccellente come Luigi Lombardi Satriani, nato in Calabria, e dunque in una regione a forte indice mafioso, Senatore della Repubblica nella tredicesima Legislatura e che ha fatto parte della Commissione Bicamerale sull’organizzazione mafiosa e sulle altre organizzazioni criminali dal 1996 alla primavera del 2001.

Su un versante diverso un’antropologa più giovane, anch’essa meridionale ma pugliese, una regione nella quale la cultura mafiosa è meno manifesta ed incidente che altrove, ma che ha avuto la ventura di studiare, negli anni Novanta, l’insorgere della mafia nel Paese delle Aquile: l’Albania, nazione non immune da corruzione e clientele ma fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento soggetta ad una dittatura prevaricante, il cui forse unico merito era stato quello di impedire l’insorgere di qualsiasi tipo di organizzazione criminale. Organizzazione criminale che incominciava a prendere forma di fronte ai suoi occhi attoniti, nell’indifferenza sonnacchiosa degli opinion maker occidentali e di un’Italia più disposta a pensarsi come esportatrice di mafia che come importatrice di strutture criminali capaci di stare al passo con le mafie nazionali, giocando alla pari, stringendo accordi e creando mercati paralleli.

Le prospettive erano disallineate. Volendo anticipare in estrema sintesi il pensiero di Lombardi Satriani, si potrebbe sostenere che fosse prevalente nella sua prospettiva l’obiettivo di leggere la mafia quale esito di comportamenti criminali dotati di regole, modelli e universi simbolici, assumendola, nell’accezione antropologica, nella sua essenza di cultura mafiosa, «come maniera di sentire, pensare e agire» (Lombardi Satriani 2014:176), preoccupandosi di permeare, attraverso uno sguardo critico, i presupposti culturali in base ai quali poter comprendere il consenso di cui gode.

Per altro verso, e dalla medesima prospettiva antropologica, ero più portata a valorizzare l’aspetto organizzativo e funzionale della mafia, rispetto alla dimensione culturale che mi pareva esaurisse il discorso in un ambito troppo generalista. Vedendo prendere consistenza all’agire mafioso in una nazione in cui il sistema unilineare patrilaterale, così diverso dal nostro, mi sembrava, e mi sembra tutt’ora, rendesse più solidi e di conseguenza più difficili da sgominare i sodalizi criminali (Resta 2015:156), mi ero assunta il compito di comprendere i meccanismi che portavano, mentre si formava un nuovo Stato Democratico, a far nascere contemporaneamente al suo interno gruppi criminali. Le reminiscenze di antichi studi sul clientelismo politico (Resta 1984), insieme alla costatazione che questi gruppi manifestavano un indice di coesione molto maggiore delle cosche mafiose nostrane in virtù del tipo di solidarietà basata sull’appartenenza al gruppo patrilaterale (Resta 2011), mi invitavano a tenere in considerazione e a ragionare dei value in action, se si potesse dire, ovvero sulle determinanti valoriali dei modelli comportamentali.

Nelle lunghe conversazioni che occupavano le nostre ore pomeridiane, la divergenza fra queste due posizioni era evidente, eppure ogni volta destinata a stemperarsi sul piano dell’analisi critica a cui Lombardi Satriani sottoponeva qualsiasi discorso sull’agire criminale, invitandomi a riflettere su come le nostre posizioni trovassero poi un punto comune, sull’accento che entrambi eravamo portati a porre sui valori. Ed in effetti l’attenzione al piano dei valori campeggia nella maggior parte degli scritti che dedica alla mafia. Fra questi prenderò in considerazione, senza alcuna pretesa di esaustività, solo tre contributi che, pubblicati a dieci anni l’uno dall’altro, mi paiono descrivere lo sviluppo del suo pensiero che, formatosi sull’analisi delle organizzazioni criminali italiane, ad esse rimane fedele, nonostante nel tempo abbia acquisito la consapevolezza dei rapporti intercorsi fra queste e le altre organizzazioni criminali straniere.

le-letture-della-mafia-catalogo-bertonelli-lombardi-satriani-jaca-book-222394623871Il primo contributo è l’Introduzione che antepone alla seconda edizione di Diritto egemone e Diritto popolare, edizione pubblicata nel 1995, quando Mariano Meligrana era già scomparso, e di cui dunque Lombardi Satriani è unico responsabile (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995). Non si tratta del suo contributo più antico sulla mafia. Precedente, per esempio, è il volume che pubblica insieme ad Elena Bertonelli, Le Letture della Mafia, nel quale furono raccolti gli atti della rassegna «Cinema e Mezzogiorno» tenutasi nel 1989 e nel quale spicca l’impegno sociale e comunicativo di quegli anni (Bertonelli, Lombardi Satriani, 1991). L’Introduzione, dopotutto, è uno scritto breve. Poche ma efficacissime pagine, nelle quali espone la sua teoria sulla mafia e sul ruolo che si è ritagliata nell’immaginario comune, aggiungendo alcune note di carattere metodologico sulle quali avremo modo e necessità di ritornare a breve.

Il secondo scritto, che fa eco al primo, vede la luce a dieci anni di distanza, esito di un convegno svolto nel 2003 presso l’Università di Valladolid al quale avevano partecipato personalità quali quelle di don Luigi Ciotti, Gian Carlo Caselli e Tano Grasso. Si tratta anche in questo caso di un saggio di poche pagine (Lombardi Satriani 2005), che sostanzialmente ribadisce in forma più sistematizzata le posizioni già più volte espresse, aprendo alla situazione contemporanea e includendo nel suo orizzonte discorsivo l’esistenza delle mafie straniere.

Il terzo scritto è la ripubblicazione di una serie di suoi interventi, primo fra tutti una lunga intervista rilasciata a “il Grillo” su violenza e criminalità (Lombardi Satriani, 2014), che si presenta come silloge perfetta del suo pensiero. Il lettore attento avrà notato che non includo in questa breve lista gli interventi miranti a sostenere la nascita del Museo della Ndrangheta, poi effettivamente realizzato, perché rispetto a questa impresa la mia opposizione è ancora tenace.

D’altronde, per ragionare di mafia con Luigi Maria Lombardi Satriani bisogna tenere presente i presupposti teorici da cui muoveva e dai quali non si è mai distaccato. Innanzitutto la sua concezione del folklore che, in un’ottica gramsciana, considerava concezione del mondo e della vita in contrapposizione a quella dominante. Attraverso quelli che amava definire «documenti folklorici» (Lombardi Satriani, Meligrana, 1982:494) riteneva possibile recuperare il senso dei valori che animavano la cultura popolare, valori che, rispondendo a condizioni mutate più nella forma che nella sostanza, si proponevano ancora come testimonianze di quel mondo subalterno nel quale venivano espressi i bisogni di strati della società deprivati di molti diritti.  

A questa lucida e chiara visione dell’ambito folklorico si affiancava l’altrettanto radicale convinzione che arcaico, come comunemente venivano ritenute le forme espressive testimonianza della cultura folklorica, non voleva dire «passato e dunque ormai inesistente», ma piuttosto rappresentava il «fondo della storia» (Lombardi Satriani L. M., Meligrana M., 1982: XI) che si conservava anche quando una rivoluzione profonda sembrava averne eradicato il senso. Il rapporto con la propria storia, con la propria tradizione era essenziale nella prospettiva adottata da Lombardi Satriani e andava messo in luce per raggiungere una comprensione meno superficiale di qualsiasi comportamento. L’originalità della sua prospettiva va rintracciata proprio in questo radicale bisogno di recuperare l’ambito dei valori tradizionali, indagandolo senza timore di apparire a volte persino accondiscendente rispetto a quei tratti della cultura locale tradizionale condivisi dalle organizzazioni criminali e su cui queste fanno leva per ottenere il consenso della popolazione.

c511c1bbac51725f9a8fb4ceafe921f2_xlLa significatività di tale posizione è stata verificata sia da una più recente etnografia raccolta sul Gargano agli inizi di questo millennio, dedicata ad indagare la trasformazione di uno scontro fra abigeatari in impresa mafiosa in virtù dell’utilizzo strumentale dell’habitus normativo valoriale proveniente dal modello tradizionale – potremmo dire rifunzionalizzato – che radica l’agire mafioso all’interno di un campo semantico conosciuto e condiviso dalle comunità piegandolo così alle necessità del conflitto (Scionti 2011, 2017), sia dalla nutrita letteratura internazionale che negli ultimi anni ha preso ad appuntare la sua attenzione sui fenomeni di corruzione diffusi in tutto il mondo (Muir e Gupta 2018). L’obiettivo di Lombardi Satriani di permeare la cultura della mafia attraverso l’analisi dei valori comuni alla cultura popolare e a quella mafiosa, per usarli come anticorpi nel tentativo di elaborare una cultura antimafiosa (Lombardi Satriani, 2014:181), risulta quindi, per i lontani anni Settanta e Ottanta in cui cominciò ad essere formulato, lungimirante e rivoluzionario.

Nel dialetto siciliano di fine Ottocento, d’altra parte, mafia era un termine che, come ha avuto modo di ribadire spesso (Lombardi Satriani, 2005: 35), indicava una qualità positiva dell’individuo, sinonimo di grazia e arguzia, passato solo in seguito ad indicare le qualità di un criminale in grado di controllare e dominare se stesso, nascondendo la sua efferatezza sotto una coltre di apparente, e condiscendente, umiltà. I valori del passato sono agiti nel sistema criminale contemporaneo ammiccando al loro significato originario, trasferiti su un piano trasformativo che ne ha rifunzionalizzato i significati. Questo è il primo insegnamento che ci hanno lasciato le riflessioni di Lombardi Satriani sulla mafia.

Su un piano diverso Lombardi Satriani ha sfidato invece quella che ha chiamato «la visione romantica della mafia» (Lombardi Satriani 2005: 34) che si andava formando nella «intellighenzia progressista» (ibidem) italiana, mirando piuttosto a smascherare le dinamiche collusive fra mafia e politica attraverso l’analisi puntuale dell’agire mafioso. Considerando l’esistenza delle tre organizzazioni criminali: la mafia, la camorra e la ndrangheta, come «uno degli aspetti più tragici e rilevanti» (Lombardi Satriani, 2014: 175) della condizione meridionale, ha criticato la postura intellettualistica che portava la maggior parte delle analisi a fondarsi su «un atteggiamento moralistico» (Lombardi Satriani, 2005: 34), a svilupparsi in ossequio alla «ideologia della condanna» (Lombardi Satriani, 1995: IX), e a costruire una conoscenza basata su «una visione esterna di quella realtà» (Lombardi Satriani, 2005: 34), agevolando in questo modo il diffondersi di stereotipi che ostacolavano più che favorire la comprensione del fenomeno.

Fra le sue preoccupazioni, assumeva rilevanza la definizione che si andava costruendo della mafia come «insieme di comportamenti delinquenziali, che sollecitano, in quanto tali, una più efficace azione di ordine poliziesco e giudiziario» (Lombardi Satriani, 1995: X). Stereotipo che ha alimentato, a suo giudizio, l’insorgere di una «iconografia di maniera […] che tende a volte involontariamente a far consumare la merce mafia dopo averla resa degustabile» (Lombardi Satriani, 2005: 33). Il riferimento è alla stagione cinematografica che da il Padrino, girato da Coppola, alla fortunatissima serie televisiva la Piovra e, potremmo aggiungere, alla più attuale Gomorra, ha inciso sulla spettacolarizzazione degli effetti della mafia. Iconografia potente, che tuttavia ha spesso trascurato di accendere piuttosto i riflettori su quell’habitus mafioso che nei termini di Lombardi Satriani era quell’«insieme compatto di tratti, schemi, valori, temi, modelli, norme di comportamento» (Lombardi Satriani, 2005: 37) che, come non si è mai stancato di ribadire, avrebbe richiesto non una mera attività di denuncia né una semplice attività repressiva, ma un’azione di contenimento agita su un piano multidirezionale, in cui lo spazio occupato dalla comprensione della cultura mafiosa tradizionale andava approfondito. In questo modo sarebbe stato possibile procedere da una rappresentazione drammaticamente evidente degli effetti del comportamento mafioso, alla comprensione delle cause che generano, sostengono e alimentano la cultura mafiosa (Lombardi Satriani, 2005: 36).

51vscv1xoql-_sx349_bo1204203200_La spettacolarizzazione dell’agire mafioso ha comportato anche la diffusione di un secondo stereotipo di cui Lombardi Satriani ha teso a smascherare la pericolosità, ovvero la convinzione che la mafia faccia un ricorso spregiudicato all’omicidio; che essa abbia, in sintesi, una tendenza omicidaria (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995: X) prevalente e manifesta. È sufficiente rivedere qualche puntata della Piovra per constatare come sia costruita in riferimento ad una sequenza di omicidi. Le osservazioni di Lombardi Satriani su questo punto sono tanto puntuali da apparire ovvie. La mafia, avverte, dispone di un potere e di un consenso locale costruito nel tempo, basato sull’autorappresentazione di sé come unico tutore degli interessi dei ceti emarginati ed oppressi a cui lo Stato non presta attenzione. In relazione a questa narrazione, che ha concorso a cementare quello spazio di omertà di cui si giovano le cosche mafiose, il ricorso all’omicidio, che attira l’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze dell’ordine, risulta disfunzionale nella misura in cui genera una risposta immediata a tutela dell’ordine pubblico, che ostacola il successo degli affari mafiosi.

Seguendo questa prospettiva, Lombardi Satriani sostiene che la mafia ricorre all’omicidio quando è debole (ibidem), in risposta a una minaccia al suo potere e dunque quando ha necessità di rafforzarsi. In questo senso la stagione degli omicidi segnala i momenti di crisi interna, stigmatizza i passaggi che seguono alla transizione generazionale, all’avvicendamento ai vertici della piramide mafiosa, o all’esplosione di guerre di mafia fra cosche emergenti e cosche dominanti. Considerazioni che mettono in risalto l’aspetto funzionale che l’omicidio assume nell’ottica mafiosa a dimostrazione che essa è «l’unica organizzazione imprenditoriale di tipo moderno che non ha bisogno di pubblicità e che anzi può essere danneggiata da clamorose forme pubblicitarie» (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995: X).

La mafia si regge piuttosto sulla paura che ingenera la forza che è in grado, se e quando vuole, di esibire. Impone il pizzo e manda i suoi aguzzini a riscuoterlo periodicamente. La gente paga e tace. Solo in casi estremi cerca di sottrarsi al taglieggiamento. È quello il momento in cui il potere mafioso esplode in tutta la sua brutalità. Le violenze perpetrate sono azioni dimostrative, specchio e rimemorazione della crudeltà di cui è capace. È la paura che fa chinare la testa, impedisce di denunziare, consiglia di subire. È la paura che, nella visione politica di Lombardi Satriani, rende invincibile la mafia, che la determina «realtà ineliminabile» (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995: XI) anche per quanti non ne sono direttamente attinti. Il teorema della sua invincibilità la rende invincibile. La capacità di risorgere dalle proprie ceneri come araba fenice, a cui stiamo assistendo nel racconto del risultato delle amministrative di quest’anno nella città di Palermo, conferma insieme la capacità di infiltrazione silenziosa e costante che nel completo anonimato essa porta avanti e la visione lucida della azione mafiosa di Lombardi Satriani che ha insistito sulla «connessione sistematica tra le articolazioni istituzionali non solo dello Stato Italiano, ma anche di altri Paesi,  con queste organizzazioni della criminalità» (Lombardi Satriani, 2005: 46). 

Pastoie metodologiche 

Gli stereotipi che hanno alimentato il dibattito pubblico sulla mafia fanno da contraltare, nel pensiero di Lombardi Satriani, ai dilemmi in cui all’apparenza è rimasto impantanato il dibattito antropologico intorno alla mafia. La necessità di scegliere il proprio posizionamento rispetto all’antinomia popolarità/specificità da una parte e, per altro verso l’antinomia arcaicità/modernità, è specchio del livello superficiale sul quale si arrestano le analisi antropologiche.

Il punto di partenza di Lombardi Satriani è che entrambe le antinomie siano false (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995: XI). La prima, popolarità/specificità, accende il focus sulla dimensione valoriale cara a Lombardi Satriani. Scegliendo di valorizzare la dimensione popolare della mafia se ne accentua il legame con la località. Ancora oggi i report della Dia descrivono le attività criminali seguendo l’articolazione delle organizzazioni territoriali dei gruppi nazionali distinguendo fra mafia siciliana, ndrangheta calabrese, camorra napoletana e società foggiana, quest’ultima da poco assurta al ruolo di quarta mafia nazionale. Tuttavia, come aveva fatto notare Lombardi Satriani, così procedendo si tende a criminalizzare in toto le aree regionali in cui operano questi gruppi (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995: XII) o i paesi in cui sono nati e dai quali irradiano il loro potere sul territorio nazionale, spandendo la loro area di influenza sul piano internazionale e intercontinentale.

Se, al contrario, si privilegia la specificità del comportamento mafioso diventa molto più complesso spiegare la presenza nella cultura mafiosa, così come in quella folklorica tradizionale delle aree regionali in cui le organizzazioni mafiose sono nate, di valori condivisi che si richiamano alla famiglia e all’onore, quest’ultimo articolato  attraverso il prestigio, ma anche attraverso la dimostrazione della forza individuale (Lombardi Satriani, 2005: 37) e della virilità, attraverso il ricorso alla vendetta e al rispetto della parola data, del sangue e della solidarietà che impone silenzio e omertà. Tutte dimensioni ampiamente indagate dalla riflessione antropologica che su questo ha prodotto una letteratura talmente vasta che non è il caso di citare in questo contesto, intorno alla quale si è generata una sostanziale condivisione.  

9788873515050_0_536_0_75Qualche difformità invece emerge sulla questione della solidarietà familiare. In quasi tutti i suoi scritti Lombardi Satriani ribadisce il convincimento che «la famiglia costituisce elemento di primaria importanza per l’aggregazione mafiosa» (Lombardi Satriani, 2005: 40), che i «legami tra gli appartenenti al clan sono, prima che mafiosi, di consanguineità» (Lombardi Satriani, 2005: 41), che «si usa l’espressione “famiglia mafiosa” proprio perché il legame fra mafiosi è analogo a quello di tipo familiare o familistico» (Lombardi Satriani 2014: 179). Questa convinzione, largamente diffusa, trascura la considerazione che in sistemi cognatici egocentrati come il nostro, il legame di solidarietà parentale è fragile ed instabile. Le cosiddette famiglie mafiose non sono altro che associazioni temporanee di scopo in cui solidarietà ed alleanza sono frutto di scelte individuali temporanee. Il che, come io stessa ho sostenuto (Resta 2020:382), giustifica sia l’esistenza del pentitismo, su cui fa leva l’attività giudiziaria per minare dall’interno la loro forza coesiva, sia l’instabilità della piramide mafiosa all’origine delle guerre di mafia.

Naturalmente la raffinata interpretazione del fenomeno mafioso che negli anni ha costruito Lombardi Satriani non cade in simili, superficiali tranelli. Egli è ben consapevole che la comunanza sul piano dei valori si trasforma nella radicale differenza che si registra sul piano delle azioni. Ivi l’impianto teleologico dell’azione si dispone secondo una logica divergente che trova una sua giustificazione nel processo di trasmissione a cui la storia ha sottoposto i valori. L’agire mafioso è finalizzato ad accumulare ricchezza, dalla quale discende il prestigio, l’autorevolezza e il potere di cui la mafia gode, mentre nell’agire folklorico i valori conservano le finalità espressive (Lombardi Satriani, Meligrana 1995: XII) che avevano in origine.  

D’altra parte, pur ammettendo che tali valori abbiano le loro radici nell’ethos feudale condiviso, come egli afferma, questi ultimi nel caso dei valori folklorici conservano l’impianto gerarchico piramidale ereditato «per successione diretta» (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995: XII), mentre nel caso dei valori espressi dalla cultura mafiosa essi risultano contaminati dall’influenza dei valori borghesi che includono l’ascesa sociale, riferimento indispensabile al riconoscimento del successo raggiungibile attraverso l’attività mafiosa (Lombardi Satriani, 2005: 42). La soluzione che propone Lombardi Satriani per superare questa antinomia è piuttosto semplice. Invece di porle in alternativa, le due polarità possono essere affiancate. Considerare la mafia sia sul versante della popolarità in cui si radica sia su quello della specificità che determina consente una migliore comprensione del fenomeno mafioso. È nella proliferazione delle possibilità che si può cogliere al meglio la versatilità dell’agire mafioso

Il secondo falso dilemma messo in luce da Lombardi Satriani riguarda l’alternativa arcaico/moderno. Così formulata l’antinomia pare inquadrarsi sullo sfondo di un arcano a cui è difficile fornire una risposta chiara e documentabile. Chi considera la mafia come un fenomeno che ha radici in un passato lontano del quale riproduce le modalità dell’azione violenta, si pone nella scomoda condizione di non potersi confrontare e, dunque di non poter esaminare il fenomeno nella complessità in cui si presenta nella sfera contemporanea, mentre chi si limita a analizzare i comportamenti criminali contemporanei corre il rischio di privarsi dello stimolo alla comprensione che deriva dalla conoscenza di quella cultura arcaica che rappresenta l’humus da cui essa trae le disposizioni che rendono intellegibile il suo habitus. In fondo, così proposta la questione, sembra rimbalzare l’analisi all’antica contraddizione fra approccio sincronico, tipico del più becero funzionalismo, e l’approccio diacronico che aprendosi alla ricostruzione storica impegna il maggior tempo a capire come si sia formato un fenomeno che a comprendere il fenomeno stesso. L’incapacità da parte mia di seguirlo sul piano di questo genere di mediazione, ha fatto, nel tempo, esaurire la spinta al dialogo disciplinare che si era alimentato fra Lombardi Satriani e me, in anni ormai lontani.

Eppure quest’ultimo aspetto chiama in causa un problema metodologico ancora irrisolto e che si riferisce alla specificità della ortodossia metodologica elaborata in seno all’etnografia contemporanea su temi di questa portata. Mentre Lombardi Satriani risolse da subito la questione, ammettendo la possibilità di svolgere la ricerca di campo e l’osservazione partecipante su questioni come mafia, vendetta e corruzione, una maggiore cautela sembra essere richiesta dal dibattito contemporaneo. Il suo convincimento si basava sul presupposto che «chiunque abbia esperienza diretta della vita di un paese meridionale sa che il comportamento mafioso si dispiega sotto gli occhi di tutti. […] chiunque in un paese potrebbe elencare con esattezza i mafiosi del paese stesso, come potrebbe elencare tutti o quasi i loro comportamenti» (Lombardi Satriani, Meligrana 1995: XI).

41aq-18fbzsLo scenario in cui viene ricompresa oggi la questione appare decisamente più articolato e teso piuttosto a mettere in mostra gli ostacoli che alterano l’incontro etnografico e si frappongono alla comprensione di quei processi variegati, compositi, mobili e transnazionali in cui sono ricompresi i fenomeni mafiosi e le attività corruttive. L’ipotesi che era stata avanzata da Carolyn Nordstrom già nel primo decennio del nostro secolo (Nordstrom, 2008) è che il metodo etnografico vada affinato, per poter affrontare quei processi di portata transnazionale ad oggi poco esperibili nella dimensione partecipativa, dialogica e multisituata che rientrano nel campo della extralegalità (Resta 2020).

Un ambito di analisi in cui confluiscono non solo le azioni chiaramente riconoscibili come illegali ma anche tutte quelle pratiche apparentemente legali di cui non si percepiscono gli effetti illeciti. La corruzione, humus fertile delle organizzazioni criminali transnazionali quanto delle organizzazioni politiche, democratiche e non (Kawata 2006), e le mafie che, liberate dallo stigma dell’italianità, sono state riconosciute come aggregazioni temporanee di scopo (Resta 2002) che danno forma alle organizzazioni criminali transnazionali attive in diverse aree del pianeta (Ziegler 2000; Nordstrom 2004; Böll-Stiftung and Schönenberg 2013), si rivelano, infatti, campi di battaglia generati in una realtà hyper-placed (Nordstrom 2010) in grado di sfidare l’efficacia della pratica etnografica e insieme l’applicabilità del sapere antropologico prodotto suo tramite. Ciò vuol dire che le informazioni ottenute sul campo, pur acquisite nella relazione dialogica e partecipata, a cui implicitamente faceva riferimento Lombardi Satriani, dipendono dalla volontà di renderle manifeste da parte di un contesto autoritario e autoreferente come quello mafioso e/o corrotto. Sono da questo rese accessibili selettivamente e non riguardano la sfera più intima delle singole aggregazioni né la loro operatività. Le informazioni su queste ultime vengono rigorosamente riservate agli adepti e si possono rintracciare al più in documenti di archivio, come ho avuto già modo di dimostrare (Resta, 2020: 372). Il rimando all’ancoraggio storico, alle situazioni date, caro a Lombardi Satriani, torna qui con tutta la sua forza propulsiva e, allo stesso tempo, si costituisce come conferma che la pratica etnografica su questo specifico ambito di studio è limitata dalle condizioni materiali in cui si svolge la ricerca, vincolata dalla qualità particolare delle pratiche scelte come oggetto di indagine.

Questo scritto breve non vuole avere una conclusione. È vero che negli ultimi anni il professore Luigi Maria Lombardi Satriani ed io avevamo cessato le nostre conversazioni sull’antropologia giuridica e che ciascuno si era rassegnato ad accettare la diversità dell’altro. Tuttavia, fin quando era in vita avremmo potuto farlo. Rifiutarne la morte sta nel profondo convincimento che gli oggetti ci rimemorano e attraverso i nostri scritti possiamo continuare a discutere e litigare, dunque ad esserci, e che la mafia (Lombardi Satriani 2005:46), come la morte (Lombardi Satriani, Meligrana, 2008), siano entrambi degli altrove, segno di differenze alle quali, tenacemente, rifiutiamo di piegarci. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Riferimenti bibliografici 
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De Martino E., Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in “Nuovi Argomenti” n.69-71, 1964: 105-140
Geertz C., Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 2001 (ed. or 1977).
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Patrizia Resta, Professore ordinario di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Lettere, Beni Culturali, Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Foggia, i suoi interessi di ricerca si focalizzano su temi specifici dell’antropologia giuridica come le dinamiche vendicatorie, le pratiche di risoluzione dei conflitti in contesti urbani, la relazione diritto/violenza, i nuovi paradigmi dell’onore in contesti di globalizzazione, i fenomeni mafiosi locali e transnazionali. Temi sui quali ha pubblicato volumi e saggi in collane e riviste di classe A del settore. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: Il vantaggio dell’immigrazione. Un progetto per una cultura condivisa (2008); Di terra e di mare. Pratiche di appartenenza a Manfredonia (2009); Belle da vedere. Immagini etnografiche dei patrimoni festivi locali (2010).

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