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L’arte per una coscienza terrestre. A margine di un’esposizione di Otobong Nkanga

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Ingresso dell’esposizione “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, di Otobong Nkanga, Nizza, Villa Arson, 12 giugno-19 settembre 2021 (ph. Giovanni Gugg)

di Giovanni Gugg [*]

Può la noce di cola diventare una fonte di ispirazione artistica? È quanto accaduto a Otobong Nkanga, versatile e prolifica artista nigeriana nata a Kano nel 1974 che, attualmente, vive e lavora tra Parigi e Anversa. Dal 12 giugno al 19 settembre 2021, Nkanga espone per la prima volta in Francia con una mostra monografica intitolata “When Looking Across the Sea, Do You Dream?” (Quando guardi attraverso il mare, sogni?), allestita a Nizza, presso Villa Arson, la scuola nazionale di arte contemporanea fondata nel 1881 e riconosciuta come centro di rilevanza nazionale nel 1972. Nelle intenzioni dell’artista, la mostra è un invito a entrare in uno spazio in cui si incrociano mondi diversi, un invito al sogno che non è fatto solo con gli occhi, ma con i sentimenti, per cui può anche essere un sogno caratterizzato da una certa violenza, da un certo sfruttamento dovuto alle crisi economiche e ambientali.

Le immagini di Otobong Nkanga hanno un forte potere evocativo e sono rese attraverso mezzi espressivi diversi e svariati tipi di materiali, per cui la mostra presenta opere fotografiche, performance, filmati, poesie, tessuti, quadri, sculture, composizioni, installazioni, registrazioni sonore, giochi di luce. La gran varietà di supporti e mezzi dà forma ad opere ispirate alla terra, alle sue risorse sovrasfruttate e alle storie che vi sono legate; opere che si collocano al crocevia delle costruzioni del tempo e delle civiltà per andare oltre i nostri orizzonti, immaginando altri mondi.

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Tessuto con poesia di Otobong Nkanga esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

L’esposizione rimanda ad un viaggio, che tuttavia non è cronologico, né destrutturato, quanto piuttosto un viaggio in cui sono privilegiati i collegamenti tematici ed estetici. È un viaggio stratificato, in cui si è “teletrasportati” dalle profondità delle miniere, come in “Solid Maneuvers” (2015), in cui una sorta di rievocazione ctonia porta dagli strati geologici – perforati dagli esseri umani per estrarre pietre e metalli, polveri e respiri – alle profondità del cosmo tra pianeti di un universo che forse ci sovrasta o forse è semplicemente interiore, ma a cui siamo senza dubbio collegati, come in “We Could Be Allies” (2017-2020) o in “Constellation to Appease” (2019) o, ancora, in “The Weight of Scars” (2015).

Il lavoro di Otobong Nkanga raffigura corpi scomposti e talvolta solo evocati, con arti disgiunti ma legati tra loro da funi, radici o rami: una rete di forme che trovano costantemente eco attraverso un’ampia varietà di mezzi.

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Disegni di Otobong Nkanga esposti in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Tutto sembra frammentato, eppure ad uno sguardo d’insieme ne risulta tutto connesso, in totale interdipendenza, come catene di associazioni costruite un pezzo alla volta. Ed è qui che si incontra la noce di cola, un frutto dell’Africa occidentale che ha una ricca storia culturale, accanto a quella botanica.

Nel 1936, monsignor Jean-Marie Cessou, vicario apostolico cattolico del Togo francese, scrisse uno studio dedicato a «una nuova religione nell’Africa occidentale: il “Goro” o “Kunde”» (Cessou 1836). Pubblicato nel supplemento “Études missionnaires” della rivista “Revue d’histoire des missions”, questo articolo si basava sull’esperienza di diversi ecclesiastici che descrivevano la diffusione nella costa del Golfo di Guinea di un culto proveniente dal nord della Costa d’Oro britannica, una colonia della corona del Regno Unito dal 1821 al 1957 corrispondente all’odierno Ghana.

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Installazione “Contained Measures of Kolanut Tales” (2012), di Otobong Nkanga, esposta in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Le autorità religiose erano preoccupate da questo fenomeno perché sembrava interessare sia i seguaci delle religioni locali sia i recenti convertiti al cristianesimo. Infatti il rituale fu descritto come un miscuglio di varie influenze, in cui il fattore determinante era dato dall’uso terapeutico della noce di cola.

Questo frutto, originario della foresta tropicale dell’Africa occidentale e centrale, è consumato da almeno un millennio ed è particolarmente apprezzato per le sue proprietà stimolanti, dovute al suo alto contenuto di caffeina. Consumato fresco, viene masticato a lungo in bocca, in modo da sviluppare un sapore prima astringente e amaro, poi dolce, per cui è diventato nel tempo un simbolo di benevolenza, occupando un posto importante anche negli usi e costumi della società.

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Installazione “Contained Measures of Kolanut Tales” (2012), con arazzi sullo sfondo, di Otobong Nkanga, esposta in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Le noci di cola hanno favorito anche scambi all’interno del continente, come documentò René Caillié nel suo Diario di un viaggio a Timbuctù, pubblicato nel 1830, dove scrisse che in un villaggio mandingo musulmano «gli abitanti si limitano interamente al commercio; vanno qualche giorno al sud, a comprare noci di cola, che portano a Djenné [nel Mali attuale], e che scambiano con del sale» (Caillié 1830: 466).

Per secoli, le strade della cola sono state molto affollate, come rilevò ancora alla fine dell’Ottocento Parfait-Louis Monteil, quando scrisse che ogni anno una ventina di carovane andavano a raccogliere noci di cola nel paese di Ashanti per portarle al mercato di Kano: in testa alla carovana «ci sono dei cammelli che sono stati noleggiati per l’attraversamento del paese e che portano quattro carichi di kola, poi vengono le donne molto cariche di utensili domestici e da cucina, pentole di terracotta, grandi calabashes, scalette contenute in grandi reti» (Monteil 1895: 206).

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Arazzo “Why Don’t You Grow Where We Came From?” (2012), di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Nel corso del XX secolo, la produzione di cola ha registrato una forte crescita. Secondo alcune stime, nel 1910 fu di 20 mila tonnellate, mentre nel 1955 questa cifra fu raggiunta dalla sola Costa d’Avorio nelle sue esportazioni verso il Mali. Successivamente, il maggior produttore di cola divenne il sud della Nigeria, che nel 1957 fornì 110 mila tonnellate al nord della Nigeria (Ouattara 2010: 141).

In questo quadro, dunque, la noce di cola si è distinta per essere un vero e proprio motore economico e sociale, per cui nel tempo non poteva che assumere un alto valore simbolico: viene usata, infatti, per dare il benvenuto agli invitati o per siglare un’intesa o una riconciliazione, ma ha anche assunto un ruolo centrale nelle cerimonie più importanti dell’area, per cui offrirla è ancora oggi un segno di amicizia.

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Arazzo “Why Don’t You Grow Where We Came From?” (2012), di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Come riferito da Cessou circa un secolo fa, «la domenica mattina, nel periodo in cui i cristiani [cattolici e protestanti] suonano le campane per chiamare i loro fedeli in chiesa, il tamburo “goro” [da cola] suona per chiamare i fedeli al culto. [...] Nel pomeriggio, verso le 14, cioè nel momento in cui le campane richiamano i cristiani alle funzioni, suona anche il tamburo di Goro, che chiama i suoi seguaci. Si radunano davanti alla nicchia e ballano fino alle 19 circa» (Cessou 1936, 34).

Otobong Nkanga propone un’installazione che, in qualche modo, rappresenta il culmine del percorso storico, sociale e culturale della noce di cola. Al centro della sua esposizione nizzarda, l’artista ha posto un’opera che sembra la concretizzazione di un suo ricordo d’infanzia: una memoria visiva e materiale, ma anche legata al linguaggio orale, che Nkanga continua a mantenere nel tempo, preferendo parlare/dialogare piuttosto che scrivere, come dimostra l’audioguida disponibile sul website di Villa Arson, al posto di dépliant e guide cartacee.

L’installazione dedicata alle noci di cola (“Contained Measures of Kolanut Tales”) è uno spazio sui racconti di un frutto che è simbolo multiplo di radici e globalizzazione, di appartenenza e relazione, di introspezione e dialogo. L’opera è leggibile a tanti livelli: da quello scientifico-tecnico, con informazioni botaniche e artigianali, a quello antropologico-performativo, con rimandi ai riti e agli incontri favoriti e sugellati dalla cola, fino a quello artistico, con riferimenti agli arazzi esposti sulle pareti circostanti.

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Scultura “Solid Maneuvers” (2015), di Otobong Nkanga, esposta in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Dalla noce di cola partono livelli espressivi che permettono di raccontare la vita delle persone, gli equilibri di potere tra le comunità, il peso dei conflitti e le loro ferite più o meno rimarginate. L’albero – tra profondità della terra e altezza del cielo – rivela perforazioni, stratificazioni e costellazioni in cui minerali, sabbia, spezie, semi, piante, tessuti, umani e animali si mescolano a macchie e ombre, legno e metalli, ossidazioni e corrosioni, rifiuti e scheletri edilizi, paesaggi e mappe geografiche. Per Nkanga, la terra e le sue risorse sono una fonte inesauribile di ispirazione, ma anche un modo per denunciarne il frenetico sfruttamento e consumo.

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Dipinto “Double Plot” (2018), di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

A lungo, l’arte africana è stata ignorata, disprezzata o dimenticata; quando la sua esistenza non era negata del tutto, era al massimo considerata come l’arte preistorica delle caverne, quindi “primitiva” e “bestiale”. Eppure, gli scambi artistici tra l’Africa e l’Europa non sono una novità: già alla fine del XV secolo, i navigatori portoghesi che si diressero verso l’equatore commissionarono agli scultori Sapi, nell’attuale Sierra Leone, la creazione delle straordinarie saliere d’avorio afro-portoghesi, l’“oro bianco” che arricchì le Wunderkammer del Rinascimento.

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Dipinto “The Weight of Scars” (2015), di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Ma l’origine africana di questi capolavori, che oggi i musei si contendono per cifre molto elevate, è stata svelata solo nel XX secolo dall’antropologo William Fagg del British Museum e dal collezionista Ezio Bassani (1988). La letteratura è piena di esempi simili, come nel caso dei bronzi di Ife (in Nigeria) e del Benin, così come è molto nota l’influenza delle maschere africane su Pablo Picasso, André Derain e Maurice de Vlaminck, il cui interesse permise di dare all’arte africana una legittimità che non aveva ricevuto fino ad allora.

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Arazzo di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Con le spedizioni francesi degli anni Trenta, come quella di Marcel Griaule, quest’arte arriva al Musée de l’Homme e all’Esposition coloniale del 1931, ma è un’arte ritenuta ancora scollegata dall’attualità, per certi versi identitaria e tribale, naif e popolare, anche quando viene realizzata con tecniche occidentali come la litografia o la fotografia (Pic 2017: 45). È solo negli ultimi decenni del Novecento che va affermandosi un’idea di arte contemporanea africana, ad esempio con le esposizioni “Magiciens de la terre” (1989), “Africa Remix” (2005) al Centre Pompidou di Parigi o con le biennali di Johannesburg e di Dakar, in cui emergono artisti come Chéri Samba, Pascale Marthine Tayou o Yinka Shonibare (Calmettes 2008).

Le strade dell’arte si sono moltiplicate e numerosi artisti africani spostano la loro residenza in Europa e negli Stati Uniti, così da essere più vicini ai centri d’arte più influenti, come il ghaniano El Anatsui alla biennale di Venezia nel 2007 o l’etiope Julie Mehretu, inserita da “Time” nella lista delle 100 personalità più influenti del 2020.

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: Arazzo di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

Otobong Nkanga si iscrive in questo crescente scambio di creatività a livello mondiale, con in più una forte consapevolezza dell’essere Terrestri: scava le forme e le coscienze, estrae storie e vite, rifiutando l’ostentazione e il disinteresse. La sua opera si pone al crocevia delle nostre costruzioni del tempo e della storia, evidenziando i fragili rapporti che la specie umana ha con il suo ecosistema. Lei, che è tra le artiste contemporanee più richieste dalle gallerie internazionali, non si ferma ai margini della storia, ma pone domande centrali, come il titolo stesso della sua esposizione in Costa Azzurra, in riva a quel Mediterraneo al di là del quale noi europei siamo invitati a porre lo sguardo: “Quando guardi oltre il mare, sogni?”.

Un quesito che invita a osservare al di là dell’orizzonte, oltre i luoghi comuni e oltre noi stessi, «per andare oltre l’Europa, verso altri climi, altre economie», come dice lei stessa nell’audioguida. Questo titolo è anche l’inizio di una breve poesia che riprenderà alla fine dell’estate presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, in provincia di Torino, dove Otobong Nkanga esporrà una nuova mostra dal 20 settembre al 30 gennaio 2022.

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: Arazzo di Otobong Nkanga, esposto in “When Looking Across the Sea, Do You Dream?”, Nizza (ph. Giovanni Gugg)

I musei e le gallerie d’arte contemporanea possono diventare campo di ricerca per l’antropologia, poiché rivelatori di un certo sguardo sull’“altro”. Ogni esposizione è un racconto in cui l’artista rivela una propria visione del mondo che si traduce, come nel caso di Otobogn Nkanga, in un discorso politico.

«L’arte è un gioco con la forma, che produce una trasformazione-rappresentazione esteticamente felice», scriveva l’antropologo Alexander Alland (1977: 39), ma l’arte resta senza dubbio un ambito difficile da delimitare che, tuttavia, è certamente anche impregnato di cultura, nel senso che ogni arte “appartiene” alla sua cultura. Come osservato da James Clifford (1993), quella di arte non è un’idea universale, ma è una categoria occidentale imposta su scala mondiale, per cui anche l’originalità, da noi considerata come spinta alla creazione artistica, non è un dato universale, ma appunto culturale che continua a trasformarsi e a raccontare quel che siamo.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
[*] con la collaborazione di Marina Brancato, dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli
Riferimenti bibliografici
Allan Alexander, 1977: “The artistic animal: An inquiry into the biological roots of art”, Anchor Books, New-York.
Bassani Ezio – Fagg William, 1988: “Africa and the Renaissance: Art in Ivory”, The Centre for African Art, Prestel-Verlag, New York – Monaco.
Caillié René, 1830: “Journal du voyage à Temboctou et a Jenné, dans l’Afrique centrale, précédé d’observations faites chez les Maures Braknas, les Nalous et d’autres peuples, pendant les années 1824, 1825, 1826, 1827, 1828”, tomo 1, Imprimerie Royale, Parigi.
Calmettes Delphine, 2008: “Quel avenir pour l’art contemporain en Afrique après l’exposition Africa Remix?”, tesi di master, Université Rennes 2 Haute Bretagne.
Cessou Jean-Marie, 1936: “Une religion nouvelle en Afrique Occidentale, le “Goro” ou “Kunde” ; son aspect au Togo”, in “Études missionnaires”, supplemento a “Revue d’histoire des missions”, tomo 4, n. 1, aprile; tomo 5, n. 2, novembre.
Clifford James, 1993: “I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo”, Bollati Boringhieri, Torino.
Manière Laurent, 2010: “Les cultes de la kola dans l’Afrique coloniale : trajectoires et appropriations d’un phénomène religieux”, in “Autrepart”, vol. 4, n. 56.
Monteil Parfait-Louis, 1895: “De Saint-Louis à Tripoli par le Lac Tchad : voyage au travers du Soudan et du Sahara accompli pendant les années 1890-91-92”, Félix Alcan, Parigi.
Ouattara Brabima, 2010: “Le commerce de la kola dans les territoires dell’A.O.F: 1881-1960”, tesi di dottorato in Lettere e Scienze Umane, Université Cheikh Anta Diop de Dakar, Sénégal; Université de Cocody-Abidjan, Cote d’Ivoire.
Pic Rafael, 2017: “Entre l’Afrique et l’Europe, des échanges anciens”, in “L’Afrique des routes”, numero monografico di “Beaux Arts”, Musée du quai Branly, Parigi.

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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia Culturale e docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli, attualmente è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris Nanterre. Un suo progetto di ricerca intitolato “Covid-19 and Viral Violence” è finanziato dalla University of Colorado ed è chércheur associé presso il LAPCOS (Laboratoire d’Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales) dell’Université Côte d’Azur di Nizza. I suoi studi riguardano la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, specie quando si tratta di territori a rischio. In particolare, ha condotto una lunga etnografia nella zona rossa del vulcano Vesuvio e ha studiato le risposte culturali dopo i terremoti nel Centro Italia (2016) e sull’isola d’Ischia (2017); inoltre ha osservato e documentato i mutamenti sociali e urbani della città di Nizza dopo l’attacco terroristico del 14 luglio 2016. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Vies magmatiques autour du Vésuve (2017); The Missing ex-voto. Anthropology and Approach to Devotional Practices during the 1631 Eruption of Vesuvius (2018); Disasters in popular cultures (2019), Anthropology of the Vesuvius Emergency Plan (2019); Inquietudini vesuviane. Etnografa del fatalismo (2020).

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