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Lavoro migrante e mediazione antropologica nei contesti dell’accoglienza

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Attività ricreative e laboratori artistici per richiedenti asilo

di Giovanni Cordova e Mariangela Zema [*]

Indagare il nesso intercorrente tra migrazioni e lavoro si pone come un compito certamente gravoso per l’osservatore. Anzitutto per la ricchezza del ventaglio semantico e concettuale che queste due categorie aprono; ricchezza che, se non opportunamente accompagnata da un adeguato rigore analitico ed epistemologico, può tramutarsi in porosità (se non addirittura inconsistenza) ontologica, come spesso avviene quando si discetta di elementi ampiamente dibattuti e sovraesposti tanto nel discorso pubblico corrente quanto in quello scientifico. Secondariamente, l’interrelazione tra mobilità umana e lavoro appare quantomeno dirimente rispetto alle chiavi di lettura con cui tentare di carpire la liquidità della modernità.

Che si presti attenzione alla dimensione delle rappresentazioni o a quella delle pratiche, scelta metodologica rilevante, tale correlazione assume rilevanza cruciale nella determinazione delle configurazioni politiche e culturali della contemporaneità. Apre, inoltre, tutta una griglia di interrogativi e ulteriori piste analitiche, spesso coincidenti con i temi più appassionatamente (ma non sempre lucidamente) presenti nell’agenda politica, specie in tempi di campagna elettorale. L’assuefazione al cronico disequilibrio tra domanda e offerta di lavoro, specie nel Mezzogiorno d’Italia, non ha per questo determinato un allentamento delle inquietudini con cui soprattutto le giovani generazioni devono affrontare la riarticolazione del capitale su scala globale e la precarizzazione e l’incongruità delle retribuzioni che l’accompagnano. Che dire poi della migrazione, quasi sempre trattata come questione emergenziale se non con fini puramente strumentali all’edificazione di un immaginario xenofobo cui attingere in campagna elettorale? [1].

Spostando poi il baricentro dell’analisi dalla ricerca delle correlazioni a quella delle (con)causalità, le migrazioni contemporanee sono indissociabili dai più generali processi di ristrutturazione del capitale globale, al punto che il lavoro può essere pertanto rappresentato come «causa e promessa (della emigrazione) e aspettativa e risultato (dell’immigrazione)» e dunque «risorsa relazionale, condizione materiale e simbolica per il restare e prospettiva per il ripartire» (Ceschi 2014: 105).

Tuttavia, tali considerazioni devono guardarsi dal riprodurre quadri esplicativi riconducibili a modelli teorici d’impianto fordista, in cui la relazione tra mobilità e lavoro è espressa da una lineare e univoca concatenazione causale, ravvisabile, ad esempio, nel cosiddetto modello di attrazione ed espulsione (push and pull) (Riccio, 2014; Mabrouk, 2012), secondo il quale i migranti attivano percorsi di mobilità esclusivamente entro una ricerca razionalmente e strumentalmente orientata alla disponibilità di lavoro.

Appare dunque più promettente volgere lo sguardo alla riarticolazione globale del capitale a partire dalla proliferazione dei confini ben oltre il mantenimento delle entità politiche statuali nazionali. L’istituzione del confine assurge dunque a ‘metodo’ del capitale funzionale all’inclusione differenziale della forza-lavoro secondo categorie giuridiche e politiche di volta in volta rimodulate (è il caso, ad esempio, degli status giuridici di migrante economico, rifugiato, clandestino, ecc.) ma anche come metodo epistemologico per una riflessione critica sul rapporto tra capitalismo e territorialità (Mezzadra, Neilson, 2014; Brambilla, 2015). Le configurazioni politiche e culturali della cittadinanza appaiono allora indissolubilmente legate al lavoro e alle sempre crescente misurazione-valutazione di un’umanità perennemente in movimento in rapporto a competenze, disponibilità al sacrificio e saperi distribuiti su scala transnazionale (Ong 2005; 1999). Il nesso tra richiedenti asilo e lavoro non risulta dirimente solo perché quest’ultimo costituisce un’esigenza determinante per i migranti che devono vivere (temporaneamente o meno) altrove. Esso risulta fondamentale anche per coloro che operano nel settore dell’accoglienza e che tentano di spianare la strada alla vita del richiedente ‘oltre’ il transito in un progetto o in una struttura istituzionale.

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Richiedenti asilo impegnati nelle attività formative di un laboratorio di falegnameria

Considerare la dimensione del lavoro è tuttavia questione cruciale anche perché offre una chiave di lettura atta a comprendere se i richiedenti asilo (e i migranti in generale) vengano effet- tivamente inclusi entro la comunità di accoglienza. Un rapido esame della correlazione tra condizione giuridica del migrante e collocazione nel mercato del lavoro mostra come il sistema economico neoliberista nel quale siamo immersi non sia affatto incompatibile con nuove forme di schiavitù (Solinas, 2005), relegate in zone marginali, abitate da non-persone (Dal Lago, 1999) e uomini ‘usa e getta’ (Ogilvie, 2012).

Nel prosieguo del contributo proveremo ad analizzare la diade ‘migranti’-‘lavoro’ da una prospettiva ben definita e apparentemente marginale rispetto alla complessità del quadro definito finora. Ragioneremo infatti sull’attivazione dei tirocini formativi per richiedenti asilo ospiti in progetti di seconda accoglienza (in particolar modo, progetti SPRAR) [2] da un’angolazione prettamente antropologica. Individueremo quindi criticità e potenzialità relative all’impiego professionale dell’antropologo nei contesti istituzionali dell’accoglienza. Gli esempi e gli spunti affrontati – riconducibili a esperienze etnografiche e professionali nella provincia di Reggio Calabria – non si esauriscono nella delimitata contingenza locale di un progetto di accoglienza ma rinviano a tematiche e problematiche ben più ampie connesse alle politiche migratorie e al trattamento simbolico e materiale cui l’‘altro’ viene sottoposto.

La strutturazione del ragionamento si dipanerà seguendo tre assi tematici, intimamente legati tra loro: il lavoro di mediazione – squisitamente culturale – dell’antropologo alle prese con il tirocinio formativo dei richiedenti asilo; l’esigenza di declinare concettualmente il lavoro e la formazione dei richiedenti a partire dalle categorie – variamente declinate nella storia dell’antropologia economica – di dono, scambio, restituzione; la valutazione dell’effettiva creazione di scenari di mutualismo, reciprocità e (con)cittadinanza a partire dall’attivazione dei tirocini formativi nei contesti locali dell’accoglienza. 

Beneficiari-di-un-progetto-SPRAR-impegnati-nella-manutenzione-di-un-campo-di-calcio-comunale

Richiedenti asilo impegnati nelle attività formative di un laboratorio di falegnameria

Mediazione, traduzione 

Trattando la migrazione maghrebina – algerina in particolare – in Francia nel secondo dopoguerra, Abdelmalek Sayad (2002) ha distinto tre diverse età della migrazione, corrispondenti a tre differenti fasi storiche del progetto sociale migratorio. La terza e ultima corrisponde alla formazione di una colonia algerina in Francia, attraversata da un senso di permanente provvisorietà tra i suoi membri, riflessa anche sul lavoro. Quella tipologia assurge senz’altro ad archetipo del migrante economico travolto dai processi di sviluppo ineguale del mondo post-coloniale. Ma alcune considerazioni di Sayad conservano un’attualità stringente.

Data la centralità che il lavoro e, di conseguenza, il tirocinio formativo assumono nella ‘carriera’ di un richiedente asilo all’interno di un progetto di seconda accoglienza, molti operatori sociali si preoccupano di individuare un percorso adatto alle loro abilità e inclinazioni. [3]. Eppure capita di confrontarsi con comportamenti apparentemente poco razionali (ad esempio, ricerca affannosa di secondi lavoro che comportano paghe basse e situazioni di oggettivo sfruttamento; abbandono immotivato del tirocinio regolarmente stipulato con aziende in regola; apparente mancanza di attaccamento al lavoro; ecc.). Il percepirsi in una condizione di estrema precarietà temporale e spaziale comporta un continuo sforzo nel reperimento di risorse per ‘immaginare’ un ipotetico ritorno a casa, porta aperta per compensare tumulti interiori, precarietà ineliminabili.

Sayad ha scritto a proposito delle pagine memorabili sul lavoro per l’immigrato, che non può avere il significato condiviso dalla società d’immigrazione. Esso non ha la funzione sociale totale o morale attribuitagli dalla tradizione pre-capitalista. In un’economia non votata all’accumulazione come quella capitalistica il lavoro serve a rimarcare le differenze di genere (la divisione sessuata del lavoro è la prima organizzazione sociale della differenza percepita), le gerarchie e i rapporti sociali in un’accezione ampia. Spesso non ha nemmeno il senso dell’etica del guadagno così come è presente nella società capitalista. Ecco che allora il lavoro acquisisce significato di guadagno immediato. Rappresenta un’occasione necessaria e inevitabile (un’occasione ricercata ma allo stesso tempo detestata) per vendere la propria forza lavoro senza compensazioni al di fuori del salario ricavato. In questo senso, questo o quel lavoro, non ha grande importanza.

Similmente, alcuni beneficiari rifiutano le proposte post-tirocinio che vengono suggerite loro dagli operatori sociali da cui sono seguiti. Preferiscono avere le mani libere, benché un contratto regolare garantirebbe loro indubbiamente più diritti e maggiori tutele. Talvolta si preferiscono soluzioni senza contratto che però possono gestire con maggiore libertà la scelta di lavoretti votati unicamente al guadagno immediato, all’invio di rimesse e quindi alla possibilità di aiutare famiglie rimaste sole.

Non a caso Karl Polanyi (1987) soleva distinguere tra denaro come ‘segno’ – simbolo virtuale del potere d’acquisto, generatore di valore per fini speciali – e denaro come ‘merce’ – denaro per scopi generali, come impiegato correntemente nella nostra società. Sulla base di queste differenziazioni vari studi etnografici, vicini alla scuola sostantivista, sono stati condotti tra le società di tradizionale interesse etnologico, al fine di individuare delle sfere di scambio separate, secondo la natura e il valore dei beni. Tale tradizione di studio incentrata sulla razionalità dell’attore economico e gli usi del denaro vanta un’applicabilità non trascurabile nei contesti dell’accoglienza. Non certo perché i richiedenti ignorino l’uso corretto del denaro, ma perché il comportamento economico è sempre orientato in base a una griglia di valori culturali (Hann, Hart, 2011). La versatilità del denaro moderno, riscontrabile nelle scelte economiche compiute dai richiedenti, deriva dagli usi differenziati che se ne fanno.

Da questo punto di vista, il ruolo di chi lavora all’interno del campo dell’accoglienza tende a coincidere con quello dell’antropologo. Tale convergenza si realizza in un’attività di traduzione culturale tra mondi non chiusi in se stessi e caratterizzati da incomunicabilità ma tra i quali la figura dell’antropologo può svolgere la funzione di cerniera, facilitando la traduzione tra concetti vicini all’esperienza dei richiedenti e concetti vicini all’esperienza del contesto di accoglienza, per dirla con Geertz (1998). 

Beneficiari-di-un-progetto-SPRAR-impegnati-nella-manutenzione-di-un-campo-di-calcio-comunale.

Beneficiari di un progetto SPRAR impegnati nella manutenzione di un campo di calcio comunale

Formazione e lavoro

«Il tirocinio formativo e di orientamento è finalizzato ad agevolare le scelte professionali attraverso la conoscenza diretta del mondo del lavoro. [...] è un’esperienza formativa, sebbene realizzata in azienda» (Rapporto Annuale SPRAR, 2015: 93).

L’istituto del tirocinio formativo presenta uno statuto doppiamente ambivalente, oscillante tra il registro della formazione e dell’impegno lavorativo vero e proprio; tra il carattere di libero scambio tra due soggetti (con la mediazione dello SPRAR) e di dono. Dovrebbe costituire un’occasione di formazione eppure è innegabile (e, in alcuni casi, esplicito) l’interesse delle aziende a poter acquisire forza lavoro gratuitamente. In tanti casi il datore di lavoro richiede una formazione pregressa da parte del richiedente, nonostante sia proprio il tirocinio formativo a dover fornire quelle competenze.

A complicare il quadro, spesso interviene il mancato riconoscimento dei titoli che i richiedenti asilo hanno acquisito nei propri Paesi. Così, non solo viene ristretta la possibilità di una continuità formativa e occupazionale ma i richiedenti asilo vengono di fatto ancorati a mansioni ben precise e di norma poco retribuite. Da questo punto di vista, è il tirocinio formativo a riprodurre pertanto quella integrazione subalterna per cui l’incorporazione dei richiedenti asilo e dei migranti nello Stato avviene attraverso la loro occupazione funzionale alle relazioni produttive e alle esigenze dell’economia neoliberista (mansioni dure del settore produttivo; lavoro domestico, specie nei giardini; basso terziario).

Una questione centrale consiste nel capire entro quale specifica tipologia economica debba essere inquadrato l’impegno lavorativo-formativo del richiedente. Lo scambio è un principio universale della vita economica, ma può essere improntato alla reciprocità tra gli attori che vi si impegnano così come al loro mancato reciproco riconoscimento se non addirittura alla mercificazione. Le letture più prudenti del Saggio sul dono di Marcel Mauss (2002) invitano alla cautela nell’opporre strenuamente doni e merci. L’oblatività del dono non è mai disinteressata se genera vincoli e obbligazioni, per quanto reciproche queste possano essere. Il grande autore francese designava col termine prestation un servizio, l’erogazione di energia psico-fisica in adempimento a un obbligo comunitario. Gli scambi che coinvolgono differenti gruppi sociali possono dare vita a un sistema di prestazioni totali all’insegna di una reciprocità generalizzata, mettendo in gioco molteplici livelli istituzionali.

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Attività ricreative e laboratori artistici per richiedenti asilo

I tirocini formativi avviati con le amministrazioni comunali sono utili da esaminare a questo riguardo. Possono indubbiamente precorrere una reciprocità generalizzata, se il richiedente si avvicina al mondo del lavoro mettendosi al servizio della comunità attraverso un accordo – una convenzione – con chi amministra e ha ‘in carico’ quella comunità. È un impegno dall’alto valore simbolico, dato che ‘lavoro’ non è solo retribuzione o reddito, ma veicola uno scambio sociale ad alta densità simbolica. Impieghi di questo tipo (ad esempio, la cura dei parchi e dei giardini pubblici) assumono il significato della realizzazione di una piena integrazione. Il richiedente presta un servizio ma cosa scambia effettivamente? Quale vincolo rende salda la triade dare-ricevere-restituire? Può assumere il senso di ‘dono’ se l’impegno dei richiedenti asilo nel contribuire alla pulizia delle strade di una città viene invocato quando i dipendenti dell’azienda deputata al decoro urbano non vengono pagati da mesi e, dunque, l’amministrazione comunale è in difficoltà, come nei casi riscontrati dagli autori di questo contributo? Si può ritenere di vedere innescati scenari di reciprocità se i richiedenti puliscono le strade e gli operai deputati a farlo non lo fanno perché ‘sostituiti’ da tirocinanti? Senza contare che, inoltre, amministrazioni locali con esigue risorse economiche difficilmente assumeranno il tirocinante a fine percorso. In casi come questi, le ambiguità del tirocinio, collocato tra la volontà di dare una formazione ai richiedenti e la necessità di inquadrare una forza lavoro altrimenti più costosa, è portata all’estremo.

Tuttavia, il nodo non risiede nell’ammontare o nella presenza/assenza di una retribuzione, bensì nello statuto politico e legale che accordiamo a questi tirocinanti. Come già sostenuto, la condizione economica procede di pari passo con quella giuridica ed esistenziale. Fino a quando l’unico modello di integrazione pensabile sarà di tipo subalterno, sarà difficile vedere aprirsi scenari di mutualismo. Se l’accettazione benevola del richiedente si snoda attraverso il sistematico collocamento in una dimensione subalterna, dietro i concetti di cittadinanza e integrazione si annidano retoriche porose, fragili e ipocrite, che impediscono l’accesso a una comunità di pari ed eguali. Se lo statuto legale del richiedente è intimamente precario – condizione determinata in parte dall’indirizzo delle politiche (sovra)nazionali – il job training non garantisce alcun effettivo inserimento nella comunità ospitante, costituendo piuttosto il mezzo per ratificare quelle frontiere interne (Balibar, 2012) entro cui prendono forma nuove forme di sfruttamento cui assegnare la forza lavoro migrante.

Ciononostante, chi lavora in questo ambito può contribuire a rideclinare lo stato di cose presente. Gli operatori sociali dei progetti di accoglienza coi quali ci siamo confrontati hanno ad esempio colto l’occasione presentata dai tirocini formativi per la pulizia e il decoro dei parchi comunali in modo che i richiedenti asilo, opportunamente preparati, si facessero pienamente carico della gestione degli spazi verdi pubblici: aprendo e chiudendo il cancello la mattina e la sera e imbastendo relazioni sociali significative con le persone che frequentano il parco. Una responsabilizzazione che va oltre l’orario e la mansione specifica assegnata dal tirocinio; un’eterotopia che può portare a un mutuo riconoscimento politico tra pari soggettività.

Non è secondario, dunque, considerare il ruolo potenzialmente trasformativo di chi lavora nell’accoglienza ai richiedenti asilo: ulteriore dimostrazione della preziosità di un’adeguata attività di mediazione e formazione che gli antropologi possono svolgere in questo campo.

Laboratorio-di-educazione-civica-di-un-progetto-SPRAR

Laboratorio di educazione civica di un progetto SPRAR

Scenari di mutualismo?

Le attuali configurazioni del tirocinio formativo nei progetti SPRAR assumono i contorni di uno scambio che, come vuole la tradizione liberista, accresce il benessere dei soggetti coinvolti. Il richiedente vuole stare in Europa e, legittimamente, aspira a una minima monetarizzazione (benché il tirocinio preveda l’erogazione di un’indennità e non una vera e propria retribuzione). In cambio, il datore di lavoro ottiene forza lavoro gratuita, dato che tutte le spese correlate al tirocinio formativo (es. indennità, assicurazione e trasporti) sono a carico dell’ente gestore del progetto SPRAR. Molte delle aziende con cui vengono stipulate convenzioni non si lasciano sfuggire questa possibilità. Al termine del tirocinio, però, capita spesso che i datori di lavoro dichiarino di voler assumere il richiedente ma di non avere i soldi per farlo. In alternativa, viene sostenuto che la formazione non è stata sufficiente ai fini di un’assunzione post-tirocinio.

Si badi che il problema che stiamo affrontando – l’innesco di scenari di reciprocità e/o mutualismo a partire dai tirocini formativi – non è l’assenza di una ricompensa economica, pur presente sotto forma di  indennità, ma quella di riconoscimento sociale, per il cui ottenimento, a volte, gli operatori sociali possono tuttavia ingegnarsi nell’individuare varie soluzioni, come nel caso del parco comunale precedentemente richiamato.

Ma quale riconoscimento può materializzarsi per un richiedente che dopo alcuni mesi, dentro o fuori un ottimo progetto SPRAR – vede svanire la possibilità di restare in Italia? Quale  restituzione può realizzarsi se al termine di un tirocinio formativo o di un progetto di accoglienza, il cui tempo di permanenza è temporaneo, il lavoro e quindi una casa e relazioni sociali dense restano un miraggio? In questi casi, l’obbligo morale di ‘restituire’ per potersi sentire alla pari e non sudditi viene meno. Se infatti consideriamo la protezione e la permanenza di una soggettività altra sul territorio come l’elargizione di un dono a cui non corrisponderà mai un’effettiva inclusione nella stessa comunità – il riconoscimento reciproco – si forma allora un debito difficile a estinguersi. E il mancato riconoscimento delle aspettative sociali può generare sentimenti di fallimento personale o di offesa, come hanno scritto, pur con diverse sfumature, vari autori, da Mauss a Malinowski.

Molti ragazzi che hanno concluso progetti SPRAR e hanno cercato fortuna altrove in Italia o in Europa, spesso rientrano in Calabria nei momenti di difficoltà o di stallo nell’espletamento dei processi giuridico-burocratici che li riguardano. Sanno che in Calabria, dove hanno vissuto esperienze spesso virtuose di accoglienza, possono contare su risorse simboliche e materiali con cui riorganizzare la propria esistenza (reperire un lavoro, affittare una stanza, ecc.).

Ma situazioni di questo tipo, assai ricorrenti, certificano, a nostro avviso, un fallimento complessivo del sistema, come testimoniato dal fatto che molti richiedenti, conclusosi un progetto SPRAR, dipendono dalla mediazione infaticabile degli operatori sociali per trovare un lavoro. Se è vero che la globalizzazione neoliberista, progetto politico teso a fondare una specifica ‘forma di vita’ e non mero progetto economico, misura l’umanità in base alla mobilità (Ong, 2005), l’assegnazione di una cittadinanza transnazionale è declinata al ribasso per chi giunge in Europa dal mare. In assenza di pieno riconoscimento politico, nessun tirocinio formativo può arginare la violenza potente di usare queste persone per inverare un cosmopolitismo dei profitti e non dell’eguaglianza delle donne e degli uomini tutti.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
[*] Il presente contributo per Dialoghi Mediterranei è tratto da una relazione presentata al V Convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata, Workshop n. 2 “Job training e richiedenti asilo”, Catania, 14-17 dicembre 2017.
 Note
[1] A tal proposito, Barbara Pinelli (2013) propone giustamente di affiancare lo studio delle cosiddette culture della migrazione (da intendere come la sedimentazione di informazioni e saperi pratici legati alle esperienze migratorie in specifici contesti locali – pur aperti alla dimensione transnazionale) alla considerazione delle culture dell’immigrazione, ovvero i repertori di immagini e azioni con cui le società dell’accoglienza si confrontano con i migranti, tanto su un piano discorsivo che su di un livello burocratico e istituzionale.
[2] L’acronimo SPRAR indica il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, la cui gestione è affidata dal Ministero dell’Interno agli enti locali.
[3] Per una preziosa riflessione sulle potenzialità della figura dell’operatore sociale, consigliamo la lettura di Curcio, 2014.
Riferimenti bibliografici
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Ceschi Sebastiano, Lavoro, in Riccio B. (a cura di), Antropologia e Migrazioni, CISU, Roma, 2014: 105-116.
Curcio Renato (a cura di), La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici, Sensibili alle foglie, Roma, 2014.
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Giovanni Cordova , dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb.
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Mariangela Zema, laureata in Discipline Etnoantropologiche presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, ha condotto ricerche sulla salute materna e infantile, in Etiopia, e sul diritto alla casa dei cittadini stranieri, a Roma. Attualmente coordina il progetto SPRAR del Comune di Calanna (RC) per il quale è stata responsabile dei tirocini formativi.

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