per Luigi
di Antonello Ricci
A metà maggio del 1994 ero in viaggio da Roma, insieme a Luigi Lombardi Satriani, alla volta della località Le Castella in provincia di Crotone, sulla costa ionica della Calabria, per partecipare a un convegno di studi dal titolo “Riti e convivi nuziali in Calabria” (Liguori Proto 1997). Avevamo concordato di fare il viaggio con la mia auto, in quel periodo una Fiat Panda 1000. Misi subito le mani avanti dicendo che avevo una piccola utilitaria, pensando che lui fosse abituato ad altri confort di viaggio. Mi rispose che era la sua macchina preferita, ricordando il fatto che Gianni Agnelli si faceva fotografare abitualmente alla guida di una Panda. Nel corso del viaggio, comprammo un paio di panini a Celico, un paese in provincia di Cosenza che si incontra dopo aver lasciato l’autostrada e imboccato la statale 107 della Sila. Li mangiammo avvicendandoci alla guida. Lui consumò il suo dopo di me e finito lo spuntino si addormentò per qualche minuto.
Quando si svegliò avevamo superato Camigliatello, il tratto di culmine della statale silana, e la strada scendeva verso il Marchesato di Crotone con una pendenza via via sempre più accentuata. Io guidavo veloce e con una certa sicurezza e lui commentò dicendo che era evidente che eravamo entrati nel “mio” territorio, da come guidavo la macchina. Non so se fosse preoccupato per la velocità, ma il commento mi colpì perché sembrava una fulminante definizione di appartenenza a un luogo.
Il convegno si svolse mettendo in mostra la consueta personalità sicura e brillante, catalizzatrice e densa, di Luigi, che avevo imparato a conoscere nelle occasioni pubbliche. Anch’egli era nel “suo” territorio e il territorio stesso reagiva positivamente verso di lui.
Avevo conosciuto personalmente Luigi Lombardi Satriani nel 1982, in occasione del VII Congresso storico calabrese, dedicato ai Beni culturali in Calabria, a cui partecipai insieme a Roberta Tucci (Zinzi 1985). Precedentemente lo conoscevo come autore di libri fondativi della mia esperienza di studi. Ci aveva coinvolti Diego Carpitella – a sua volta invitato da Luigi a parlare dei Beni etno-musicali – che era al corrente di alcune nostre campagne di ricerca sul territorio calabrese da cui era emersa una vasta e ricca dimensione musicale tradizionale viva sul territorio della regione. Roberta collaborava con lui da parecchi anni, io stavo avviandomi alla conclusione tardiva dei miei studi universitari in etnomusicologia. Il nostro intervento ebbe per tema Per un inventario degli strumenti e per un censimento dei musicisti popolari in Calabria (Ricci, Tucci 1985: 757-761).
Seguii tutta la sezione dedicata ai beni culturali di ambito etno-antropologico. C’era anche una parte sui beni etno-linguistici con Giorgio Raimondo Cardona e John Trumper. La parte coordinata da Luigi era dedicata ai Beni demo-etnologici e, oltre al suo intervento di apertura, ci furono quelli di Ottavio Cavalcanti sui beni demo-bibliografici, del compianto Francesco Saverio Meligrana, che ebbi modo di conoscere e frequentare amichevolmente come Lello, su questioni di arte popolare, di Francesco Faeta sul patrimonio etno-fotografico, di Maria Minicuci sulla dimensione femminile dei beni culturali demo-etnologici, di Vito Teti sul cibo contadino come bene culturale, di Domenico Scafoglio sulla letteratura popolare. L’insieme di questi interventi offriva la netta impressione di trovarsi di fronte a una compattezza di scuola che si muoveva intorno alla figura di Luigi, un nucleo di studiosi orientati e collocati in un preciso settore dell’antropologia italiana di quegli anni.
Dall’interno ho potuto poi verificare come essi fossero portatori di ben distinte personalità culturali e scientifiche, a volte anche fortemente divergenti e con esplicite prese di autonomia e di distanza. La personalità e il carisma di Luigi – in quegli anni Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e personalità centrale dell’Università della Calabria che aveva contribuito a fondare – erano agevolmente in grado di tenerle insieme tutte e senza particolari scossoni. Il nucleo convergente di quelle energie intellettuali era lui, robusta forza di gravità in grado di attrarre comunque e sempre tale costellazione di studiosi. Una prospettiva comune di interessi e di modi di vedere, espressi in quel convegno nella diversità degli interventi di ciascuno, dava la precisa idea di un gruppo che si muoveva compatto. Ed era evidente anche un’empatica sintonia di comportamenti interpersonali messi in atto in forme amicali e intime, a lasciar trasparire l’intesa di gruppo.
Ricordo l’impostazione che Luigi diede al suo intervento introduttivo sui Beni culturali DEA, un orientamento che aveva già molto chiaramente espresso insieme alla sua sodale Annabella Rossi lavorando criticamente sulla pubblicazione dei materiali etnografici raccolti da Raffaele Corso per la Mostra di Etnografia italiana del 1911 (Lombardi Satriani, Rossi 1973), così come in altre occasioni in cui si occupò di Beni culturali DEA, in particolare della cultura materiale del mondo contadino (tra i tanti interventi si vedano Lombardi Satriani 1981; Faeta, Lombardi Satriani, Minicuci 1984). Il suo interesse riguardava ogni forma di espressività della cultura popolare, materiale o immateriale che fosse, a patto che venisse sempre collocata nel complessivo panorama di cui essa era parte. Non era interessato a una visione parcellizzata e tipologica dei beni culturali, come oggetti, canti, musica, credenze, ma alla individuazione della complessa rete di relazioni, simboliche, rituali, d’uso e di valore entro la quale ciascuno di essi occupava una dimensione viva.
Ricordo, al riguardo, che con Rossi rilevarono, nella ricerca sul campo di Raffaele Corso, volta alla raccolta di oggetti per la Mostra dell’11, una problematica assenza di qualsiasi riferimento alle condizioni di vita delle persone i cui oggetti venivano studiati, catalogati e messi in esposizione. Si tratta di un’impostazione di netta derivazione gramsciana che tiene conto del nesso inscindibile esistente fra condizioni sociali e fatti culturali. Nel suo interesse per i Beni culturali DEA, esplicitato attraverso molteplici progetti di rilevamento, di catalogazione [1], di raccolta di documenti di varia natura, comprese registrazioni sonore presenti nei più importanti archivi pubblici italiani, era sempre attento e sollecito a evitare qualsiasi forma di snaturamento, di mercificazione, di inopportuna decontestualizzazione, seguendo la sua pionieristica denuncia del processo di svuotamento di significati e di valenze dei Beni culturali DEA in favore di altri opposti valori della cultura dominante (Lombardi Satriani 1973). Anche per questo, a mio avviso, Luigi Lombardi Satriani non ha mai condiviso la “svolta” patrimonialista assunta dagli studi demologici italiani dalla fine degli anni ’90 del Novecento, soprattutto per l’inclinazione in senso turistico e per la trasformazione in “risorsa” molto spesso attribuita alla valorizzazione del patrimonio culturale DEA da pro loco e altri “portatori di interesse”, assecondata da molti studiosi del patrimonio DEA.
Ad agosto del 1990 Diego Carpitella morì improvvisamente e prematuramente. Ci incontrammo con Luigi nella camera ardente presso il Policlinico universitario Umberto I di Roma, in un’atmosfera di profonda commozione e cordoglio di tutti i presenti. Durante la veglia funebre si avvicinò e mi chiese se fossi interessato a un dottorato di ricerca in discipline DEA. Rimasi disorientato dalla richiesta fatta in quel momento. Dissi di sì, ma con disagio. Poi capii che il momento e il luogo erano stati scelti appositamente. Penso che avesse compiuto quel gesto seguendo un’etica del lutto e del contesto funebre propria di chi possiede una densa e profonda cultura dei legami amicali, caratteristica della sua appartenenza meridionale tante volte rivendicata con orgoglio.
Quando nel 1987 Lombardi Satriani assunse la cattedra di Etnologia alla “Sapienza” di Roma trovò l’immediata ospitalità di Carpitella presso l’Istituto di Storia delle Tradizioni Popolari/Etnomusicologia al piano terra della Facoltà di Lettere e Filosofia, con la condivisione dei locali dello studio: una forte testimonianza del legame di amicizia e di intesa scientifico-culturale che li unì nel corso delle loro carriere.
Tra il 1988 e il 1989 preparavo la mia tesi di laurea in etnomusicologia su un repertorio di canti polivocali femminili della provincia di Cosenza con un’impostazione insieme di analisi etnomusicologica e di antropologia della musica. Per via della territorialità e dell’interesse di Luigi per le forme espressive della cultura popolare, gliene parlai portandogli materiali di lavoro e ipotizzando una sua correlazione. Carpitella scelse, invece, Pierluigi Petrobelli, musicologo di grande apertura per le forme della tradizione orale, con il quale aveva intessuto rapporti di collaborazione. Luigi non se ne dolse, mi spiegò anche le motivazioni di cui avevano parlato insieme, e mi disse, comunque, che avrebbe voluto pubblicare un estratto della tesi sulla rivista militante di quegli anni “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi” di Franco Tassone (Ricci 1991). Nella commissione della seduta di laurea era anche presente Luigi, che intervenne ampiamente sul mio lavoro, rappresentando di fatto un correlatore aggiunto.
Quando l’anno dopo Carpitella morì Luigi, con quel suo gesto davanti all’amico scomparso, ha forse voluto in qualche modo restituire ciò che aveva ricevuto in termini di accoglienza e di intesa condivisa per anni. Non sto raccontando questo episodio per mera autorappresentazione, ma per riportare un flash del tipo di rapporti che intercorrevano tra studiosi, intellettuali e accademici in certi anni, secondo uno “stile italiano” di antropologia culturale che ho cercato di ritrarre qualche anno fa, con una serie di seminari di cui Luigi è stato tra i principali protagonisti (Ricci 2020).
Subito dopo Capodanno del 1996 Luigi venne a Cirò Marina a casa dei miei genitori. Avevamo concordato di scrivere insieme la prefazione del mio libro Ascoltare il mondo, tratto dalla tesi di dottorato di ricerca che avevo condotto con un’impostazione di antropologia del suono e dell’ascolto. La tematica, la metodologia inconsueta e per niente praticata in quegli anni, lo avevano attratto e affascinato. Ne avevamo parlato a lungo, soprattutto in merito alla distinzione, che mi sollecitò a evidenziare con cura, fra un approccio etnomusicologico e un altro di antropologia del suono. Avevamo molto discusso dei riferimenti teorico-metodologici a una fenomenologia dell’ascolto e lui stesso mi consigliò vivamente di seguire alcune piste segnate da Heidegger e Derrida sulla natura del suono, sulle qualità dell’udito nella costruzione dell’esserci al mondo:
«Non c’è amico senza orecchio […] Non c’è orecchio senza amico. […] Tendere l’orecchio non è provare delle sensazioni uditive o sentire dei rumori […]. Noi tendiamo l’orecchio verso ciò che è al di là dell’orecchio aperto, laggiù, nel mondo […]. L’orecchio dell’antropologo può diventare allora metafora del suo costitutivo porsi in ascolto» (Lombardi Satriani 1996: 11-12).
Alcune frasi dallo scritto di Francesco Faeta presente nel numero precedente di questa rivista mi sembra descrivano bene uno dei tratti di creatività che hanno contraddistinto l’approccio di Luigi:
«Come spesso gli accadeva, l’attenzione per il lavoro altrui, finiva per essere accolta all’interno della propria riflessione e per arricchire, in modo naturalmente del tutto originale, il proprio approccio. Io che ho imparato da lui cose fondamentali, e la postura stessa dell’antropologo nei confronti dei suoi simili e della realtà, ho avuto il piacere e l’onore di vedere come alcune cose che andavo pensando e realizzando, fossero vagliate criticamente e acquisite da Luigi, andando a completare il bagaglio con cui quotidianamente affrontavamo il mondo».
Più volte notai negli scritti di Luigi il ricorrere della metafora dell’orecchio come sintesi rappresentativa della postura dell’antropologo, della sua relazionalità e riflessività, dell’essere, il lavoro dell’antropologo, sempre un dialogo con l’altro, con gli altri. Ho ascoltato spesso questa metafora sapientemente mescolata nelle sue conferenze, nei suoi discorsi pubblici, nelle sue lezioni, quando metteva in atto la sua straordinaria capacità affabulatoria che mi ricordavano gli assolo free di sassofono di John Coltrane o i solo piano di Keith Jarrett: una vera e propria dinamica dell’oralità in grado di riformulare e restituire in maniera sempre nuova i suoi contenuti, letti, uditi altre volte, ma resi inediti dall’effetto caleidoscopico della sua intelligenza eclettica.
Lavorammo intensamente nei due giorni che rimase a Cirò Marina. Mia madre, fra l’altro, preparò un piatto che aveva capito piacergli molto: colombi ripieni alla cacciatora. Ma abbiamo anche fatto qualche giro nei dintorni. Mi disse che conosceva la famiglia Pugliese, una delle famiglie nobili di Cirò con cui la sua famiglia aveva avuto rapporti e scambi nel recente come nel remoto passato. Andammo nella tenuta di Pugliese in campagna, dopo aver avvisato il padrone di casa, per un lungo e cordiale incontro. Mi chiese anche di poter visitare Cirò: voleva che gli mostrassi la casa dove ero nato. Ne avevamo parlato più volte, gli avevo raccontato che era la casa paterna di mio padre. Era chiusa da qualche anno perché i miei parenti si erano trasferiti a Cirò Marina. Mi raccomandò vivamente di non abbandonare quella casa: sembrava vi avesse colto come un segno di vitale legame familiare, me lo ripeté più volte.
Poco tempo dopo, nel 1997, con Roberta Tucci avevamo ideato un progetto di pubblicazione intorno ai testi dei canti popolari raccolti da Raffaele Lombardi Satriani, restituiti in forma sonora attraverso le registrazioni sul campo che nel corso degli anni avevamo realizzato in Calabria (Ricci, Tucci 1997). Una sorta di “Raffaele Lombardi Satriani cantato” che Luigi accolse con entusiasmo anche per l’affetto e la stima intellettuale che nutriva per suo zio. Gli portammo a vedere il lavoro preliminare che avevamo fatto sulle raccolte dei testi; era presente anche la sua prima moglie Bianca Meligrana, purtroppo scomparsa prematuramente. Furono entrambi sorpresi e contenti dell’inaspettata riformulazione di un’opera che sembrava ormai consegnata alla storia degli studi sulla poesia popolare. Ricordo che fu proprio Bianca a mettere in rilievo la novità della riproposizione di quei testi storici attraverso le performance dei musicisti popolari contemporanei. Luigi ricordò il proverbio “Chi ha voce” (Cu’àvi vuci vinci ô casu, chi ha voce vince al formaggio), che è anche il titolo di un libro dedicato a Raffaele Lombardi Satriani (Bertonelli, Lombardi Satriani 1985), collocando la dimensione viva delle esecuzioni cantate nella prospettiva, da lui più volte riformulata, del “silenzio folklorico” come metafora della radicale subalternità della cultura contadina: in questo caso il silenzio folklorico veniva squarciato dalla sonorità delle voci, a restituire dignità culturale a un mondo tenuto ai margini.
Scrisse poi una prefazione al volume dal titolo L’ascolto del passato e lo sguardo da vicino (Lombardi Satriani 1997), mettendo in luce la necessità di un dialogo stretto e continuo fra approcci e prospettive differenti riguardanti le forme espressive della tradizione orale contadina e soprattutto la necessità di tenere viva una dialettica fra passato e presente per poter acquisire
«la continuità di uno sguardo lucido che non paga per un’ideologica “novità” (ma quanti equivoci e pericoli si annidano nel “nuovismo” contemporaneo) alcun demagogico contributo alla scelta di opacità nei confronti del passato che va ripercorso problematicamente, per tentare di essere compiutamente uomini e, specificatamente, studiosi nel proprio tempo, del proprio tempo» (ivi: 17).
Nel 2004 Luigi Lombardi Satriani diede vita a un progetto di rivista scientifica di ambito umanistico con specifico orientamento antropologico culturale che intitolò “Voci”, riprendendo un progetto avviato insieme a Mariano Meligrana nel 1958 con la collaborazione di Armando Catemario. Nella veste attuale si tratta di una rivista di classe A del settore DEA, secondo i criteri di valutazione Anvur. Il periodico ha avuto vita grazie alla forte volontà di Luigi coadiuvato da un gruppo di allievi e studiosi di suo riferimento che potremmo definire della seconda e anche terza generazione: Enzo Alliegro, Katia Ballacchino, Letizia Bindi, Laura Faranda, Mauro Geraci, Fiorella Giacalone, Fulvio Librandi, Maria Teresa Milicia, Rosa Parisi, Antonello Ricci, Gianfranco Spitilli. Col passare degli anni la rivista ha acquisito una fisionomia sempre più definita ed è diventata un decisivo punto di riferimento per gli studi DEA italiani ed europei.
Per me è stato motivo di accrescimento intellettuale e professionale, e anche fonte di soddisfazione personale, l’aver avuto affidata da Luigi la guida del Comitato direttivo della rivista, potendo, in tal modo, condividere con lui le scelte, l’orientamento, la vita stessa del periodico. Di particolare rilevanza è stata la volontà di porre in risalto il valore scientifico e documentario della fotografia mediante la pubblicazione in ogni numero di un dossier fotografico, chiamato “Camera oscura”, sempre criticamente collocato tramite uno scritto analitico. Intendevamo far riferimento, tanto alla tecnica della fotografia analogica, quanto alla dimensione autoriale della ripresa fotografica: una camera oscura nella quale l’immagine prende vita secondo specifici intenti di rappresentazione del mondo.
Il lavoro redazionale di “Voci” ha costituito un legame forte che ha tenuto insieme un gruppo di studiosi accanto al Maestro, anche quando questo, per ragioni anagrafiche, si è allontanato dalla vita accademica attiva. Per il nostro gruppo redazionale il dialogo con Luigi, in quanto Direttore di “Voci”, non si è mai interrotto, neanche nei suoi ultimi mesi di vita. Lo tenevo costantemente al corrente dell’andamento dei lavori del numero in cantiere. L’ultima riunione di redazione, con grande difficoltà per lui e per la sua seconda moglie Patrizia che lo aiutava in queste occasioni, è stata tenuta da remoto, come ormai succedeva da mesi per il problema pandemico in atto. È avvenuta il 26 maggio, a distanza di quattro giorni dalla sua morte, avvenuta il 30 maggio 2022. La riunione si è svolta, come sempre, mettendo in evidenza risultati, problemi, progetti inerenti alla rivista e lui non ha mancato, pur con la difficoltà respiratoria che lo affliggeva, di essere a pieno regime dentro alla dimensione lavorativa. Abbiamo tutti avuto la stessa viva sensazione che abbia voluto tenere quella riunione soprattutto per stare tutti insieme un’ultima volta, salutarci come Direttore di “Voci”.
Per chiudere vorrei ritornare al convegno “Riti e convivi nuziali in Calabria” con cui ho aperto questo contributo. Sicuramente non è stato l’evento più importante e significativo della vita intellettuale di Luigi, ma può ben raccontare il suo modo di vivere i momenti convegnistici in una maniera insieme distesamente ludica e densamente impegnata. Il suo intervento fu rigoroso e calato nella prospettiva da lui sempre seguita della rappresentazione del mondo contadino calabrese attraverso le differenti forme espressive dell’oralità in grado di restituire un complesso ethos dei comportamenti culturali. L’incontro si svolgeva in una sede particolarmente suggestiva, accanto alla nota fortezza aragonese proiettata sul mare che dà il nome alla località calabrese. L’organizzazione del convegno prevedeva anche momenti conviviali che, fra l’altro, richiedevano un abbigliamento adeguato: per gli uomini abito scuro e cravatta obbligatoria. Io non avevo né l’uno né l’altra. Per inciso non ho mai portato una cravatta: ne comprai una quando, da segretario generale dell’Aisea di cui Luigi era presidente, dovevo indossarla per entrare al Senato a incontrarlo durante il periodo del suo incarico parlamentare. Ritornando ai momenti conviviali del convegno, la sera dell’inaugurazione dei lavori ci fu una cena di gala che si concluse con una lunga serata di intrattenimento. Ricordo Luigi che ballò a lungo con sorprendente, per me, perizia coreutica: anche nel momento ludico continuava a essere nel “suo” territorio.
Voglio ricordarlo così.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] A uno di questi, dedicato all’inventariazione e catalogazione degli oggetti del Museo di Etnografia e Folklore “Raffaele Corso” di Palmi (RC), partecipammo Roberta e io per la schedatura degli strumenti musicali popolari lì conservati (Ricci, Tucci 1991). Un altro di questi progetti riguardante la Casa-museo di Antonino Uccello a Palazzolo Acreide è ricordato da Laura Faranda nel suo scritto presente in questo stesso numero di Dialoghi Mediterranei.
Riferimenti bibliografici
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1984, Strumenti di lavoro e dimensione simbolica, in I mestieri. Organizzazione, tecniche, linguaggi, Atti del II congresso internazionale di studi antropologici siciliani, Quaderni del circolo semiologico siciliano 17-18, Palermo: 591-607.
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1981, Lo sbiadimento dell’oggetto folklorico tra problematica demologica e “cultura materiale”, in L. Loria, Il paese delle figure: Caltagirone, a cura di L.M. Lombardi Satriani, Sellerio, Palermo: 11-26.
1996, Prefazione. L’orecchio dell’antropologo, in A. Ricci, Ascoltare il mondo. Antropologia dei suoni in un paese del Sud d’Italia, Il Trovatore, Roma: 11-18.
1997, Prefazione. L’ascolto del passato e lo sguardo da vicino, in A. Ricci, R. Tucci, I “Canti” di Raffaele Lombardi Satriani. La poesia cantata nella tradizione popolare calabrese, AMA Calabria, Lamezia Terme: 9-17.
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Antonello Ricci, professore ordinario di Discipline DemoEtnoAntropologiche presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo (SARAS), “Sapienza” Università di Roma, dove presiede il corso di laurea magistrale in Discipline EtnoAntropologiche. Conduce ricerche sul campo nell’Italia centrale e meridionale sui temi delle culture pastorali, dell’ascolto, della museografia e dei beni culturali DEA, della antropologia visiva e della festa. Tra le sue pubblicazioni: Sguardi lontani. Fotografia ed etnografia nella prima metà del Novecento, Milano, 2022; cura di L’eredità rivisitata. Storie di un’antropologia in stile italiano, Roma, 2020; Suono di famiglia. Memoria e musica in un paese della Calabria grecanica (con M. Morello) Udine, 2018; Il secondo senso. Per un’antropologia dell’ascolto, Milano, 2016; I suoni e lo sguardo. Etnografia visiva e musica popolare nell’Italia centrale e meridionale, Milano, 2007.
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