di Francesca Morando
«La fraseologia di una lingua è un valido patrimonio linguistico che riflette la visione del mondo dei parlanti, la loro cultura strettamente legata agli usi e costumi, alle leggende e credenze, alla fantasia e alla storia della collettività linguistica. Grazie alle unità fraseologiche possiamo indovinare il passato e il presente di una lingua. Dicendo “il passato” intendiamo che nella fraseologia sopravvivono parole cadute in disuso e strutture sintattiche che non si usano più. Quanto al presente possiamo constatare lo sviluppo semantico della fraseologia idiomatica, la nascita di parole e di modi di dire nuovi motivati dalla fraseologia» (Bralić, 2011: 171).
In questa cornice si vogliono mettere in evidenza alcune delle innumerevoli peculiarità della lingua araba e della cultura arabo-islamica, che risultano significativamente legate all’astronomia, cercando dei parallelismi anche in altre lingue e tradizioni culturali. Va ricordato che i beduini, particolarmente favoriti dall’ambiente naturale in cui vivevano (e continuano a vivere), hanno sperimentato un legame viscerale con l’astronomia. Basti pensare al loro rapporto quotidiano con il sole cocente di giorno e alla maestosità dello sconfinato e luminosissimo manto stellare di notte. Con l’avvento dell’Islam e la successiva compilazione delle grammatiche di lingua araba non sorprende che siano state registrate numerosissime espressioni coraniche e poetiche fortemente intrise di immagini astronomiche. Può meravigliare invece il fatto che la lingua araba riporti delle strutture grammaticali di stampo “astronomico”.
Procedendo per ordine, le si possono suddividere in questo modo:
Grammatica e lingua araba
L’alfabeto arabo, oggi particolarmente aggraziato (e dotato di segni diacritici), potrebbe avere modificato delle forme, originariamente identificate nelle costellazioni, come è successo anche per altre lingue semitiche. Tanto è vero che riguardo all’alfabeto ebraico:
«Il Sefer Yetzirah o Libro della Formazione, attribuito dalla tradizione ad Abramo e poi ad Abulafia (in realtà redatto tra il II e il VI secolo), proclama che Dio ha creato l’universo attraverso le trentadue vie di saggezza, cioè le dieci Sefirot e le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, nella duplice modalità della loro pronuncia ed incisione nell’aria. Le lettere si dividono in tre madri, sette doppie e dodici semplici, e queste ultime corrispondono ai segni zodiacali. È da tale tradizione cabalistica che prende vita uno dei dogmi della cultura esoterica europea secondo la quale sarebbe esistita una scrittura originaria leggibile nel firmamento e detta “celeste” o “di Dio” o “degli dèi”, di cui tracce si rinverrebbero appunto nell’alfabeto ebraico. Cornelio Agrippa spiega a proposito di tale scrittura: “nel vasto spazio celeste (…) si trovano figure e segni (…). Tali figure splendenti sono le lettere dell’alfabeto, con le quali il Dio benedetto ha creato Cielo e Terra. (…) le lettere del loro alfabeto, secondo quanto affermano i rabbini ebrei, sono costituite sulla base delle figure delle stelle e perciò sono piene di celesti misteri, sia per quanto concerne la forma, la figura e il significato, sia per quel che riguarda i numeri in esse contenuti”. Coerentemente ai testi cabbalistici, accolgono come Agrippa tale tradizione Paracelso, Fludd, Postel» (Serafini, 2004: 98).
Successivamente,
«l’insuperabile artista Abu Bakr Muhammad, chiamato Ravandi dal nome dell’omonima cittadina presso Kashan che nel XII secolo era un famoso centro calligrafico, […] si dice che fosse in grado di usare ben 70 diversi stili, e che avesse elaborato una teoria secondo la quale le lettere arabe fossero evoluzioni del cerchio e della linea retta, identificati con il mondo e l’equatore» (Croce, 2006: 136).
Non bisogna dimenticare che per gli antichi la percezione del mondo era fortemente intrisa di connotazioni simboliche, allegoriche e celestiali.
L’arabo suddivide le 28 lettere di cui si compone l’alfabeto in 14 lettere “lunari” e 14 lettere “solari”, rispettivamente dalle parole qamar (luna) e šams (sole). La distinzione deriva dalla semplice assimilazione dell’articolo (al-) alla prima lettera solare della parola, che raddoppia. “Il sole” si scriverà al-šams ma si pronuncerà *aš-šams. La regola non vale per le lettere “lunari”, le quali, invece, unite all’articolo mantengono la pronuncia distinta sia dell’articolo che della lettera lunare, come nel caso di “la luna”, che viene resa come al-qamar. La cosa che risulta interessante è l’identificazione dei due gruppi di lettere con i due oggetti celesti più evidenti nel firmamento. Certo è che tra tutto il ventaglio di possibilità di scelta semantica, i beduini hanno prediletto giusto due termini astronomici… L’affascinante ipotesi richiede comunque conferme.
Alcuni verbi possono esprimere anche una «nuova condizione spazio-temporale» (Benazzo, 2008: 38), ovvero «l’essere o il divenire in un preciso momento»(Manca, 1995: 185). Tali verbi assumono significati come p. es. “trovarsi la sera”, “trovarsi la mattina”, “passare la notte”, i quali inglobano pure l’accezione di “divenire/diventare” (Manca, ibidem). Tra questi verbi, che servono specificatamente a determinare il tempo, si riscontrano quelli di IV forma: aṣbaḥa (trovarsi al mattino/farsi mattino); aḍḥà (essere/trovarsi prima di mezzogiorno) e altri verbi come amsa (essere/divenire sera – il giorno precedente); ġadā (venire di mattina/essere di mattina presto) e bāta (passare la notte). A proposito dei verbi di IV forma e di bāta vale la pena segnalare un interessante parallelismo con il siciliano, che ha mantenuto alcuni verbi di “entrata in uno stato temporale”, come p. es. i verbi scurari (diventare sera) e agghiurnari (farsi giorno), nonché la resa di bāta (la cui radice indica anche la ’dimora’) con addimurari (passare la notte/restare/tardare), il cui participio presente, bāˀit significa “stantio, non fresco, vecchio,” (Traini, 1966: 106), proprio come il participio passato addimuratu, riferito p. es. al pane secco.
Molto particolare risultano anche i nomi al duale di natura “astronomica”, i quali indicano con un nome soltanto due oggetti cosmici diametralmente opposti, come p. es.: al-zaharāni, al-nayyirāni e al-qamarāni (tutti e tre indicanti contemporaneamente il sole e la luna). Inoltre esistono significativamente tali duali anche per alcuni indicatori spazio-temporali, come al-malawāni (il giorno e la notte) e al-mašriqāni (levante e ponente).
Molto numerosi risultano anche i verbi che indicano fra i propri significati anche “lo spuntare, il sorgere” di un astro (parimenti si riscontrano altrettanti verbi che indicano “lo scintillare, il brillare”. Meno frequenti sono quelli che indicano il tramonto).
In arabo esistono due termini specifici, che indicano rispettivamente l’eclissi di sole (kusūf) e l’eclissi di luna (husūf).
Cultura materiale
Alcuni nomi di oggetti comuni nascondono un’insospettabile connessione “astronomica”, a cominciare dalla semplice “fototessera” chiamata ṣūra šamsiyya (immagine solare) nonché un modo per indicare l’“ombrello” (parasole) è anch’esso šamsiyya; una variante per indicare la persiana si riscontra come šamsiyya al-šubbāk (’parasole’ della finestra), mentre il paracadute suona qualcosa come “ombrello ’svolazzante’”, ovvero šamsiyya al-ṭiyyār. Il cavallo imbizzarrito viene identificato come šamūs (ma anche ’recalcitrante’ šāmis/šamis), così come con questi ultimi termini si identifica la persona ostinatamente cocciuta, perché evidentemente “il sole le ha dato alla testa”. In architettura, gli splendidi motivi geometrico-stellari a 8 o 12 punte, caratterizzanti l’arte islamica, si chiamano šamsa (šamsī in persiano/fārsī).
Riguardo alla sfera semantica delle stelle, per gli arabi quelle più belle in assoluto sono le Pleiadi, chiamate semplicemente “le stelle/l’asterismo” (al-Naǧm, che è anche un nome proprio). Interessante però risulta che da questa radice si ricava anche una generica malattia dei cavalli (maraḍ al-naǧma), oltre alla cava mineraria, manǧam. Nell’ultimo caso, la connessione tra cielo e terra deriva da ciò che gli antichi percepivano come “stelle fisse” e “stelle mobili”, pertanto si capisce come i ritrovamenti ferrosi dei meteoriti, una volta che questi se estrellaban (da estrella > stella in castigliano, ’si schiantavano’), costituivano la prima fonte di metallo, anche precedentemente all’Età del Ferro, in quanto in natura tale elemento si trova in composti di ossidi, carbonati e solfati.
Ancora oggi viene ampiamente e impropriamente utilizzata la locuzione romantica “stelle cadenti”, quando, nel periodo di picco delle famose Perseidi [1] (intorno al 10 agosto, notte di S. Lorenzo), più di cento meteore all’ora si incendiano nell’atmosfera, creando la suggestiva illusione di astri che effettivamente “precipitano” dalla volta celeste. Ecco perché i francesi chiamano le meteore étoiles filantes (stelle filanti). C’è da ricordare che nell’immaginario dei loro antenati, i Galli, la preoccupazione più angosciosa era proprio quella che il Cielo potesse crollare da un momento all’altro sulla loro testa. In italiano è ben nota l’espressione “essere una meteora” quando “un astro nascente” del mondo dello spettacolo o dello sport raggiunge rapidamente la notorietà ma si “eclissa” con altrettanta celerità.
Nonostante il divieto coranico della rappresentazioni degli esseri viventi, molto interessante risulta la raffigurazione artistica delle costellazioni, dipinte all’interno di figure umane e di animali, abbellenti il Kitāb ṣuwar al-kawākib al-ṯābita (il Libro delle Costellazioni delle Stelle Fisse) dell’eminente astronomo persiano del X secolo cAbd al-Raḥmān al-Ṣūfī (conosciuto in Occidente anche come Azophi).
Cultura spirituale
Il Corano da solo si riferisce costantemente all’astronomia esplicitamente (citando numerose volte il sole, i pianeti, le stelle, Sirio e la luna), inoltre ammonisce duramente sul divieto di imitare gli astrolatri e indica precisamente come computare il tempo:
«Presso Allah il computo dei mesi è di dodici mesi [lunari] nel Suo Libro, sin dal giorno in cui creò i cieli e la terra. Quattro di loro sono sacri. […]. In verità il mese intercalare non è altro che un sovrappiù di miscredenza, a causa del quale si traviano i miscredenti: un anno lo dichiarano profano e un altro lo sacralizzano per alterare il numero dei mesi resi sacri da Allah. Così facendo profanano quello che Allah ha reso sacro. Le peggiori azioni sono state rese belle ai loro occhi, ma Allah non guida il popolo dei miscredenti» (Corano, 9:36-37).
Inoltre molte sūre, già nei loro titoli, si riferiscono ad oggetti astronomici e parti del giorno (come p. es. la Stella, la Luna, le Costellazioni, il Sole, l’Aurora, la Notte, la Luce del Mattino, l’Alba nascente).
Il calendario delle festività islamiche è scandito dall’osservazione lunare (Corano, 10: 5, 36: 39), mentre le cinque preghiere giornaliere seguono il sorgere e il tramontare del sole, variando quindi ogni giorno dell’anno. Nel XIII secolo è stata istituita la figura dell’astronomo muwaqqit per l’esatto computo temporale e la cilm al-miqat (scienza del computo temporale) è diventata un’area di ricerca molto sofisticata anche in tempi moderni, che interseca religione e scienza, come testimonia per esempio l’Islamic Crescent Observatory Project in Giordania, il quale è affiancato da altri centri nel mondo per i calcoli sulle osservazioni lunari.
Prima dell’avvento dell’Islam gli arabi suddividevano l’anno in base al sorgere e tramontare di determinati astri. Tali conoscenze astronomiche prendono il nome di anwaʾ : «pronostico del carattere delle stagioni o dei giorni dell’anno, previsione degli accidenti atmosferici» (Traini, 1966: 1578). Il Corano condanna duramente questo sistema di computo temporale, in quanto assimilato alle forti residue credenze pagane coeve all’Islam.
Tutti sanno che nella struttura cuboidale della Kacaba, che rappresenta il luogo più sacro per l’Islam, è conservata una misteriosa Pietra Nera caduta dal cielo. Che sia o meno un meteorite, la si trova incastonata in una massiccia cornice d’argento proprio nell’edificio e ricorda la forma di un occhio. In una leggenda tale occhio “angelico” osserva e registra ciò che compie ciascun pellegrino.
Molto interessante risulta l’appellativo šammās, derivante dalla radice di sole, che indica il diacono/sagrestano, ovvero «chi serve messa e canta la liturgia nei riti delle chiese orientali, sia chierico o laico. (sir[iaco])» (Traini, 1966: 698), parallelismo immediato con l’ebraico, quando nel 2011 in una sinagoga non più in uso di Kutaisi (nella Georgia caucasica), il custode riferì che il rabbino di quel tempio aveva un nome praticamente identico. Viene dunque da pensare che nelle lingue semitiche il religioso risulta necessariamente una figura “illuminante” in senso lato, proprio come il sole. Invece in contesto politico si ricorda che la Francia ha conosciuto il famoso Luigi XIV, noto come “Re Sole” (Le Roi Soleil), il quale «scelse come proprio emblema personale il sole in quanto esso è la stella che da vita a tutto, ma anche perché esso rappresentava il simbolo dell’ordine e della regolarità. Egli si può dire che regnò a tutti gli effetti all’insegna del sole, perché anche la sua giornata era scandita come il percorso giornaliero del sole, dall’alba al tramonto, e coinvolgeva in questo anche tutti i cortigiani che come immaginari pianeti dovevano gravitare attorno alla figura centrale del monarca» [2]. I dervisci danzanti riproducono simbolicamente nelle loro danze i movimenti dei pianeti.
In ambito culturale
Le Pleiadi, in arabo anche Terza Mansione Lunare, si chiamano al-Turayyā (più famose sotto forma di ’Soraya’, come il diffuso nome femminile) e recano con loro una “pleiadi” di significati molto positivi. La radice vuol dire ammasso di luci [3] e soprattutto ricchezza/opulenza (da cui il nome Tarwa/Saroua), terra (bagnata) e piantagioni. La metafora dei denti in poesia è stereotipata in quindici modi diversi, tra cui anche le Pleiadi (Chebel, 1997: 113). Secondo la maggior parte delle tradizioni planetarie, fra cui quella araba, le Pleiadi, visibili in inverno e in primavera, sono “portatrici” della preziosissima pioggia. Inoltre indicano anche il tempo migliore per intraprendere la navigazione (Esiodo, Le Opere e i Giorni). Curiosamente conosciamo indirettamente il nome di tale ammasso aperto, in giapponese, dal momento che la casa automobilistica nipponica Subaru ha scelto proprio queste stelle nel nome e nello stemma stilizzato. In basco invece izar denomina qualsiasi stella, dal nome dell’eletta Epsilon Bootis, Izar, la quale viene attestata storicamente anche come Mirak, Mizar e Pulcherrima.
Dal momento che la stella visibile più brillante dell’emisfero boreale è la scintillante Sirio, nella costellazione del Cane Maggiore, questa viene chiamata praticamente nello stesso modo in alcune lingue: in greco (Seirios: ardente), in India la divinità solare è identificata con Surya, in giapponese (Aoboshi: stella blu. Shirō [4] indica invece “le sette stelle del nord”, quindi il Grande Carro), e in latino (Sīrĭus: canicolare, estivo). Nell’immaginario degli antichi egizi e dei latini il vistoso tremolio rifulgente dei raggi di Sirio portava degli influssi, generalmente nefasti, sulla Terra e sugli esseri viventi. Infatti per gli egizi l’apparizione della stella, coincidente con il sorgere del sole, preannunciava, in estate, la distruttiva e contemporaneamente benefica piena del Nilo (da cui comincia ancora oggi il calendario copto), mentre per i latini la levata eliaca della stella indicava i giorni più torridi dell’anno, da cui canicola (Allen, 1963: 118). Egli riporta anche che, dal nome Canis (Majoris), derivi il diminutivo canicula, nonchè candens: “lucente, splendente”, sebbene le due radici non dovrebbero essere confluenti. In questi giorni era più facile contrarre le siriasis o “morbo di Sirio” (Veneziano, 1999: 15) e i cani diventavano idrofobi, inoltre aumentavano gli insetti, le febbri e i terreni si inaridivano. Per gli arabi, invece, vi erano ben due Šicrà (l’altra a nord, nel Cane Minore). Poiché nel mito arabo Sirio “attraversa” [5] la Via Lattea, prende l’appellativo di al-cAbūr (del passaggio, del transito), che in arabo possiede la sfumatura semantica di “guadare/attraversare uno specchio d’acqua/nuotare”, facendoci capire che per i beduini del deserto la Via Lattea non poteva che essere un paradisiaco fiume di grande portata.
Per gli antichi (fra i quali egizi e arabi) il cielo notturno era interpretabile come una vasta distesa d’acqua. Il famoso dio Ra traghettava ritualmente sulla sua barca solare (o celeste) durante l’arco della giornata per poi risorgere il giorno dopo. Inoltre in arabo appare significativa la confluenza della radice della parola falak (volta celeste, firmamento, astro, corpo celeste, stella, orbita), con fulk (navi, arca di Noé) e faluka (feluca, barca, scialuppa) (Traini, 1966:1110). Non stupisce come l’idea del “navigare” nello spazio (evidentemente a livello archetipico mai sopita) ha creato moderni neologismi, con l’esplorazione umana dell’Universo, come quelli presi a campione: navicella/navetta spaziale, astronave, astroporto/cosmodromo, allunaggio, ammartaggio, accometaggio, cosmopatologia e molti altri. Sicuramente però i più noti sono astronauta e cosmonauta (riferiti convenzionalmente rispettivamente agli americani e ai russi). I cinesi, secondo i malesi, dal 1998 vengono chiamati in Occidente taikonauti [6], da tàikōng (spazio). In Cina però il termine utilizzato risulta yuhangyuan (navigatore dello spazio) ovvero “spazionauta”.
Nomi propri
L’arabo, che condivide con l’ebraico la credenza del potere forgiante [7] del nome, come anche altre lingue identifica negli oggetti celesti i nomi propri più belli per distinguere gli umani. Così si ritrovano per esempio la già citata Soraya ma anche Leyla, la cui radice rimanda alla notte, perché nella frescura notturna del deserto doveva apparire grandiosa la sconfinatezza e la brillantezza del cielo trapuntato di stelle. In un’atmosfera tanto piacevole doveva essere anche gradevole avere degli interlocutori con cui trascorrere le ore migliori della giornata nel deserto. Ecco quindi che i nomi Samīr e Samīra identificano i “conversatori notturni” ma anche chi (di sera) «intratteneva con racconti, canti e balli» (Traini, 1966: 607). Saḥar indica l’alba o l’aurora ed è un nome proprio. Inoltre porta con sé la radice della magia e del fascino, forse perché la luce che sconfigge le tenebre ha lungamente assunto un significato sacrale in tante culture, oltre al fatto che gli spettacoli astronomici nel deserto risultano sicuramente ancora più vibranti che altrove. Non a caso dalla stessa radice si ricava masḥūr, ovvero “stregato, ammaliato, affascinato, incantato, rapito (dalla meraviglia, ecc…)” (Traini, 1966: 557).
La luna piena, a differenza dell’esclusivo nome italiano femminile, risulta essere il popolare nome maschile Badr/Bādir (Bader in Kuwait e altrove), Badrī, Badrān. Sebbene venga utilizzato anche come nome femminile nelle versioni Badra/Bādira, Badriyya (simile alla luna piena). Usualmente buona parte di ciò che viene connotato come positivo è di genere maschile in arabo, mentre ciò che indica caos o qualcosa di negativo, p. es. il sole ardente, è di genere femminile, come anche i nomi dei fuochi dell’Inferno. In Afghanistan, tristemente noto per la condizione della donna, si riscontra il nome Shamsiyya (dal già noto šams, ’sole’), come quello che porta la prima “graffiti artist”, Shamsiyya Hassani. Diffuso perché citato nel Corano è Ṭāriq, nome della sūra 86, definito come un generico “astro notturno”, che alcuni identificano con Venere.
Interessanti appaiono in contesto desertico i nomi di natura “rinfrescante”, di matrice meteorologica come: Ṭalāl (pioggerellina); Ẓalāl (ombra, protezione); Nasīm (brezza leggera); Ġayt (pioggia battente); Rihām (pioggia fine), Rawḍa (bacino d’acqua, giardino lussureggiante), Nadà (rugiada del mattino), Zulāl (acqua dolce e limpida), Zahiyya (vegetazione lussureggiante). Altri nomi maschili e femminili che indicano il firmamento e la luce sono Azhar/Zuhair (brillante); Aqmar/Qamrāʾ (più brillante della luna– Qamar, a sua volta nome proprio); Anwar (luminosissimo, abbagliante); Bāhir(a) (brillante, splendente); Ḍiyāʾ (luce, chiarezza) Ḍuḥà (tarda mattinata); Falak (firmamento); Ǧalāʾ/ Ǧalwāʾ (luce splendente del giorno); Hūršīd (di origine persiana: sole); Hāla (alone di luce, aureola), cAbd al-Nūr (servo della luce); Nūr(a) (luce); Nūr al-dīn (luce della religione) Munīr(a) (brillante, illuminante); Naǧm(a) (stella); Naǧm al-dīn (stella della religione); Naǧmī (stellato); Nayyir(a) (brillantissimo/a); Kawkab (astro); Lāmica (luccicante); Maysan (stella scintillante, notte di luna piena, donna dall’andatura fiera); Sāgī (tranquillo come la notte); Suhā/Suhà (stella dell’Orsa Minore); Suhayl (stella Canopo, la più brillante del cielo); Šams al-dīn (sole della religione); Šihāb al-dīn (astro della religione); Ṣubḥī/Ṣabīḥ(a) (che ha la bellezza del mattino/dal viso radioso come la luce mattutina, bello/a come il giorno), Hilāl (falce di luna); Samāʾ (cielo); Ṣabaḥ (mattino); Ṣubḥiyya (bellezza del mattino); Zahra (bellezza, candore, fiore, fulgore della luce/delle stelle), Zuhra (bellezza, di un bianco luminoso, Venere), Zahr/Zuhayra (brillante). In Italia invece, oltre ai noti Luna, Stella, Alba e Aurora, potrebbero sorprendere che anche Arturo e Mimosa, i quali sono nomi di stelle. L’intrigante ma fuorviante nome di Santa Venera(nda), risulta dalla latinizzazione del nome in greco, Parasceve, dell’originario nome ebraico della santa.
Modi di dire e proverbi
- “Le Pleiadi sono inattingibili!” (Detto di cosa o persona inattaccabile) (Traini, 1966: 129).
- “Che cos’ha la terra di comune con le Pleiadi?” (Si dice di cose di diseguale valore) (Traini, 1966: 130).
- “Al di sopra di Suhā e delle Pleiadi” (Riferito a qualcuno o qualcosa di inaccessibile altezza) (Traini, 1966: 623).
- Chi ha la luna non può preoccuparsi delle stelle. (Chi sta con il potente non dovrebbe temere il debole. La morale sta nello scegliere in maniera assennata i propri compagni). (Ashiurakis, 1975: 148).
- Chi sta con la luna. (Colui che ha la luna. Significa che i potenti non si preoccupano dei subalterni). (Le Quellec, 2003: 58).
- In italiano abbiamo diverse locuzioni, fra le quali si ricordano in maniera non esaustiva: “essere bello come il sole”; “alla luce del sole”; “un posto al sole”; “niente di nuovo alla luce del sole”; “sole che spacca le pietre”; “vedere il sole a scacchi” (trovarsi in galera); “essere un marziano” (quando qualcuno agisce in maniera diversa dagli altri); “vivere su un altro pianeta” (quando una persona si comporta in maniera svampita); “essere diversi come il giorno e la notte”; “dalle stelle alle stalle”; “vedere le stelle” (usato per indicare un dolore, in particolare a seguito di un colpo in testa, con conseguente visione di piccoli lampi di luce); “scritto nelle stelle” (destinato); “nascere sotto una cattiva/buona stella” (essere (s)fortunato); “essere lunatico”; “sbarcare il lunario > mese”; “volere la luna” (volere cose difficili da ottenere o impossibili); “promettere la luna”; “dormire all’albergo della luna” (senza un tetto sulla testa); “avere la luna fra le gambe” (avere le gambe molto arcuate, a forma di “o”); “la luna non si cura dell’abbaiar dei cani (non si dovrebbe prestare attenzione alle lamentele inutili). Inoltre significative risultano le esclamazioni “spaziale!” e “megagalattico!”. I latini usavano dire “per aspera ad astra” quando intendevano dire che dopo le avversità si raggiungono i propri obiettivi. In inglese “to be over the moon” vuol dire essere immensamente felice; “once in blue moon” significa molto raramente.
Curiosità
In inglese esiste l’esatto opposto di “sposa bagnata, sposa fortunata” che recita “happy is the bride that the sun shines on” (felice è la sposa sulla quale splende il sole).
Se nel mondo le comete rappresentavano lo stravolgimento della perfezione celeste e dunque erano considerate foriere di calamità, in Cina “gli astri caudati” (in arabo mudannab, kawkab al-danab, naǧm al-danab) erano divisi in due categorie: le “stelle cespuglio”, senza coda (visibile a occhio nudo), considerate di buon auspicio e le “stelle scopa”, caudate, “portatrici” di sventure. Ancora oggi in cinese la nuora viene chiamata “cometa”, specie se questa non va d’accordo con la suocera e viene ritenuta responsabile delle sventure del marito e dell’intera famiglia di questo. Tale appellativo viene esteso anche a cameriere, impiegati e altre figure “esterne”.
Conclusioni
In questo breve e parziale contributo si è voluta porre attenzione su quanto la cultura astronomica, primariamente arabo-islamica – ma anche di altre tradizioni –, risulti fortemente permeata di esperienze astronomiche. Queste sono riflesse significativamente nella cultura materiale, in quella spirituale, nella lingua, nelle credenze popolari e in altri ambiti. La cultura “astronomica” dei vari popoli, infatti, viene tramandata più o meno consapevolmente da tempi immemori e per colpa di un inquinamento luminoso sempre più invasivo, quest’ultimo continua ad allontanare gli uomini moderni dall’intimo rapporto con il Cielo, di cui i nostri antenati godevano. Per fortuna, con le scoperte strabilianti che si moltiplicano sulla conoscenza dell’Universo, l’Astronomia rivela conoscenze tali che in certi casi sfidano le leggi stesse della fisica, attraendo così nella sua comprensione profonda scienziati e curiosi, che si rivolgono al Firmamento non più con la stessa contemplazione allegorica dei nostri avi ma si accostano a essa con il raziocinio della Scienza.