di Laura Leto
Il 2020 appena concluso, oltre ad averci lasciato con un profondo senso di disorientamento e sconforto, ha regalato importanti scoperte archeologiche e storico-artistiche. Tra le altre, in Italia, Pompei ha nuovamente stupito con i colori brillanti del termopolio esaminato dall’antropologo Valeria Amoretti [1], ha ancora commosso con la realizzazione da parte del direttore del Parco archeologico, Massimo Osanna, di nuovi calchi in gesso di due individui travolti dalla nota eruzione vesuviana del 79 d. C. [2]. Pompei e la vicina Ercolano destano grande stupore nel visitatore grazie alla possibilità di immergersi nella vita degli individui che vi abitavano, di assaporarne l’atmosfera, i vizi e le virtù. A Ercolano, lo strato di roccia piroclastica ha paradossalmente protetto il centro abitato che conserva ancora i resti lignei di tetti e arredi, assieme a una quantità incredibile di scheletri umani che hanno consentito agli esperti di conoscere gli antichi Ercolanensi sotto più aspetti.
Tra le strade e nelle abitazioni private, sono frequenti vasche e piscine che presentano figure femminili con lunghe chiome intente a lavarsi. La presenza di una fitta rete fognaria, di piscine e bagni pubblici aiuta a comprendere l’importanza dell’elemento ‘acqua’, l’attenzione degli abitanti rivolta alla cura del corpo e all’igiene sia personale che collettiva.
Il maggiore edificio pubblico di Ercolano era il gymnasium, realizzato in età augustea a partire dal 27 a.C. su un’area di 9000 m2 ca., inizialmente scambiato per un tempio a causa della presenza di due colonne ritrovate in situ, scoperto nel XVIII secolo. Il fabbricato comprendeva altri piccoli edifici, probabilmente botteghe che si affacciavano sulla strada, sormontate da un secondo livello di appartamenti dati in affitto. Il ricavato consentiva l’amministrazione delle attività dei giovani ercolanensi che in quel luogo acquisivano sia una formazione culturale che una preparazione atletica. Il gymnasium era infatti dotato di una palestra, alla quale si accedeva da un vestibolo con pareti affrescate e volta stellata [3].
Le prime relazioni sull’edificio provengono dagli scavi condotti su iniziativa di Carlo III di Borbone, fautore di un’impresa che calamitava l’interesse di tutta l’Europa e che non aveva precedenti dato lo stato di conservazione dei monumenti e dei manufatti. Gli “archeologi” borbonici si scontrarono con la questione circa il metodo da adottare per approcciarsi a un’area talmente vasta, dalla quale doveva emergere anche un rilievo planimetrico. All’inevitabile contaminazione della politica nella gestione degli scavi, si aggiunsero le critiche per la disastrosa tecnica utilizzata; si scavava nello strato piroclastico mediante la realizzazione di tunnel e pozzi, raccogliendo tutto ciò che si imbatteva nel cammino, lasciando trasparire un interesse volto più al recupero di oggetti da collezione piuttosto che reperti da contestualizzare in una cornice storica dal prestigio incommensurabile. Lo stesso Johann Joachim Winckelmann [4] denunciò il costume di fondere il bronzo di frammenti di statue considerate irrecuperabili, operazione discutibile anche per i non esperti del settore (Franchi Dell’Orto 1993: 73-74).
Tra le sculture sopravvissute, ha destato la mia attenzione una Venere su piedistallo colta nell’atto di allacciarsi un sandalo, incisa su una tavola, firmata da Nicola Vanni e Pietro Campana [5], pubblicata nella sezione ‘Bronzi’ Delle antichità di Ercolano. Questa illustra la statuetta da due angolazioni differenti che ne consentono il godimento a tutto tondo. Nella descrizione, viene riportato in nota il luogo del ritrovamento: «Scavazioni di Portici dì 22. di Febbraro dell’anno 1757», facendo probabilmente riferimento al porticato con colonne che delimitava su tre lati l’edificio attribuito al gymnasium. Dell’anonimo artigiano-artista che ha eseguito il lavoro vengono riconosciute la maestria e la delicatezza delle forme della scultura. Il soggetto viene identificato con una Venere che si appoggia col braccio sinistro a un tronco mutilo, al quale si avvolge a spirale un delfino, per calzare o togliersi il sandalo con la mano destra. Al lettore vengono date indicazioni anche sul materiale, si specifica che a differenza del corpo in bronzo, gli ornamenti delle gambe e delle braccia sono in oro, mentre gli elementi fitomorfi che decorano la base sono in argento. La scheda dedicata alla descrizione è piuttosto breve, ma è corredata da dense note che spaziano dalla letteratura classica alla citazione di altre opere d’arte che presentano gli stessi elementi iconografici.
Un’altra tavola corredata dalla descrizione della Venere si trova in una pubblicazione tedesca che illustra dipinti, mosaici e bronzi di Ercolano e Pompei (Roux, Barré 1841: 140). Probabilmente il disegnatore Lith d’Adrien avrà preso ispirazione dall’incisione del Campana dal momento che le due tavole sono perfettamente sovrapponibili. In questo caso il soggetto viene identificato con Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, caratterizzata dalla morbidezza della figura che modella anche il piede e come scrive il lessicografo Luis Barré: «Per un senso imparziale non è necessario sottolineare come il movimento della nostra immagine, con tutta l’abbondanza di belle forme che è in grado di sviluppare, eviti felicemente tutto ciò che è sfacciato, e non emerge nulla di estraneo alla pura bellezza e all’osservazione inquietante» (ivi: 17).
Dai riferimenti culti presenti nelle note a corredo delle schede, si evince come la figura femminile muti identità a seconda della voce o della mano che ne dà corpo. Nella tradizione romana, la fanciulla era riconosciuta come Venere callipigia [6], simbolo della sensualità femminile alla quale è riferibile la storia della bella Frine, cortigiana ateniese, vissuta nel IV sec. a.C. che fece da modella al grande artista Prassitele per la realizzazione di una scultura bronzea raffigurante proprio la dea (Gualandi 2011: 192). Altro esempio di Afrodite callipigia è quello fornito dalla Grotta della Sibilla Lilibetana [7] di Marsala, riportata alla luce nel 2005, probabilmente risalente al II sec. d.C.. La presenza della Venere, conservata oggi presso il Museo Archeologico Baglio Anselmi di Marsala, riporterebbe all’antico ‘culto delle acque’ celebrato presso la sorgente che si trova all’interno della grotta. Diodoro Siculo raccontava dello sbarco sul promontorio del Boeo del cartaginese Annibale, nel 409 a.C., il quale pose sotto assedio Selinunte e che fece accampare il proprio esercito proprio presso la fonte miracolosa. Con la diffusione del Cristianesimo, il pozzo venne utilizzato come fonte battesimale e il Pitrè ne ha sottolineato i poteri salvifici celebrati nel corso della festa di San Giovanni, venerato presso l’antica chiesa omonima presente in situ (Pitré 1900).
Un esempio più recente della ‘donna che esce fuori dall’acqua’ è offerto dalla Venere realizzata nel 1762, in marmo di Carrara, dallo scultore Tommaso Solari, collocata presso il Bagno di Venere, giardino inglese della Reggia di Caserta, ispirato all’antro della Sibilla Cumana descritto dall’Eneide (Civita 1987: 18).
Ritornando alla nostra statuetta, l’elemento dell’acqua è introdotto dalla presenza del delfino avvolto sul ramo di sostegno. Lo si ritrova di frequente vicino alle ninfe marine, come Galatea, oggetto dell’amore non corrisposto di Polifemo che ne contemplava la bellezza mentre giocava nel mare con un carro trainato da delfini [8]. All’origine della formazione della costellazione del delfino vi è il mito dell’amore di Nettuno per Anfitrite. Il dio del mare chiese aiuto al gentile cetaceo per convincere la bella Nereide a sposarlo e, in cambio, avrebbe ricevuto come ricompensa un posto tra le stelle [9]. Tra tutte le creature marine, il delfino è il più associato all’amore, veniva infatti chiamato Venereus, attributo di Venere e simbolo dell’amore coniugale. Inoltre, per l’assonanza tra i termini greci δελϕίς (grembo) e δελϕίς-ῖνος (delfino) è legato alla sfera della fertilità.
Dalla mitologia greca la Venere acquisiva il nome di Ròdope, moglie di Emo re della Tracia, che venne trasformata in monte da Zeus in seguito all’atto di superbia commesso, era talmente convinta della propria bellezza da dichiarare di essere Era, sposa dello stesso Zeus e regina di tutti gli dèi (Palazzi 1990: 224). In alcune regioni della Grecia, il culto di Era e di Afrodite era unificato in quello della Grande Madre, divinità femminile del creato probabilmente di tradizione micenea, legata alle nascite e al ciclo delle stagioni. L’Afrodite tipo Louvre-Napoli del I sec. d. C., copia di un originale greco della fine del V secolo a. C., conservata presso il Museo archeologico di Napoli, ne offre un esempio significativo. La figura femminile in posizione stante è coperta dall’himation, retto con la mano destra e dal chitone, che lascia scoperto il seno sinistro. La mano sinistra regge un frutto, una mela o un melograno, simbolo ricorrente di fecondità.
Un altro elemento indispensabile per l’analisi presentata è il sandalo, inteso come ornamento del piede. Quest’ultimo in epoca classica diviene quasi una figura sineddotica che caratterizza la bellezza femminile. Lo scrittore greco Aristeneto scrive che un piede ben formato e sottile adorna naturalmente anche quelle donne che non hanno alcun ornamento (Aristeneto 1817: 43) e ancora, come è scritto nel trattato Physiognomica, la piccola dimensione del piede è sinonimo di bellezza.
Si racconta che Giuditta indossò come prima cosa i sandali per conquistare il generale Oloferne. L’episodio biblico rimanda a un’opera di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che illustra il talamo nunziale del sovrano macedone Alessandro e Rossana, figlia del nobile satrapo Ossiarte. L’affresco ritrae la fanciulla con le sembianze di una Venere, circondata da amorini, intenti a svestirla per la prima notte di nozze. Il chitone rivela le generose forme e i piedi sono oggetto delle cure dei putti, impegnati a toglierle i sandali [10].
Lo studio iconografico dell’immagine si presta a un’analisi di tipo filologico riscontrata tra le pagine dell’“Archivio per lo studio delle Tradizioni popolari” di Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone-Marino. Nel 2014 esaminando tutti i volumi in occasione della mia tesi di laurea magistrale mi sono imbattuta nel saggio con ‘vignetta’ pubblicato dal collezionista tedesco Hermann Kestner [11]. L’analisi dello studioso mi colpì particolarmente in quanto spaziava dall’iconografia comparata delle svariate veneri presenti a Ercolano, Pompei, Roma, Parigi e Monaco (sottolineando come emergano due elementi costanti: il chitone e l’acqua) [12] all’interrogarsi sulla corrispondenza tra le forme di poesia popolare e le rappresentazioni artistiche di epoca classica, rivelando come l’arte, l’archeologia e la poesia si fondano in un unico sapere che ha come oggetto l’uomo, in tutte le sue manifestazioni:
«Io credo che gioverebbe, importerebbe sapere se in tali prodotti dell’arte antica […] specialmente nei piccoli lavori, come statuette, bassorilievi, vasi, istrumenti, ornamenti etc. (trascurati un tempo come le fiabe), non si possano forse scoprire reminiscenze della negletta poesia tradizionale del popolo. È probabile che questa parte dell’arte appartenesse più all’uso e al divertimento privato, privatissimo del popolo, che a un culto pubblico; così che certe figurine […] possano rappresentare tanto dei soggetti di poeti classici, epici e drammatici, quanto certe tradizioni popolari finora non ispiegate abbastanza» (Kestner 1883: 350).
Kestner stabilisce che la protagonista della tradizione popolare, orale e scritta, da associare alla statuetta sia Ròdope, della quale ho già accennato, che giunse in Egitto come meretrice al seguito di Xanto di Samo e venne riscattata per una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello della poetessa Saffo. Divenuta in tal modo libera, Ròdope rimase in Egitto, ma per merito della sua bellezza divenne nota in tutto il Mediterraneo [13]. Della fanciulla circolarono storie e rappresentazioni artistiche considerate da autori antichi e moderni. Il filosofo romano Claudio Eliano in Della fortuna della cortigiana Rodope, inscrive la vicenda nel corso della XXVI dinastia (570-526 a. C.) sotto il faraone Amasis. La donna, a causa della sua bellezza, suscitava le gelosie delle altre schiave che non si sottraevano dall’insultarla e maltrattarla continuamente presso la casa del padrone egiziano. Quest’ultimo, riconoscendole una grande abilità nel ballo, decise di regalarle dei preziosi calzari, precursori della famosa scarpina che diede avvio alla vicenda:
«La cortigiana Rodope egiziana fu molto bella come si dice. Una volta mentre si bagnava (nel fiume), la fortuna che, tanto volentieri adduce l’inopinato e l’inaspettato, la favoriva d’una distinzione, se non meritata per il suo carattere, certo corrispondente alla sua bellezza. Mentre stava nel bagno, e le sue serve intanto stavano attente ai vestimenti, un’aquila si slanciò dal cielo, rubò l’una delle sue scarpe e se ne volò con quella alla città di Menfi, dove la lasciò cadere in grembo al Re Psammetico, il quale stava sedendo in giudizio. La bella forma e il lavoro prezioso adoperato in quella scarpa davano tanta ammirazione al Psammetico quanto il fatto miracoloso dell’uccello rubatore. Comandò che si ricercasse in tutto Egitto la padrona di quella scarpa; si trovò e la fece sua sposa» (ivi: 346).
Uno studio comparativo delle tradizioni popolari di più Paesi, realizzato dal demologo inglese ed esperto di folklore Henry Charles Coote [14], mostra come la Venere che allaccia il sandalo venga considerata una rappresentazione dell’antico racconto greco di Stactos:
«Una volta c’era una donna che aveva tre figlie. Un giorno le due maggiori proposero alla terza, più giovane, di ammazzare la loro madre e di mangiarla. Questa, senza nessuna esitazione, rigettò la scellerata proposta. Ma le due sorelle nondimanco uccisero e divorarono la madre. La stessa notte la madre apparve alla figlia minore e le comandò di riunire le sue ossa e custodirle con ogni premura e cura, dicendole che quando avrebbe bisogno di qualche cosa troverebbe poi le ossa. La figlia obbedì al comando mettendo le ossa in una giarra che pose accanto al fuoco. Ella sedeva a lato della giarra, fra la cenere e la fuligine, acquistandosi il soprannome di Stactos o Cenerentola. Dopo questo il figlio del re annunciò la sua intenzione di dare una gran festa da ballo e vi invitò tutte le signorine del paese. Le sorelle della Cenerentola accettarono l’invito, ma ella lo rifiutò. Fece così però senza sincerità, perché, appena uscite le sorelle per la festa, la Cenerentola cercò la giarra ed ivi trovò belle robe e gioielli per fare una scelta. E si mise un bellissimo abito con diamanti» (Coote 1882: 266).
Coote evidenzia come anche questo racconto sia sovrapponibile a quello della Cenerentola che noi tutti conosciamo, sottolineando che l’unico elemento che distingue i due racconti sia l’orribile assassinio della madre. Quest’ultimo è inoltre considerato l’elemento caratterizzante che proverebbe l’originalità della storia greca rispetto a quella della tradizione “occidentale”. Tale cultura considerando il matricidio troppo truce, lo avrebbe censurato. Dov’è nata dunque la nostra Cenerentola? In Grecia o in Egitto? Kestner identifica il fulcro di tali contaminazioni culturali in Alessandria d’Egitto, punto di partenza del diffondersi di fiorenti scambi di merci e idee che raggiunsero facilmente l’Europa e l’Asia. Ciò non escluderebbe affatto la tesi che vede il racconto originario della Grecia antica.
La ‘vignetta’ che accompagna il saggio è lo stesso disegno della pubblicazione curata dal Barré, con l’aggiunta di una linea tratteggiata che ricostruisce virtualmente il ramo sul quale si appoggia la Venere. L’immagine è stata per me di fondamentale importanza per l’identificazione con la Venere che allaccia il sandalo conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nel 2014 scrissi alla Direzione del MANN a proposito della mia ricerca e gentilmente mi informarono che la statuetta in bronzo, oro e argento è registrata con numero d’inventario 5133 e misura 17,5 cm in altezza e 7,5 cmq di larghezza. Nel documento inviatomi era indicata la pubblicazione Delle antichità di Ercolano come fonte per il luogo di ritrovamento, assieme a un’altra pubblicazione curata da Enrica Pozzi sulle collezioni del Museo. Di seguito riporto quanto scritto sulla scheda di catalogazione che inquadra il reperto nell’arco di tempo dal I sec. a.C. al I sec. d. C.:
«La figurina, posta su una basetta circolare a profilo concavo decorato da motivi a palmette, volute e fiori, rappresenta la divinità al bagno, mentre si sfila il sandalo sinistro. Il puntello è configurato come un piccolo tronco d’albero circondato dalle spire di un delfino, attributo caratteristico della Venere marina» (Pozzi 1986: 190).
In quella circostanza chiesi dove fosse esposta la Venere, determinata ad andare ad ammirarla nel prossimo viaggio per Napoli, ma scoprii con un po’ di dispiacere che riposava nei depositi del Museo, collocazione che rimane invariata sino a oggi. La bellezza della fanciulla che un tempo ha scatenato i segreti pensieri di chi la osservava, ha successivamente avviato un vitale dibattito sull’eleggere o meno un determinato popolo a “genio universale”, inventore di un mito o piuttosto affidare alla trasmissione culturale il merito del riconoscimento di temi ricorrenti in generazioni e tradizioni differenti [15].
Trovo estremamente interessante, come sostenne Kestner, che nell’aspetto storico-artistico della nostra dea, forse in modo più sorprendente che in altre divinità, si plasmi il carattere morale della cultura greca e romana, dove la rappresentazione del divino in forma umana era una caratteristica fondamentale della visione del mondo. La Venere che allaccia il sandalo diviene testimone di come la poesia e l’arte e la religione entrino in una stimolante interazione che soltanto un approccio multidisciplinare può analizzare. Chissà ancora per quanti secoli farà ancora parlare di sé.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] http://pompeiisites.org/comunicati/riaffiora_per-intero-lantica-tavola-calda-della-regio-v/
[2] https://www.beniculturali.it/pompei21112020
[3] https://ercolano.beniculturali.it/il-benessere/
[4] Lo storico e archeologo tedesco, nato a Stendal nel 1717 e deceduto a Trieste nel 1768, è considerato il maggiore esponente del Neoclassicismo. Nel 1774, recatosi a Roma per approfondire i suoi studi, acquisì il titolo di Soprintendente alle Antichità. In seguito dedicò la sua vita a narrare le sue esperienze di viaggio a Napoli, a Ercolano e in Sicilia. I suoi resoconti e studi vennero tradotti in diverse lingue, divenendo un vero e proprio punto di riferimento per coloro che intraprendevano il Grand Tour. Nel 1773 Federico II di Prussia lo nominò ministro plenipotenziario alla corte di Vienna. J. H. Riedesel, Viaggio in Sicilia, Palermo 1821: 100-108.
[5] Entrambi illustratori, dal 1757, delle opere d’arte ritrovate nel corso della campagna di scavo a Ercolano. Tra gli altri, contribuirono al meraviglioso lavoro il suo maestro Rocco Pozzi, il romano Nicola Vanni, Filippo Morghen, lo spagnolo Francesco Lavega, il Vanvitelli. Il primo volume venne pubblicato a Napoli nel 1754, senza illustrazioni, col titolo Catalogo degli antichi monumenti dissotterrati dalla discoperta città d’Ercolano, seguirono altri otto volumi dal titolo Delle antichità di Ercolano, divisi in sezioni, pubblicati in annate diverse sino al 1792. Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-campana_(Dizionario-Biografico)/
[6] Callipìgia (meno com. callipige) agg., s. f. [dal greco καλλιπυγοϛ], letteralmente tradotto “dalle belle natiche”. L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, Società editrice Dante Alighieri, S. Lapi, Città di Castello 1961: 959.
[7] Sibilla era l’appellativo che i Greci e i Romani davano alle donne ‘invasate dello spirito profetico’ di Apollo. Le più note erano la Sibilla Troiana, che viveva sul Monte Ida in Asia Minore; la Sibilla Erofile, quella eritrea e la Sibilla Cumana, quella che predisse il Fato di Enea. F. Palazzi, op. cit.: 233.
[8] Filostrato il Vecchio, Immagini, II, 18, 165.
[9] Cfr. Ovidio, Fasti, II vv. 79-118; Eratostene, Catasterismi, 31; C. G. Igino, De Astronomia, II, 17, 3. Tutti questi riferimenti sono riportati nella scheda Delle antichità di Ercolano, rispettivamente alla nota n° 2 di p. 51.
[10] Cfr. https://www.britannica.com/topic/Marriage-of-Alexander-and-Roxane
[11] La famiglia Kestner era molto nota all’interno del panorama culturale del XIX secolo. Il fratello maggiore, August, era studioso di storia, musica, arte, archeologia, numismatica e fondatore dell’Istituto di corrispondenza archeologica di Roma, poi divenuto il Deutsches Archäologisches Institut. Con lo stesso eclettismo si delinea la figura di Hermann Kestner (1810 – 1890), il quale iniziò a occuparsi di musica popolare sin da giovanissimo, erede delle collezioni musicali, prima dello zio e poi del fratello, molte sono conservate presso il Kestner Museum, fondato dai due fratelli nel 1889, nella città natale di Hannover. Nel 1846 si trasferì da Roma a Napoli, dove entrò a far parte dell’élite culturale della città e dove conobbe il poeta Girolamo De Rada (1814 – 1903) che gli fornì gran parte dei canti popolari albanesi. Strinse anche una forte amicizia con lo storico dell’arte Gustavo Frizzoni (1840 – 1919), col quale collaborò per la realizzazione di alcuni articoli sul canto popolare, pubblicati sul periodico fiorentino “Buonarroti”. L. F. Tagliavini, Girolamo De Rada e Hermann Kestner, una lunga amicizia tra due studiosi, in Hylli I Dritës, Votër Kulture Shqiptare, Korint 2008: 13-19.
[12] L’acqua viene ricorrentemente rappresentata mediante la presenza del delfino o dell’«onda corrente».
[13] Erodoto, Storie. Libro II, vv. 134-135.
[14] La formazione di Henry Charles Coote (1815 – 1885) era di tipo giuridico. Egli era un avvocato, membro della società Doctors Commons di Londra, ma dopo il suo viaggio in Italia, diresse i suoi studi verso la linguistica e il folklore. Conosciuto anche come antiquario, avviò inoltre una fitta collaborazione con i periodici più eruditi del suo tempo che lo condusse alla fondazione della Folklore Society di Londra. Cfr. Alla voce: Coote, Henry Charles, in Dictionary of National Biography, 1885 – 1900, Volume 12.
[15] Alla questione viene in soccorso l’Antropologia strutturale che studia i fenomeni in base al sistema di relazioni che li determinano. Lévi-Strauss ha condotto la sua indagine al fine di svelare la logica interna ad una determinata cultura e la relazione di questa con le strutture al di fuori di essa. La cultura, secondo l’antropologo, è un intreccio di codici che ordinano l’esistenza degli individui.
Riferimenti bibliografici
Aristeneto, Clearco ad Aminandro. Una donna beffeggia l’amante che inutilmente la tentava, in Lettere di Aristeneto tradotte da un accademico fiorentino, Libro I Epistola 27, Presso Niccolò Capurro, Pisa 1817.
S. Civita, Il Giardino Inglese nella Reggia di Caserta: la storia e i documenti, le piante, le fabbriche, Soprintendenza per i beni ambientali, architettonici, artistici e storici per le provincie di Caserta e Benevento, 1987.
De’ Bronzi di Ercolano e contorni incisi con qualche spiegazione, in Delle Antichità di Ercolano. Tomo sesto o sia secondo de’Bronzi, Nella Regia Stamperia, Napoli 1871.
M. L. Gualandi, L’antichità classica, Carocci, Roma 2011.
H. Kestner, La Cenerentela. Studi di letteratura comparata (con vignetta), in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, vol. II, 1883.
L. Leto, Temi di Arte e Archeologia nell’“Archivio per lo studio delle tradizioni popolari” di Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone-Marino, tesi di Laurea magistrale, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Palermo, a.a. 2013 – 2014.
M. Pagano, I primi anni degli scavi di Ercolano, Pompei e Stabiae: raccolta e studio di documenti e disegni inediti, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005.
F. Palazzi, Mythos, Dizionario mitologico e di antichità classiche, Bruno Mondadori, Milano 1990.
G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, C. Clausen, Palermo 1900.
E. Pozzi (a cura di), Le collezioni del Museo nazionale di Napoli, vol. I, De Luca, Roma 1986.
J. H. Riedesel, Viaggio in Sicilia, Palermo, 1821.
L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, Società editrice Dante Alighieri, S. Lapi, Città di Castello 1961.
H. Roux, L. Barré, Herculanum und Pompeji: vollständige Sammlung der daselbst entdeckten, zum Theil noch unedirten Malereien, Mosaiken und Bronzen, Johann August Meissner, Hamburg 1841.
Sitografia
https://www.beniculturali.it/pompei21112020
https://www.britannica.com/topic/Marriage-of-Alexander-and-Roxane
http://caserta.arte.it/guida-arte/caserta/da-vedere/monumento/bagno-di-venere-5157
https://ercolano.beniculturali.it/il-benessere/
http://pompeiisites.org/comunicati/riaffiora_per-intero-lantica-tavola-calda-della-regio-v/
https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-campana_(Dizionario-Biografico)/
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Laura Leto, antropologo e storico, è attualmente impegnata nel Dottorato di Ricerca con l’Universidad del Paìs Vasco UPV/EHU che ha come oggetto di studio il Cimitero acattolico dell’Acquasanta di Palermo. Sta collaborando al Progetto di ricerca nazionale “Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice” (RICI), per l’identificazione e il trattamento informatico degli inventari dei libri registrati in alcuni manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana. Partecipa al Catalogo collettivo di biblioteche ecclesiastiche italiane. Ha cooperato, in qualità di operatore didattico, con diverse Associazioni culturali palermitane, in seguito all’acquisizione del titolo di Esperto in Didattica museale.
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