CIP
di Mario Spiganti
8 agosto 1957, negli studi televisivi della Fiera di Milano il boscaiolo cardese Giovanni Maria Cardini partecipa come concorrente alla celebre trasmissione televisiva di quiz “Lascia o Raddoppia?”
Uno strano conflitto culturale tra Milano, la indiscussa capitale economica di Italia, il centro pulsante del boom economico, e Carda [1], una minuscola – 300 abitanti circa – frazione montana della Toscana in provincia di Arezzo, periferica persino rispetto al suo capoluogo comunale situato nel fondovalle, lungo l’Arno, e distante 14 chilometri di strada non agevole. Un incontro/scontro che sembrò consumarsi come un bengala in una sera d’estate sul palcoscenico di Lascia o Raddoppia?, ma non senza lasciare invece una traccia profonda su cui riflettere.
Estate 1957, avevo appena terminato la IV elementare ad Arezzo. In casa l’anno trascorso era stato pieno di novità, come in molte famiglie italiane. Si respirava l’aria del boom economico, con naturalezza quotidiana, senza avvertire, almeno come bambini, la portata delle grandi trasformazioni economiche e sociali che stavano trasformando l’Italia. Ricordo i due oggetti “simbolo” da poco comparsi in casa: il frigorifero e il televisore, ricordati anche da Umberto Eco (Diario Minimo 1963: ‘Fenomenologia di Mike Bongiorno’). Quell’estate non si sentiva quasi più passare, ormai, il motofurgone del “ghiacciaiolo”, come urlava il venditore sostando in strada, con le sue grandi barre di ghiaccio sistemate nel carrello aperto posteriore, protette da teli di juta. Persino le grandinate estive un tempo erano benvenute: ricordo le corse con secchiello al cortile erboso davanti casa per raccogliere il ghiaccio caduto dal cielo. Adesso il frigorifero era il re della cucina.
Ma il televisore ebbe una maggiore importanza. Apparecchi venduti a rate, con modalità ingegnose; il nostro di casa aveva un dispositivo in forma di scatolina posteriore sigillata, contenitore di monetine. Si accendeva a tempo determinato solo inserendovi monete metalliche e si spegneva senza un adeguato rifornimento monetario. Ogni tanto, una o due volte al mese, passava il venditore che scalava il conteggio delle monete ritirate dal prezzo pattuito per la vendita finale.
Una presenza televisiva sempre più diffusa nelle case e, soprattutto, nei bar, con ascolti di massa concentrati su un unico canale RAI. Sicuramente “Lascia o Raddoppia?” di Mike Bongiorno era il più seguito dei programmi. Una vera mania.
Gianmaria Cardini, cardese e boscaiolo di professione, era attratto, come tutti, dalla televisione e da quel programma in particolare. Ho scritto di lui più diffusamente altrove. Nacque il 28 marzo 1928 a Carda in Casentino, da Nazarena Italiani e Raffaello Cardini. Si trattava di una famiglia mezzadrile di montagna, come quasi tutte a Carda, con gestione soprattutto del bosco di castagni; possedeva però anche piccoli lotti propri di terreno agricolo. Suo padre detto “Fello” era spesso assente, come molti paesani, per stagioni lavorative in qualità di boscaiolo e carbonaio, tanto in Italia, come in Maremma e Sardegna, che in Francia continentale e Corsica, alloggiando sempre nelle caratteristiche e geniali capanne di legno e zolle di terra. Provvisto solo di terza elementare, come molti cardesi, spesso totalmente analfabeti, aveva il culto della poesia ed amava in particolare l’Orlando Furioso. Da lui Gianmaria assimilò precocemente tanto la passione per la poesia che per il racconto epico. L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto era il libro di famiglia, anzi, l’unico libro in quel periodo presente in casa. Un vecchio libro che un giorno mi mostrò con amoroso orgoglio. Divenne la sua precoce lettura infantile, iniziò a leggerlo faticosamente in seconda elementare e scorrendolo più volte fino a comprenderlo totalmente. In paese del resto non era l’unico appassionato di Ariosto. Tra gli altri anche Marco Italiani, suo cugino, classe 1924, anch’egli boscaiolo IIIa elementare, era un profondo conoscitore dell’Orlando Furioso.
Nel 1957 a Carda, a circa 700 metri, non era ancora arrivata l’energia elettrica. Sembrava un mondo fermo, ma solo in apparenza perché fermo non lo era mai stato. Gianmaria talvolta, mi disse in una conversazione, era sceso la sera fino al Bar di Rassina, a 14 chilometri nel fondovalle, per seguire ammirato, come tutti, Lascia o Raddoppia. Ma il parroco dell’epoca era appassionato di elettrotecnica e di tutti i dispositivi ad essa collegati. Gianmaria sostiene con una punta di beffarda ironia: “Se avesse potuto avrebbe fatto elettrico anche l’Inferno”. Don Francesco si dotò di un generatore elettrico a benzina. Con questo sistema poteva alimentare con la necessaria energia anche il grande televisore che aveva acquistato, con una antenna capace di intercettare il segnale RAI.
Così anche a Carda ci si poteva ritrovare per assistere a Lascia o Raddoppia. Gianmaria osservava e ammirava i concorrenti, che si alternavano alle domande di Mike Bongiorno come davanti ad uno specchio che ne rifletteva l’immagine e la presunta sapienza davanti a milioni di persone. Ciò che era richiesto ai personaggi che si susseguivano era l’esibizione di una competenza meramente mnemonica e ripetitiva, assolutamente acritica (come ben osservava Umberto Eco) di fronte alla quale Mike poteva esclamare uno dei suoi più amati slogan: “Onore al Merito!” Si trattava come di una settimana Enigmistica, una specie di cruciverba animato connesso ad una sola materia.
Erano passati ormai oltre dieci anni dal 1944, la guerra aveva lasciato in paese ferite e tracce, profonde e indelebili, legate anche ad una eroica presenza partigiana e a tanti tragici episodi. In Italia erano in atto grandi trasformazioni economiche, sociali e culturali tra cui la televisione come fenomeno di massa. Come tutti anche Gianmaria fu coinvolto da questa novità, cercando di non mancare all’appuntamento nazionale del giovedì televisivo dominato dal Quiz di Mike.
Non era certo uno spettatore sprovveduto. Il suo amore per la poesia e per l’Orlando Furioso erano profondi e articolati, espressione di una cultura popolare enorme, profonda e tutt’altro che acritica. Tuttavia si rese conto, assistendo al succedersi dei concorrenti e alle loro esibizioni, che quella logica di domande e risposte secche, legate ad una competenza meramente mnemonica, erano largamente a portata delle sue capacità, soprattutto se circoscritte al tema dell’Orlando Furioso. Ed iniziò a pensarci sopra, con la crescente convinzione di avere le qualità adatte per una eventuale partecipazione alla trasmissione.
Come poeta improvvisatore in ottava rima aveva inoltre maturato una notevole esperienza di esibizioni in pubblico, circostanza che sapeva lo avrebbe aiutato a superare eventuali emozioni negli studi televisivi. Infine c’era un ipotetico vantaggio economico che poteva essere per lui molto importante, oltre ad una eventuale vincita finale consistente. In seguito scoprì, ad esempio, che per il viaggio preparatorio fatto a Milano per un provino di selezione, avrebbe ricevuto un rimborso spese di 15.000 lire. All’epoca per lui l’equivalente di circa 20 giorni di lavoro. Non male.
Si dette così da fare per trovare la strada e i contatti giusti per tentare la partecipazione al programma. Incoraggiato in questo anche dall’amico e cugino Marco Italiani, divenuto nel frattempo un imprenditore del bosco e per cui lavorava. Si presentò dunque a novembre 1956 alla sede RAI di Arezzo dove fu accolto con interesse. La sua domanda fu accettata ed inoltrata prima alla sede di Firenze e poi a Milano da dove ricevette un primo modulo formale per la richiesta finale di partecipazione. Iniziò così il suo percorso di concorrente. Superata una prima selezione, finalizzata alla ricerca spasmodica e continua di ‘personaggi’ adatti alla trasmissione nazionalpopolare, fu convocato nel febbraio 1957 per presentarsi alla commissione esaminatrice di esperti presso la sede RAI di Milano, non senza un congruo rimborso spese per il viaggio.
Gianmaria si fece trovare ben pronto all’appuntamento milanese e mi disse in una conversazione: – «In quei mesi tra novembre e gennaio lavoravo al bosco in Pratomagno, con Marco Italiani. Tagliavamo per fare legno per produrre il tannino e anche per le carbonaie. Eravamo vicini ad un gruppo di case in un posto chiamato Feraglia, dove alloggiavamo. Mi ero portato dietro il libro dell’Orlando Furioso, che già conoscevo quasi a memoria, e lo studiavo accanitamente, note comprese. Così quando mi chiamarono a Milano per l’esame definitivo mi sentivo preparato e andai».
Naturalmente della commissione non faceva parte Mike Bongiorno, interessato solo a che gli sfornassero personaggi adatti, ma veri esperti in disparate discipline ed anche in letteratura e cultura generale, incaricati di una prima valutazione di impatto televisivo del candidato e poi di predisporre le domande per il quiz.
Di questa squadra Gianmaria ricorda bene soltanto la presenza, per il ruolo che ebbe, di un giovane esperto di cui non ricordava il nome, ma che dopo molto tempo gli sembrò riconoscere in Bruno Gambarotta, notato successivamente, qualche anno dopo, in una trasmissione televisiva. Ma ho verificato che non poteva trattarsi di Gambarotta, nel 1957 troppo giovane e non ancora lavorante in RAI.
Sappiamo invece che tra i giovani funzionari e conduttori culturali RAI di quel periodo era presente lo stesso Umberto Eco! Non abbiamo trovato alcuna conferma rispetto a questa sua presenza nella commissione, se non per una vaga somiglianza giovanile con Bruno Gambarotta. Ma si tratta di una ipotesi verosimile e divertente che assumo provvisoriamente per buona.
Gianmaria ricordava come questo giovane esperto riflettesse ad alta voce con il suo vicino su una espressione ariostesca che si trova nella seconda ottava del proemio e da lui ben conosciuta:
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto.
Questo giovane faceva notare ai vicini di tavolo come questo brano celasse una chiave di lettura di tutto il poema. Gianmaria ha poi riflettuto a lungo su questi versi, traendone la conclusione che vedremo. «La commissione –raccontò Gianmaria in una conversazione avuta con me – consisteva in una decina di persone disposte attorno ad un grande tavolo. Cominciarono a farmi domande da uno all’altro ed io risposi sempre esattamente e senza problemi. Perché si trattava di cose semplici e piuttosto banali che sapevo bene. Alcune le ricordo:
- Come si chiamava la spada di Orlando? – Durlindana
- Il nome del cavallo di Rinaldo? - Baiardo
- Il padre di Doralice? - Stordilano, re di Granata
Ed altre ancora. Rispondevo a tutte senza esitazioni e infine mi dissero basta, basta così. Vada e si tenga a disposizione».
Quel giovane “incolto” (quinta elementare conseguita da adulto alla scuola serale) boscaiolo, di bell’aspetto, dal fluido eloquio toscano ma senza accenti aspirati, pronto e sicuro nelle risposte in un argomento ostico ma di sicura presa mediatica andava benissimo. Perfetto per Mike e il suo altare sacrificale. Tutto bene. Salvo che Gianmaria, attentissimo osservatore e ascoltatore, notò nella commissione la strana conversazione tra il giovane esperto e il suo vicino, con la citazione di quei versi su cui successivamente, con il classico senno di poi, ha rimuginato per anni.
E venne la sera del giorno Giovedì 8 agosto 1957. Tutto il paese si preparò ad assistere alla trasmissione. Il parroco Don Francesco aveva sistemato il suo grande televisore sopra il muretto alto quasi due metri che dava sulla piazzetta della chiesa, consentendo l’allestimento di una platea comprendente tutti i paesani. L’alimentazione elettrica era fornita dal generatore collocato in modo tale da non disturbare con il suo rumore.
Ho raccolto la descrizione di quello straordinario evento in più narrazioni. In questa cronaca utilizzo la conversazione videoregistrata nel giugno 2016, sulla terrazza della abitazione di Marco Italiani. Presenti, oltre a me, lo stesso Marco Italiani, Gianmaria Cardini ed Antonio Canovi di AISO (Associazione Italiana Storia Orale).
Mentre Gianmaria era negli sudi televisivi di Milano, Marco seguiva con emozione la trasmissione dalla piazzetta di Carda, immagino in prima fila, con tutti gli amici e parenti. Marco aveva lui stesso una formidabile eccezionale competenza rispetto all’Orlando Furioso, testimoniata da numerose conversazioni da me videoregistrate. Era stato anche l’alter ego, il preparatore esperto che aveva spulciato Gianmaria per lunghi mesi in molte giornate con mille domande, elaborate secondo lo stile della trasmissione. Domande richiedenti risposta secca, le più strane possibili e tutte pertinenti al classico testo.
Seguiamo il breve racconto di Marco su quella storica serata così come è contenuto nella videoregistrazione di quella nostra conversazione a quattro. Rivolto verso di me, ma indicando e riferendosi a Gianmaria seduto alla sua sinistra, affermò: -«Lui dice giusto.. Lui c’era a Milano, davanti a Bongiorno, noi no! Ma noi s’era davanti a lui. Lui era con se stesso, noi s’era un centinaio davanti a lui…e ascoltar soltanto lui.. E con la bramosia incontestabile di vederlo vincere! Allora la seconda domanda dice così (articolata in tre parti):
‘Come si chiamava la spada di Orlando? A quale antico eroe appartenne? A chi andò dopo la morte di Orlando?’ E te (sempre rivolto all’amico) la dicesti un po’ infrenata la cosa. Ma te, ricordati, eri preso da quell’ossessione di riuscire. ..E noi s’era lì… distesi… a guardare il nostro amico, parente tra l’altro mio e di tanti altri presenti, concentrati su te. Te concentrato su lui Quindi questa discrepanza, piccola però c’era.. A quale antico eroe appartenne e quando lui disse Almonte… Madonna…ma Ettore Troiano! Lo sapeva anche il gatto!” al che io aggiunsi “Il gatto di Carda!”.
Fu così che terminò l’avventura di Gianmaria a “Lascia o Raddoppia?” Ma la questione di come sbagliò la risposta nonostante avesse ben saputo di Ettore Troiano merita un approfondimento. Una riflessione che lo ha assillato per anni. E, come mi disse in uno dei nostri incontri, cominciò a pensarci sin dal viaggio di ritorno, deluso e sconsolato, ripartendo dalla stazione di Milano il 9 agosto dove, ironia della sorte, fu riconosciuto da un tassista come concorrente televisivo della sera precedente. In treno, soli, si ha tempo per riflettere.
Dunque, la prima domanda:
- “Come si chiama l’isola
‘Dove le belle donne, e delicate
Son per vivanda a un marin Mostro date’?
- Ebuda! Risposta esatta”
Seconda domanda, articolata in tre punti:
- “come si chiama la spada di Orlando,
- A quale antico eroe appartenne,
- A chi passò dopo la morte di Orlando?”
Gianmaria in cabina si era già sentito gelare per il terzo punto. Perché nulla viene detto in proposito nell’Orlando Furioso, dove non si parla della morte di Orlando. Per cui dopo aver detto Durlindana come prima risposta si fermò un attimo per riflettere.
Mike insistette allora chiedendo “a quale eroe appartenne prima di lui”, traendolo in inganno.
“Infatti – pensai (racconta Gianmaria) – in quel momento non chiese più a quale antico eroe, ma solo a quale eroe appartenne prima di lui. Così immaginai stupidamente che mi volesse aiutare e dissi Almonte. Cioè l’ultimo personaggio che aveva posseduto la spada prima di Orlando. Invece la risposta esatta doveva essere Ettore, l’antico eroe troiano che per primo aveva avuto la spada. Lo sapevo e lo avrei detto un attimo prima se Mike non mi avesse tratto in inganno con la sua variante, omettendo la parola antico”.
Ma resta il mistero del terzo aspetto della domanda, che non ebbe mai risposta. Un fitto mistero.
“A chi passò dopo la morte di Orlando?”. Come avrebbe risposto Gianmaria? Qui entra in gioco la conversazione orecchiata dalla sua vigile e intelligente memoria durante la commissione di febbraio, che era non solo esaminatrice ma anche incaricata di preparare le domande quiz sull’Orlando. Umberto Eco, ricordava Gianmaria, aveva in mano quel giorno il libro dell’Orlando e iniziò a leggere le prime celebri ottave del poema, fino a giungere a:
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto 4
d’uom che sì saggio era stimato prima;
Qui si fermò per far notare ai suoi vicini di tavolo la bellezza e la sottigliezza dei versi, soffermandosi ad alta voce più volte su
..cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto..
Solo di questo si sarebbe occupato il poema e nessuna altra informazione avrebbe dato su Orlando. “..cosa non detta in prosa mai, né in rima..” Altro non si poteva sapere, meno che mai a chi fosse andata la spada di Orlando, della cui morte nemmeno si parla nel poema di Ariosto.
“Non si sa dunque, non è scritto nell’Orlando”, questa sarebbe stata la eventuale risposta corretta, fatta magari citando i versi di Ariosto: “..cosa non detta in prosa mai, né in rima…” Risposta non facile, ma alla portata di Gianmaria e della sua profonda cultura e intelligenza.
Per anni si è arrovellato su questa risposta che restò inespressa, che non ebbe né il tempo né il modo di dire. Si era presentato negli studi televisivi di Milano armato di scudo e lancia come uno dei suoi amati cavalieri ariosteschi.
«Ero andato con l’idea di dare battaglia. Solo con il tempo e con gli anni mi sono reso conto di quanto ero stato grullo…. A loro non interessava nulla di me o dell’Orlando, ma solo dare spettacolo, lo scopo era quello» (Gianmaria 2016).
Davanti a Mike Bongiorno nessuna battaglia, si trovò solo di fronte ad uno specchio riflettente. Solo, di fronte a quella che era l’essenza della mediocrità ignorante fatta persona, come ben espresse poi lo stesso Umberto Eco (“Fenomenologia di Mike Bongiorno”, Diario Minimo, 1963).
Un piccolo dettaglio finale. Gianmaria, uomo di bella presenza, si era fatto confezionare per l’occasione un abito su misura, indossato con molta e naturale eleganza. Realizzato non sappiamo da chi. Forse dalla moglie Graziella, anche lei di Carda, una sarta provetta formatasi a Roma come lavorante alla sartoria di alta moda delle sorelle Fontana, ma era esperta soprattutto di abiti femminili. Ad ogni modo l’abito era bello e relativamente costoso. Ma tornato a casa lo mise via e non volle più saperne. Non lo indossò mai più, lo depose come un cavaliere poteva fare con l’armatura immaginata come protezione magica ma che poi lo aveva tradito in battaglia.
Il Santa Santorum di Gianmaria
Un giorno Gianmaria mi condusse al laboratorio, in cui conservava tutte le sue sculture lignee, quelle che non teneva in casa. Si trattava di un ambiente collocato al di sotto della abitazione principale. Per accedervi, uscendo dall’ingresso, occorreva percorrere una rampa laterale esterna di una quindicina di metri. Una breve discesa camminando accanto ad una parete di sasso e cemento lungo la quale erano disposte molte sue sculture in pietra. Documentai questo percorso con la mia piccola videocamera grandangolare, raccogliendo descrizioni e osservazioni. Senza mai spegnerla entrammo nel laboratorio. Sulla sinistra un bel tavolo grande da lavoro di falegnameria, ben consumato dall’uso, e con tanti attrezzi anche appesi. Lo spazio interno era abbastanza grande ma quasi completamente occupato da statue lignee, alcune grandi e alte ed altre più piccole disposte in mensole alle pareti.
Lo spettacolo era francamente affascinante ed ero ansioso di saperne di più. Lasciai sempre accesa la videocamera, sembrava fatta apposta per muoversi in quello spazio angusto. Appoggiato alla parete destra, di fronte alle sculture, stava un mobile ligneo, probabilmente una vecchia credenza. Aveva anche dei cassetti e conteneva ricordi e cartelle con scritti vari. Mentre parlava con me cercava al suo interno qualcosa che non riusciva a trovare. In una precedente conversazione mi aveva parlato di un dono ricevuto quando era ragazzino (forse ancora durante la guerra) da una famiglia di conoscenti benestanti. Si trattava di un paniere contenente vecchi libri, lascito di una persona loro parente morta da poco. Per la sua gioia tra questi c’era l’Iliade di Omero nella classica traduzione dal greco di Vincenzo Monti (1825).
In quell’armadietto Gianmaria cercava inutilmente le tracce di quel vecchio libro e nel farlo mi raccontò una straordinaria storia. Quando lo ricevette in dono lo lesse tutto avidamente e con estremo interesse, note comprese. Purtroppo però il volume era rotto e mancavano delle pagine. Mentre frugava nell’armadio si voltò verso di me dicendo:-«Il libro si fermava sul combattimento tra Achille ed Ettore. Sapevo come sarebbe andata a finire, ma i versi? Cosa avrebbero detto i versi mancanti?..»
Alla mia domanda se si ricordasse quei versi cominciò a declamare l’Iliade con intensità e passione, ovviamente attingendo alla sua memoria, riprendendo esattamente il canto 18 della versione classica del Monti:
….La discordia fatal, pera lo sdegno
Ch’anco il più saggio a inferocir costrigne,
Che dolce più che miel le valorose
Anime investe come fumo e cresce.
Tal si fu l’ira che da te mi venne,
Agamennón. Ma su l’andate cose,
Benchè ne frema il cor, l’obblío si sparga,
E l’alme in sen necessità ne domi.
Del caro capo l’uccisore Ettorre
Or si corra a trovar; poi quando a Giove
E agli altri Eterni piacerà mia morte,
Venga pur, ch’io l’accetto. Il forte Alcide,
Dilettissimo a Giove e suo gran figlio,
Alcide stesso vi soggiacque, domo
Dalla Parca e dall’aspra ira di Giuno.
Così pur io, se fato ugual m’aspetta,
Estinto giacerò. Questo frattanto
Tempo è di gloria. Sforzerò qualcuna
Delle spose di Dardano e di Troe
Ad asciugar con ambedue le mani
Giù per le guance delicate il pianto,
E a trar dal largo petto alti sospiri.”
………………….
«E finiva lì… – aggiunse Gianmaria interrompendosi – ed io allora mi sforzai per molto tempo di continuare da me in versi cercando di completare il poema, almeno il duello». Nel dirlo lo fece con una impareggiabile mimica facciale e gestuale che esprimeva la difficoltà di quella impossibile impresa, ma anche, penso, la sua stupefacente grandezza. Un amore sconfinato per la poesia.
Non ho la capacità di comunicare, con la trascrizione di queste sue espressioni meramente verbali, l’intensa emozione che ancora provo riguardando quelle ormai lontane videoregistrazioni. Soprattutto pensando ad un ragazzino che si sforza mentalmente per reinventare e riscoprire in sé stesso i versi di Omero, magari dentro ad una selva di castagni, lavorando al bosco.
Ercole e Anteo
Le statue di legno riempivano il locale, bellissime. Nella conversazione parlammo un po’ di tutte. Spesso erano ottenute da radici grandi di varie essenze arboree e capitava, mi disse, che ricavasse ispirazione dalle loro contorsioni naturali per dare vita a vari personaggi. Qui indico solo un esempio tratto dal nostro lungo colloquio.
Sopra un espositore per vasi era appoggiata una piccola composizione lignea raffigurante due teste che si guardavano, una dominante che sembrava stringere l’altra come in un abbraccio soffocante.
Alla mia domanda su quali fossero i personaggi rappresentati, Gianmaria la prese in mano per mostrarla meglio e poi disse: «Questo legno è di pero, che poi ho tagliato per eliminare una parte con i tarli. Queste due figure mi sembrano Ercole e Anteo, Ercole che stringe il gigante Anteo per ucciderlo». In riferimento a quella composizione mi declamò subito, con maestria e disinvoltura, un brano dell’Orlando Furioso in cui si cita Anteo. Il passo si riferiva al guerriero saraceno Rodomonte, costretto ad allontanarsi sconfitto da Parigi:
E sí tre volte e piú l’ira il sospinse,
ch’essendone giá fuor, vi tornò in mezzo,
ove di sangue la spada ritinse,
e piú di cento ne levò di mezzo.
Ma la ragione al fin la rabbia vinse
di non far sí, ch’a Dio n’andasse il lezzo;
e da la ripa, per miglior consiglio,
si gittò all’acqua, e uscí di gran periglio.
Con tutte l’arme andò per mezzo l’acque,
come s’intorno avesse tante galle.
Africa, in te pare a costui non nacque,
ben che d’Anteo ti vanti e d’Anniballe.
Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque,
che si vide restar dopo le spalle
quella cittá ch’avea trascorsa tutta,
e non l’avea tutta arsa né distrutta.
(Orlando Furioso, canto decimo ottavo)
Ercole e Anteo dunque, scolpiti in un pero del Pratomagno da Gianmaria Cardini, nato e vissuto a Carda e bocciato da Mike Bongiorno a Lascia o Raddoppia? il giorno 8 agosto 1957.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Carda, frazione di Castel Focognano (AR) è un piccolo paese della montagna Toscana. Collocato, come nascosto, in una valle interna del massiccio del Pratomagno, nella parte casentinese. Mestieri prevalenti per tutto il Novecento (e spesso migranti), anche se non unici, erano quelli di boscaiolo, tagliatore/carbonaio, per gli uomini e “a servizio” (anche presso strutture alberghiere ) o balie ed anche sarte in atelier di alta moda romana per le donne. Attraverso le generazioni avveniva la trasmissione della cultura materiale con le relative necessarie competenze, soprattutto per le pratiche agricole e la coltura della selva di castagni (prevalentemente mezzadrile). Contemporaneamente, in un contesto di analfabetismo diffuso (era comunque presente dagli anni ‘20 la scuola elementare fino alla IIIa), si ha la trasmissione orale di poesia, autori classici, racconti e storie di vita. In entrambi i modi della trasmissione (cultura materiale e orale) le strategie della memoria sono forti e attive, con modalità probabilmente perdute, non facili da comprendere, che tuttavia si svelano nel racconto orale. Particolare e drammatico impatto ebbe il 1944, in cui il paese ospitò una importante e gloriosa banda partigiana. Carda dunque, per una serie di favorevoli circostanze che qui si concentrano e intrecciano, è un luogo speciale per l’osservazione e lo studio delle dinamiche di memoria attraverso il succedersi delle generazioni. In lunghi anni di frequentazione, oltre dieci seguendo una metodologia propria della Storia Orale (da socio di AISO, associazione italiana di storia orale) ho raccolto molte conversazioni e storie, documentate ricorrendo a tecniche di videointervista. La vicenda narrata appartiene a questo lungo percorso di lavoro.
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Mario Spiganti, laureato in Filosofia alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze (1978), animatore culturale sin dagli 80 in Casentino (AR), si occupa di Memoria e Territorio. Nel 1988 per la Comunità Montana del Casentino progetta, realizza e dirige la Banca Intercomunale Audiovisivi (B.I.A.), nel 1996 progetta e dirige il servizio Cred (Centro Risorse Educative e Didattiche)- Banca della Memoria. Il CRED è anche archivio digitale di immagini e suoni legate alle tradizioni culturali e materiali dell’Area Casentino, della Provincia di Arezzo e della Regione Toscana. Nel 2004 riceve ad personam il premio EX-AEQUO per la Cultura della Regione Toscana. Dal 2014 socio della Associazione Italiana Storia Orale (AISO) è autore di progetti pertinenti alle persecuzioni razziali fiorentine, al passaggio della guerra e Resistenza in Toscana; di un progetto di Storia Orale, in corso d’opera, “La frazione montana di Carda (AR) nel Novecento: dalla guerra Italo Turca del 1912 a Lascia o Raddoppia? (1957)”. Negli anni 2018-2019 come coautore partecipa in Cile alla realizzazione, per la Regione Emilia Romagna, del progetto “Il Territorio nella Valigia”, condotto con videointerviste, sulle memorie femminili delle emigrazioni emiliano romagnole in Cile nel Novecento.
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