di Sergio Todesco [*]
Bisogna munciri la pecura/Senza farla gridari.
(Francesco Minà-Palumbo, Proverbj agrarj, 1854)
La cultura pastorale, in Sicilia come nel resto del Mediterraneo, rappresenta forse la prima realtà di spessore antropologico che abbia interessato, lungo l’arco di alcuni millenni, la civiltà euro-asiatica. Già riscontrabile nella Bibbia e nei poemi omerici, la figura del pastore è stata sempre fortemente caratterizzata nei vari contesti economici, rituali, mitici, leggendari. Le attività pastorali hanno infatti espresso sotto qualunque latitudine profonde corrispondenze a livello tecnologico, e rivelato una sostanziale unitarietà di fondo all’interno delle culture mediterranee e medio-orientali; tali attività hanno inoltre documentato, a livello ideologico-simbolico, la persistenza di alcune rappresentazioni quali le figure del buon pastore e della pecorella smarrita, dell’agnello sacrificale e del capro espiatorio, che hanno attraversato l’intera storia della cultura giudaico-cristiana e di quella classica.
Altre caratteristiche rimaste comuni a tutte le comunità pastorali sono il nomadismo, ossia il mutamento continuo degli spazi del lavoro, il ricorso a tecnologie essenziali, e qualche volta l’adozione di forme di gestione collettiva dei fattori di produzione, i pascoli e il gregge.
Secondo una prospettiva più generale, si può sottolineare come la cultura pastorale abbia storicamente improntato dei suoi modelli il tipo di “trattamento del reale” da parte dell’uomo occidentale: un atteggiamento di tipo diretto-positivo, proprio come diretta e positiva è l’azione del pastore nei confronti dell’animale; e come viceversa nell’uomo orientale tale atteggiamento si sia configurato piuttosto come approccio di tipo indiretto-negativo, analoga all’azione dell’agricoltore nei confronti della pianta (Giacomarra).
Oltre alle attività giornaliere di gestione come la mungitura, il pascolo, i cicli del latte, delle ricotte e dei formaggi e la conservazione e stagionatura dei prodotti, l’anno pastorale prevede delle attività periodiche come la marchiatura dei capi di bestiame che compongono il gregge, la macellazione, la scorticatura e la concia, e infine la tosatura, in Sicilia detta tunnitura.
Tra i momenti lavorativi che scandiscono il tempo delle attività pastorali quello della tosatura, che ha luogo da fine maggio a inizio luglio, acquista un particolare rilievo. Esso infatti è l’ultimo evento significativo dell’anno pastorale che, pur concludendosi il 31 agosto, dopo tale momento presenta solo attività ordinarie; il suo espletarsi inoltre mobilita sempre una serie di dinamiche di ordine sociale e comunitario di grande interesse.
Oltre che essere infatti la tosatura determinata da esigenze connesse alla gestione del gregge in rapporto alle fasi dell’anno pastorale, condizionata quindi da ben precise motivazioni socio-economiche, tale attività implica comportamenti proprî di una comunità in festa e veicola pertanto, all’interno della cultura pastorale, modelli di comportamento che non possono essere interamente ricondotti all’ambito lavorativo.
In effetti, tra i lavori che segnano il dipanarsi dell’anno pastorale, la tosatura è quella in cui le prestazioni sono maggiormente ispirate al principio di reciprocità; poiché gli ovini da tosare spesso raggiungono per numero alcune centinaia di capi e sarebbe pertanto impossibile trattare in breve tempo tutti questi animali per i pochi lavoranti di una determinata azienda, è costume che tutti i pastori di quell’area geografica, uniti tra loro da rapporti di amicizia o d’interesse, ovvero partecipi della fitta trama di scambi che si crea durante i tempi delle fiere, si rendano reciprocamente disponibili a fornire, a turno e secondo un calendario concordato, prestazioni lavorative gratuite, il cui compenso consiste cioè non già in un pagamento in denaro bensì in prodotti contraccambiati, come la lana o i formaggi, e nella partecipazione al grande momento alimentare che conclude la giornata.
Nelle due località dell’entroterra peloritano tra Santa Lucia del Mela e Gualtieri Sicaminò (ctr. Puttàtu e Feudo Avarna) documentate in due anni consecutivi, nell’arco di due mezze giornate di circa tre ore di lavoro ciascuna inframmezzate da brevi pause vengono ordinariamente tosate poco meno di cinquecento pecore. Sono queste ovini di varia stazza, genere ed età, che fatti uscire dall’ovile (a mandra), un ricovero notturno al cui interno sono stati fin qui custoditi, vengono ’mpasturati. A ogni animale vengono cioè legate in croce le quattro zampe, stringendo le loro estremità con una corda più volte arrotolata e annodata (a pastura), in modo da consentire lo svolgimento della tosatura senza che l’animale possa sottrarsi a essa ferendosi o per panico calciare il tosatore.
Gli unici segni di protesta degli ovini, in realtà solo istintivi dato che dalla tosatura essi traggono giovamento liberandosi del pesante vello che li ricopre, sono i suoni delle campane, biaturi muligna o scugghia, che con vigorosi movimenti del capo essi fanno tintinnare.
Il gruppo che attende a tale attività si divide in quattro chiurmi, quella di chi prende le pecore e le lega, in genere i più giovani e robusti, quella di chi tosa gli animali, quella di chi slega e fa allontanare le pecore tosate e infine quella, formata in prevalenza da donne, che raccoglie la lana.
Il numero degli attrezzi impiegati nella tosatura è estremamente ridotto: ci sono innanzitutto i furrizzi e le fuòrfici (o fòbbici) di tunniri. I primi, invero oggi in disuso in quanto impiegati piuttosto per la mungitura, sono sgabelli di ferula, a volte usati come base d’appoggio per i pastori, che vi siedono dopo averli opportunamente disposti nell’accidentato terreno che funge da teatro delle operazioni; in effetti, il più delle volte essi preferiscono rimanere in piedi, curvi in avanti ovvero inginocchiati, per seguire più da vicino la conformazione fisica dell’animale da tosare e scegliere il punto del corpo più idoneo per l’avvio della prima sforbiciata; le seconde sono delle particolari forbici usate nella tosatura. Esse sono ricavate da un unico pezzo d’acciaio ritorto, con il metallo appiattito alle due estremità e formante due lame a base larga e vertice appuntito che sfregano l’una contro l’altra se si stringe l’impugnatura. Il loro vantaggio ergonomico è costituito dal fatto che quando la mano dell’operatore allenta la pressione esercitata, le lame ritornano da sole in posizione di partenza, e viene pertanto dimezzata la forza necessaria ad azionarle.
I pastori ricordano ancora le forbici di un tempo ormai remoto (chiddi fatti d’i mastri), sostituite successivamente da fòbbici fatti d’i fabbri. Oggigiorno si comincia a tosare ch’i machinètti, veri e propri rasoi meccanici simili per forma a quelli dei barbieri ma di maggiori dimensioni.
Ultimo manufatto presente nell’area della tunnitura è la petra o petra-mola, una mola rotante mossa da una manovella sulla quale per sfregamento si rifà la lama alle forbici usurate che hanno perso capacità di taglio. Essa viene continuamente bagnata perché la sua azione affilante si mantenga efficace.
La tosatura si effettua tenendo ben tesa la pelle dell’ovino senza toccare direttamente il vello ma piuttosto evidenziandolo e facendo scorrere le lame delle forbici quanto più vicine alla radice, così da poter tagliare la lana in modo omogeneo, senza però “pizzicare” l’animale. Le lame vengono quindi inserite con decisione nel manto setoso, che progressivamente si stacca dal corpo dell’ovino mantenendo per qualche istante compattezza e coesione (“Si ntrasi tutta ’a lama, si nni tagghia assai).
Secondo quanto affermano i pastori, fino a qualche decennio fa era diffuso un modo di tosare che prevedeva l’avvio delle operazioni partendo dal capo della pecora e proseguendo verso la coda. Questa tunnitura all’antica è stata poi quasi dappertutto dismessa, e attualmente il pastore inizia la tosatura dalla zampa posteriore sinistra per poi approdare all’attaccatura di essa al fianco dell’animale e proseguire quindi verso il capo, prima da un lato del dorso e poi dall’altro. Analogamente i tosatori mancini iniziano dalla zampa posteriore destra e proseguono a tosare l’animale in senso antiorario.
Quando non siano scandite dalla musica che un garzuni esegue alla fisarmonica o all’organetto, le operazioni si svolgono in un clima di relativo silenzio, rotto a tratti dal vivace intercalare di due pastori che lavorano contigui o dalle esclamazioni di chi ha completato la tosatura dell’animale assegnato che invitano a sciogliere dalla pastura la pecora tosata (spasturamu!) e a predisporre un nuovo animale (’mpasturamu!).
Se per avventura durante il taglio si ferisce la pelle dell’ovino (lame non molate o momentanea disattenzione del tosatore possono causare ciò) si somministra immediatamente uno spray disinfettante sulla parte pizzuliata onde proteggerla dalle temibili muschi, zzicchi, sgalamùni e altri parassiti del bestiame.
La lana tosata viene periodicamente raccolta a grandi bracciate e ritorta (’nturciuniàta) da una persona che ne tiene fermo un capo mentre un’altra l’attorciglia e infine la raccoglie a matassa per stiparla entro capienti sacchi di juta: serviranno a trasportarla al luogo in cui essa sarà sottoposta alle ulteriori fasi di bollitura, pulitura, cardatura.
Alcune pause, costituite da brevi ma intense consumazioni di cibo, pane vino salame formaggi trippa olive, consentono uno stacco dal faticoso lavoro. I pastori si scambiano in genere informazioni sulle rispettive identità territoriali: Chiddu veni di Piddirìnu, chiddu è Santaluciòtu, Bacciallunìsi, Funnaròtu, Sampitrìnu, Munfuttìsi etc. (si fa qui riferimento a una provenienza dalla frazione di Pellegrino, ovvero da Santa Lucia del Mela, da Barcellona Pozzo di Gotto, da Furnari, da San Pier Niceto, da Monforte San Giorgio). Altro argomento di conversazione è la crisi della pastorizia a seguito dell’applicazione delle devastanti norme comunitarie che impongono criteri igienici e regole fiscali di fatto inibitori dell’attività di caseificazione tradizionale come essa si è svolta per secoli. Il suonatore di organetto potrà similmente intrattenere l’uditorio sulle differenze di esecuzione di brani nelle aree siciliana e calabrese, ricordando proficui scambi di informazioni intrecciati con “colleghi” d’oltremare in occasione di pellegrinaggi e simili.
Quale che sia la provenienza di ciascuno dei gruppi presenti, la comunità provvisoria che tutti insieme essi compongono mostra una omogeneità ideologica di fondo, la cui cifra più evidente è costituita dalla dimensione lavorativa. La connotazione complessiva che l’atto corale della tosatura assume nei contesti tradizionali, gioiosa e a tratti ferina, deriva probabilmente dalla stretta contiguità tra uomo e animale. Una contiguità che ha segnato tutti i momenti dell’anno pastorale ma che qui viene in un certo senso condivisa all’interno di un più vasto gruppo.
Alla fine della tosatura la giornata prosegue assumendo più marcate caratteristiche di convivialità, di condivisione di un tempo dedicato allo svago. Il pasto, fatto predisporre dal proprietario del gregge per tutti i convenuti, è stato preceduto qualche giorno prima dalla macellazione di numerosi ovini che saranno per l’occasione consumati. Elementi principali del pranzo sono la pasta, cotta in enormi quadàri e condita entro una capiente maìdda con ragù di carne di pecora e ricotta ’nfunnàta grattugiata, e naturalmente carne di ovino bollita o arrostita sulla brace (crastagnieddu), ma anche vino abbondante e una grande varietà di prodotti della terra, olive peperoncini funghi melanzane pomodori secchi, la cui principale caratteristica è quella d’esser brucènti, piccanti oltre misura. Chi ha faticato rimanendo chino per alcune ore sui velli setosi delle pecore potrà così rilassarsi discorrendo con gli altri convitati.
Durante e dopo la manciata, come essa viene chiamata, ha una notevole parte l’intrattenimento musicale con strumenti il cui suono allieta gli astanti: la ciaramedda, zampogna realizzata con pelle rivoltata di ovino, il frautu o frautu a paru, flauto di canna semplice o doppio, l’azzarìnu o triangolo, la fisarmonica, l’organetto e il tammureddu, tamburello in pelle d’asino con sonagli in lamierino (ciancianeddi) inseriti lungo la sua circonferenza. Le melodie sono quelle tipiche di una cultura pastorale, le tarantelle e i soni a ballu, ma non mancano alcuni repertorî della musica popolare siciliana. Non sono poi infrequenti tarantelle e balli tradizionali.
Questo momento di disobbligo per una prestazione gratuita è dunque un’occasione propizia perché i pastori e le loro famiglie possano scambiarsi reciprocamente informazioni sulle attività in corso, sulla fine imminente dell’anno lavorativo e sui suoi esiti, sui progetti per la stagione successiva.
Nel frattempo, gruppetti di giovani o di adulti di tale provvisoria comunità, la cui identità è da assimilare a un brulicante puzzle umano che sempre si riunisce e sempre di nuovo si scompone, trascorrono il loro tempo giocando alla morra (a murra), un arcaico gioco delle sorti appreso dai loro padri, del quale nei nostri distratti contesti urbani si è persa la memoria. A pomeriggio inoltrato, la compagnia si scioglie, con l’impegno di rinnovare da lì a pochi giorni in altro luogo il medesimo rito.
Per quanto tali pratiche possano apparire marginali e ininfluenti rispetto a quelle che caratterizzano lo svolgimento della vita nelle città, esse ci offrono l’opportunità di cogliere, ancora in parte funzionante nei suoi meccanismi sociali, una forma di cultura che assegna valore ai rapporti umani e alla condivisione comunitaria di uno stile di esistenza. Se tuttavia le attività pastorali mantengono nell’attuale società isolana una certa importanza riguardo ai flussi economici che coinvolgono ancora oggi un notevole numero di persone, esse comunque non hanno più il ruolo pregnante che era loro proprio, nella Sicilia tradizionale, sotto il profilo socio-culturale e simbolico.
L’autosufficienza dell’universo pastorale, una volta disarticolatisi i rapporti città-campagna che ancora vigevano fino a qualche decennio fa, si è così trasformata in emarginazione. La figura stessa del pastore, ormai priva degli elementi che ne definivano organicamente la cultura – il costume, l’universo sonoro, il complesso di codici somatici gestuali e linguistici, il sistema degli oggetti – è diventata così una figura solitaria, avendo subìto un processo che ne ha fortemente segnato l’opacizzazione.
Rimangono ancora leggibili, anche se non più organicamente inseriti in una cultura, forme di lavoro, tecniche e atteggiamenti cui i pastori siciliani si sforzano di rimanere saldamente ancorati, percependo che in essi risiede, seppure in forma ormai residuale, l’opportunità di negoziare un’identità possibile.