di Olimpia Niglio-Minerva Parra Peralbo
Il concetto di patrimonio culturale non si basa su definizioni che è possibile generalizzare e solo viaggiando e conoscendo le altrui culture si può comprendere la diversità di contenuto che ogni contesto sociale associa a questo termine nonché la complessità del suo stesso significato. Tutto ciò è ancora più difficile se ci rivolgiamo a luoghi in cui le condizioni sociali sono tali da non facilitare un dialogo interculturale anche per mancanza di adeguata formazione di base. È questo il caso che è stato analizzato in Marocco e qui descritto. Infatti principale finalità di questa breve relazione è quella di riflettere sul valore dell’eredità culturale trasmesso dalle donne e sulla relazione che queste hanno con il proprio patrimonio, una volta valutata la condizione del ruolo femminile nella società di appartenenza. Questa inchiesta trova origine nell’ambito di un’attività di ricerca molto più ampia che è stata sviluppata durante la tesi di dottorato di Minerva Parra Peralbo e poi valutata da Olimpia Niglio con l’obiettivo di intendere il concetto di modello patrimoniale presso la città di Tetuán in Marocco.
Lo studio ha consentito di stabilire un contatto con un contesto socio-economico molto complesso e in cui molto radicata è la struttura patriarcale della famiglia e abbastanza diffuso il ruolo marginale della donna. Parlare quindi di patrimonio culturale significa tenere ben presente questa realtà patriarcale dove la predominanza androcentrica, confermata anche dalla religione, mette la figura femminile in una posizione del tutto subordinata e spesso decontestualizzata, lontana da qualsiasi opportunità evolutiva.
Nella realtà esaminata è molto evidente che sin da un lontano passato la donna non ha avuto alcun ruolo nella vita pubblica ma la sua esistenza è stata relegata alla sola sfera domestica dovendo garantire la sola trasmissione intergenerazionale della vita e delle tradizioni familiari, il tutto però all’interno di un sistema di isolamento quasi totale dal resto della società. Questa discriminazione delle specifiche competenze tra uomini e donne ha comportato una visione assolutamente parziale di ciò che invece fa parte del patrimonio culturale della città di Tetuán e non solo. Questa ridotta conoscenza è proprio quella che fa parte della sfera femminile e che qui intendiamo illustrare.
Per meglio analizzare questa specifica realtà e quindi comprendere come le donne sono consapevoli del proprio patrimonio culturale, sono state realizzare numerose interviste ovviamente sulla base di testi non standardizzati ma condivisi, spesso anche con domande non necessariamente ben strutturate ma libere ed aperte per meglio adattarsi al “caso per caso”. I contenuti delle domande sono stati elaborati anche con il fine di analizzare la qualità della vita e il livello di dignità delle donne nella città di Tetuán. È stato possibile realizzare queste interviste sia a gruppi informali di donne anziane con le loro rispettive figlie, nonché grazie al supporto di gruppi formalmente riuniti tramite associazioni locali.
Molto interessanti i riscontri ricevuti in quanto tutte le donne intervistate sono nate e cresciute all’interno della medina vecchia di Tetuán e quindi tra le antiche mura della città. Proprio per la loro condizione sociale tutte queste donne, indipendentemente dall’età, non sono mai andate oltre la strada in cui è localizzata la loro casa di residenza. Generalmente durante l’arco della propria vita sono uscite due volte: per il matrimonio e poi per la sepoltura. Molte donne ancora conservano questo stile di vita nonostante le condizioni del contesto nel frattempo siano cambiate; differentemente altre hanno avuto la possibilità di conoscere anche zone e quartieri diversi della città di Tetuán ma solo in età molto avanzata.
L’età media delle donne che hanno partecipato a questo progetto è stata compresa tra i 60 e gli 80 anni. Ciò che è emersa è una conoscenza molto parziale della loro città, ovviamente limitata per la condizione di vita a cui sono relegate che ha prodotto immagini fantasma, ricostruzioni mentali assolutamente lontane dalla realtà e quindi inesistenti. La loro rappresentazione della città è spesso condizionata da visioni personali che ogni donna costruisce nella propria testa, senza alcun reale riscontro se non quello di vedere ciò che non si può vedere, un invisibile che sembra trasformarsi in visibile ma poi tutto sfuma. Questo è il risultato del desiderio di trovare riferimenti, luoghi, spazi quotidiani che ognuno costruisce nella propria immaginazione, realizzando così ciò che non possono permettersi se non nei sogni.
Durante gli incontri informali le donne parlano tra loro iniziando a raccontare aspetti molto interessanti delle tradizioni, dei rituali, dei quartieri della città, delle strade di Tetuán che ognuno di loro conosce, e tutto ciò non solo favorisce la conoscenza di un patrimonio comune, che singolarmente conoscono solo limitatamente alla loro zona, ma consente anche di alimentare proprio quell’aspetto dell’immaginazione che caratterizza la conoscenza del proprio patrimonio urbano.
Nel corso di questi incontri si distingue una donna che ha avuto la opportunità di lavorare come infermiera in un ospedale spagnolo; donna dallo spirito inquieto ma molto curiosa. Non si è sposata ma ha adottato una ragazza rimasta orfana e ha conosciuto le grandi trasformazioni degli anni ’50. Ha parlato molto delle conoscenze che il suo lavoro le ha consentito di fare nonché ha visitato molte case e conosciuto le differenti realtà sociale della città di Tetuán.
Tutto questo ovviamente ha suscitato un forte interesse da parte di altre donne meno fortunate di lei perché durante i colloqui intercorsi hanno iniziato ad interrogarla su altre zone della città di Tetuán che non hanno avuto la possibilità di visitare ma di cui hanno sentito alcune leggende. Erano curiose di conoscere se ciò che hanno sentito e quanto loro immaginano sia vero. Un fantasma urbano quello di Tetuán che potrebbe tramutarsi in realtà se solo qualcuno potesse aiutare queste donne a conoscere realmente ciò che loro possono vivere solo attraverso la propria immaginazione.
A questo tipo di incontri ne sono seguiti molti altri anche con donne della vecchia medina di Tetuán riunite in associazioni. In questo caso le donne dimostrano di avere una conoscenza più realistica, immagini storiche più concrete della loro città grazie anche al contributo dell’amministrazione locale che mette a disposizione varie informazioni e che consentono loro di recuperare le specifiche identità “andaluse” che si riflettono anche sull’autentica lingua “tetuaní”, un dialetto che trova origine dall’incontro della lingua ebraica con quella spagnola, nato intorno al XVI secolo. Si tratta in realtà del dialetto degli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo e migrati sulle coste nord africane o nel continente latinoamericano. Sono questi elementi significativi del patrimonio culturale di questa città dove molti simboli dei rituali religiosi sono espressione di un interessante sincretismo tra cultura ebraica e cultura musulmana.
Durante questi incontri con le associazioni locali sono emerse anche problematiche connesse all’intolleranza tra le differenti comunità che vivono nella medina di Tetuán, il che contribuisce, come in tutte le parti del mondo, a costruire ghettizzazione, discriminazione sociale nonché rifiuto verso coloro che non sono nativi o meglio “tetuaníes” ossia legittimati per il fatto di essere nati in questa città. Durante questo tipo di incontri però sono intervenuti anche professionisti, intellettuali e ammini- stratori della città, quindi è stato possibile anche conoscere un’altra visione che loro raccontano del proprio patrimonio culturale. Generalmente queste persone abitano in settori meglio organizzati e più urbanizzati e le immagini che essi descrivono sono meno fantasiose, più correlate a una realtà vera ma ovviamente il tutto contribuisce a fornire ulteriori spunti di immaginazione a chi questa città non può conoscerla.
Un tema interessante è quello dell’architettura quale strumento politico nonché di legittimazione di un governo. Il patrimonio culturale è stato utilizzato e continua ad esserlo come risorsa strategica volta a ricostruire una identità nazionale ed una memoria collettiva. Tutto ovviamente sotto il controllo di predominanza androcentrica che cerca di guidare la reinterpretazione della storia, della memoria e della identità locale.
Così attraverso questa storia ricostruita i singoli cittadini continuano a rappresentare nella propria mente ciò che loro immaginano essere la città in cui vivono. Immagini del passato che si sommano a testimonianze orali, tracce rielaborate, memorie ricostruite, storie e miti che alla fine altro non sono che la elaborazione di un patrimonio culturale fantasma, frutto solo di immaginazione.
Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1968: 228) analizza la differenza tra il contenuto di una “immagine fotografica” che raccoglie in sé le prove della realtà concreta con quella dell’ “immagine mentale” che ognuno costruisce dentro di sé, accompagnata da simboli e riferimenti immaginari. Una condizione psicologica che è molto interessante esaminare e analizzare se intendiamo avvicinarci al concetto di patrimonio culturale proprio di una realtà come quella della medina di Tetuán.
Secondo l’architetto argentino Pablo Sztulwark (2009: 13), la città è legata alla memoria, quindi è il prodotto di una realtà che ha diretta rispondenza con la vita di ognuno dei suoi abitanti e con il loro modo di intendere la vita. Abitare significa crescere, costruire, coltivare l’ambiente in cui viviamo. È il patrimonio umano che costruisce il patrimonio materiale e quindi urbano. Senza l’uomo non ci sarebbe alcuno spazio che possa essere associato a specifici significati e valori.
Così questo studio sulla medina di Tetuán ci rivela come, una specifica condizione umana, possa far vivere ed intendere differentemente, da quanto siamo abituati a leggere sui libri, il concetto di patrimonio culturale. A Tetuán la sfera femminile ci aiuta proprio a comprendere valore e significato di questa interpretazione e come la vita vissuta nello spazio esclusivamente domestico abbia prodotto un modo differente di intendere il proprio patrimonio urbano in una forma non materiale né fisica ma elaborata attraverso percorsi immaginativi. Così la città è un fantasma ma lo è anche il patrimonio culturale.
Tutto questo conduce ad una riflessione sull’esistenza di una condizione umana la cui educazione non solo non ha consentito pari diritti e pari dignità ma allo stesso tempo non ha favorito una consapevole appropriazione della conoscenza della realtà e quindi del proprio patrimonio culturale. Solo una politica finalizzata all’educazione e alla condivisione attiva può favorire la presa di coscienza del proprio patrimonio e la sua conservazione sostenibile. È appena il caso di precisare che tutto ciò implica la riduzione delle disuguaglianze e la conseguente crescita economica essenziale per processi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.