per Luigi
di Fulvio Librandi e Vito Teti
«Tutti i gruppi umani hanno dato corso – pur nella variabilità storica, ma con uguale impegno radicale – a questa operazione che tende a fissare i segni di una mappa che possa orientare e sostenere la fatica di vivere» [1]. Lo studio dell’inquietudine come dato che accomuna le sorti degli uomini appare il tratto più costante della produzione scientifica di Luigi M. Lombardi Satriani. L’indole anarchica, che s’incontrava con la sua incontenibile curiosità, lo ha portato a indagare nel tempo campi del sapere diversi, e tuttavia i suoi scritti, valutati nell’insieme, trovano sempre un punto di coerenza nell’idea che la fatica di vivere, per qualunque uomo che viene gettato nel mondo, è tanto un destino, quanto un ethos.
Un seme di questa riflessione s’individua già negli scritti di formazione di Lombardi Satriani, nei quali, se il “cosa” del progetto scientifico appare ancora in definizione, il “come” ha già forma e urgenza, e corrisponde alla scelta programmatica di far coincidere la propria fatica di vivere con il proprio impegno di studioso. Aveva appena ventidue anni quando con Mariano Meligrana, il suo doppio intellettuale e spirituale, fondò una rivista dal titolo “Spirito e tempo”, poi “Voci” (rifondata in seguito nel 2005 con nuovi collaboratori). Con la parola “Spirito” intendeva la tensione all’assoluto, il debito che, nel vivacissimo ambiente intellettuale napoletano, i due giovani avevano contratto con le filosofie idealistiche e con l’esistenzialismo, con Sartre e con Musil, con Pavese e Alvaro. Il “tempo” era invece la congiuntura della vita reale, era il tempo della storia di ogni giorno in cui si dipana la vicenda dell’uomo.
L’avventura intellettuale di Lombardi Satriani si fonda su questo limen, su questa scelta cruciale: la sua riflessione, che precedentemente affrontava l’ontologia del dolore, la dimensione universale della sofferenza, ora si apriva alla sofferenza incarnata nelle persone che ogni giorno si misurano con la vita quotidiana. Questo nuovo modo di confrontarsi con la tensione all’Assoluto passava attraverso il tentativo «di tradurre la verticalità della tensione etica nell’orizzontalità dei rapporti interpersonali» [2]. Il concetto di “voce” veniva acquisendo un significato più denso: adesso al centro della ricerca si ponevano le voci di uomini «che non hanno nulla risolto e cui la vita, d’altro canto, non lascia il diritto di non sapere» [3].
Scriverà, poi, l’antropologo, ritornando con la memoria a questo periodo della sua vita: «la tensione era di tipo ‘universale’; ma il quadro di riferimento era, per Mariano Meligrana e me, la Calabria, i nostri paesi, in quanto vi eravamo nati, ma anche in quanto li avevamo scelti, vi eravamo ritornati, punti di una topografia realistica e di una geografia della memoria, e in essi – pur con interruzioni, partenze e continui ritorni – intendevamo vivere, anche se nei nostri paesi la vita è più aspra e tutto è più faticoso» [4]. È il ritorno a casa; anche ad una casa dell’anima. «Far la guardia a un paese / ché il mondo non venga / e le case spariscano / è un compito antico»[5], è questa la prima strofa di un componimento in versi in cui Lombardi Satriani riconosce il debito che ha contratto con la sua terra d’appartenenza, che intendeva ripagare, e che ha abbondantemente ripagato.
Lombardi Satriani cresce in una casa ricca di storia e di memorie, costantemente a contatto con il rispettato zio Raffaele, demologo appassionato e prolifico, che per oltre mezzo secolo si era dedicato allo studio delle tradizioni popolari. Corrado Alvaro sosteneva che non bisogna piangere di fronte a una civiltà che scompare, ma che è invece necessario «trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie»; compito portato avanti dal vecchio demologo, perché, sostiene il nipote Luigi, «attraverso l’intelligente, lunga fatica di Raffaele Lombardi Satriani la voce delle classi subalterne, con la loro cultura, è stata registrata e trasmessa»[6]. Raffaele, mentre attendeva alla compilazione della monumentale “Biblioteca delle tradizioni popolari calabresi”, era infatti consapevole dell’importanza di questo lavoro, che discuteva con una rete di intellettuali che si occupavano di cultura popolare. La sua casa era, prima ancora che un deposito fisico di memorie, un vivaio di voci, un laboratorio in cui si apriva, per una storia silente, per una voce finallora senza timbro, la nuova e rivoluzionaria possibilità di essere ascoltata.
Luigi Lombardi Satriani vive in questa casa e delle cose che questa casa fa vivere. Frammenti di giornate, incontri, letture, colloqui con persone che passavano da un luogo che era un riferimento per una rete culturale. Negli anni lo studioso sceglierà come temi della sua ricerca quegli argomenti che erano diventati suoi per inculturazione indiretta, per averli respirati, come si respira l’aria, nella casa di San Costantino. Ad esempio, si soffermerà criticamente sui racconti popolari, sulle leggende plutoniche, sulle raccolte paremiologiche; tornerà con strumenti diversi, e più volte, sulla dimensione del silenzio nella cultura folklorica, a completare nel tempo idealmente il lavoro che in quella casa era stato intrapreso da tempo. È in questo quadro critico che viene progettato il volume Diritto egemone, diritto popolare, un lavoro che raccoglie, contestualizza e analizza una serie di contributi dedicati alla demologia giuridica. Se in questo volume è preminente l’impegno filologico, lo è del pari la tensione etica: «Sotto la storia del diritto folklorico, sotto la storia mancata, c’è una presenza di popolo e di uomini che hanno disseminato di segni la loro vicenda. Tutto ciò che contribuisce a una loro interpretazione può porsi, forse, nella direzione di una storia diversa»[7].
È da considerare che gli studi di Lombardi Satriani germogliano all’interno di una temperie culturale del tutto nuova che si genera nel secondo Novecento. È il periodo in cui gli studi sul folklore ricevono un forte impulso in seguito alla pubblicazione di alcune pagine dei Quaderni, nelle quali Gramsci riflette sull’idea di “tradizione” esaminata criticamente in quanto fenomeno centrale dei rapporti tra le classi. Nella lezione gramsciana, ciò che qualifica un tratto culturale come folklorico non è l’arcaicità, né la semplicità o la tradizionalità, ma la sua collocazione nelle dinamiche dei rapporti di potere. Non più, quindi, congerie di elementi decontestualizzati, la tradizione deve essere studiata come visione del mondo e della vita di un determinato strato della popolazione che si contrappone alla parte dominante.
Occorre leggere queste parole alla luce degli studi del padre fondatore dell’etnologia italiana, Ernesto De Martino, il quale aveva sostenuto che i saperi della tradizione popolare, compresi i riti magici, costituivano una modalità di protezione della propria presenza nel mondo, una narrazione possibile, seppure fantastica, del proprio male, da cui poteva discendere la difesa non della presenza fisica, ma della presenza interiore. I riti potevano ora essere studiati come uno strumento per gestire la vita quando la vita diventava ingestibile. La realtà che i meccanismi mitico-rituali costruivano in forma appariva una fictio, ma ora non si poteva più confondere, nello studio delle cose della tradizione, ciò che è finto con ciò che è falso. La nuova idea critica del folklore sarà dunque basata sulla contrapposizione tra cultura egemone e cultura subalterna, paradigma che sarà lungamente cogente negli studi demo-antropologici italiani.
In questo quadro culturale si inserisce in modo trascinante la riflessione di Luigi Lombardi Satriani che, con i suoi volumi Il folklore come cultura di contestazione [8] e Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna [9], entra in un dibattito che non è riferibile soltanto allo specifico delle discipline demo-antropologiche ma che riguarda più complessivamente il mutamento paradigmatico dei saperi del tempo. Di certo fu nuovo il suo modo di guardare al folklore come a una cultura di contestazione e a quei saperi del popolo che, per il solo fatto di esistere, potevano essere letti come contrapposizione ai valori delle “classi egemoni”. Al contempo, e non contraddittoriamente, Lombardi Satriani rifletteva sulla potenziale funzione narcotizzante del folklore che, in determinate condizioni, sembrava favorire l’accettazione dei saperi dominanti. In anticipo sui tempi, lo studioso avvertiva il rischio che il folklore, mitizzato, non affrontato criticamente, divenisse terreno di incursione per neoromantici (coniò l’espressione folkmarket) e oggetto di uno sterile rimpianto per un buon tempo antico mai esistito.
Il dibattito, anche meramente mediatico, di questi ultimi anni conferma la sua capacità di antivedere i processi sociali. Occorre ricordare che in questo periodo il Sud entrava nel dibattito nazionale solo tramite le inchieste socio-economiche scaturite sotto l’impulso della questione meridionale o tramite le raccolte di tradizioni popolari a cui insigni demologi avevano lavorato a volte per l’intera vita. L’incapacità di far convergere queste due prospettive, la divisione tra l’economia, la cultura e la vita, comportava che le persone reali diventassero nella narrazione figure stereotipe, determinate nel loro comportamento da una tradizione senza tempo, di fatto riconducibile a un insieme di superstizioni. Rimanevano invece indagate le strategie per l’esistenza all’interno del mondo folklorico, i saperi concreti dispiegati dagli uomini per contrapporsi alla crisi di senso a cui si è maggiormente esposti quando si è in condizione di precarietà materiale.
È in questa prospettiva critica che va contestualizzata molta parte del lavoro di Lombardi Satriani. Esemplare è l’analisi della costruzione culturale dell’ambivalenza della morte nel suo libro forse più noto, Il Ponte di San Giacomo, vincitore del Premio Viareggio nel 1983, scritto anche questo insieme a Mariano Meligrana, in cui vengono esplorate le modalità possibili dell’interazione tra vivi e morti, la radicale ambivalenza della morte e del suo costitutivo portato di inquietudine. Scrive, a questo proposito, Lombardi Satriani: «La rimozione individuale e collettiva della morte non è mai operazione definitivamente vincente. La morte ritorna come spettro, presenza cangiante, che percorre sotterranei, meandri, scorciatoie e diffonde angoscia irriconosciuta, nullificando lo sforzo dell’uomo»[10]. In questo lavoro Lombardi Satriani ha spiegato come le forme rituali, anche quando appaiono bizzarre nella forma e nell’interpretazione degli uomini, siano un modo di sovrascrivere il dolore con un linguaggio di senso, di arginare l’assurdo, di proteggersi dal rischio di sradicamento.
Il titolo del libro rimanda a un mito secondo il quale, dopo la morte, l’anima del defunto compie un viaggio per raggiungere il “ponte di san Giacomo”, un passaggio spesso quanto un capello che può attraversare solo un’anima leggera, non gravata da peccati. Si tratta di un libro etnograficamente documentato, metodologicamente sorvegliato, la cui lettura è di un fascino assoluto. È un altro lavoro su un limite dell’umano, nel quale l’aldilà viene analizzato in quanto provincia di questo mondo, come uno spazio ordinato, in cui la memoria continua a essere una forma di vita residua, mentre il dialogo tra i due mondi – anche quando si configura come un monologo mascherato – è una protezione rituale contro i pericoli insiti nella devastante nostalgia dei superstiti. Altri temi avrebbe poi affrontato Lombardi Satriani nel corso del suo cammino erratico, la città [11], la malattia [12], le forme del nuovo folklore [13], più volte tornerà a riflettere sul sangue come significante [14], ma di fatto resterà costante il suo interesse nell’affrontare la dimensione dello straordinario nella vita quotidiana delle persone.
Più che una scuola, quello di Lombardi Satriani è stato un mondo, un polo che ha attratto studiosi diversi, che in modi diversi hanno condiviso una prospettiva, un lessico, un discorso. In questi ultimi decenni sono moltissimi coloro che hanno contratto con lui un debito intellettuale, a volte ripagato con monete diverse, e sono molti quelli che hanno tenuto fede ad alcune sue indicazioni di viaggio: la scelta della strada più accidentata, l’esercizio sistematico di un pensiero critico, l’idea che “guardare” è in sé un fare e, quindi, una responsabilità.
Ciò che oggi è un sapere diffuso, ciò che consente di poter dare per scontato il rispetto critico che si deve alle diverse culture, o che i riti possono avere un’efficacia simbolica, o il senso profondo di alcune logiche tradizionali, ciò che oggi è acquisizione condivisa, è frutto di un lavoro difficile portato avanti da molti studiosi, è frutto di indagini e di proposte interpretative, di organizzazione culturale, dell’impegno a guadagnare, giorno dopo giorno, il maggior numero di persone a una prospettiva critica. Di questo processo Lombardi Satriani è stato protagonista, sia come ricercatore che ha prodotto alcuni dei testi di riferimento di questa disciplina, sia come catalizzatore di intelligenze diverse, essendo nel tempo riuscito a formare scuola e a operare sul territorio in una miriade di iniziative.
Molti – studiosi, studenti, appassionati – sanno di aver contratto con lui un debito. Nella lettura di saggi antropologici, ma anche di corsivi di quotidiani, nella fruizione dei diversi media, la persona attenta riconosce spesso un’espressione, un concetto, una frase che rimandano agli studi di Lombardi Satriani, segno che una specifica tensione critica è passata anche nel linguaggio.
La sua opera, nel complesso, ha concorso a determinare e a consolidare una nuova prospettiva nelle scienze demo-etno-antropologiche, favorendo una diversa percezione della cultura popolare. In alcuni contesti – in Calabria certo, ma non solo – le sue analisi hanno influito decisivamente sul modo di rappresentare e narrare le cose del folklore e, non meno, sull’autorappresentazione dei protagonisti di determinati mondi. Ha contribuito decisivamente a promuovere le letture da Sud del Sud.
Lombardi Satriani ha declinato il suo impegno in modo diversi. È stato un caposcuola e si è speso per favorire la crescita delle materie demo-etno-antropologiche nell’università italiana, formando giovani e favorendo l’istituzione di insegnamenti di antropologia in diversi atenei. Molti di noi con Lombardi Satriani hanno potuto immaginare una strada e percorrerla, hanno avuto sostegno culturale e cura. Ma l’impegno, nella sua ottica, è stato soprattutto testimonianza.
Lontano dagli studiosi che, per convinzione e per metodo, hanno evitano di farsi coinvolgere sul campo, Lombardi Satriani ha operato con la consapevolezza che un antropologo deve rifiutare i privilegi della neutralità, proprio perché il mandato originario di questa disciplina è la costruzione dell’incontro – secondo la lezione di Ernesto de Martino – condotto «nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il ‘proprio’ e ‘l’alieno’ sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo» [15]. Nessuna neutralità, quindi, per una disciplina che deve configurarsi, anche, come una pratica di libertà.
La patria culturale di Luigi M. Lombardi Satriani negli anni è diventata sempre più ampia e sempre più composita, ma la sua casa di San Costantino si configura come il punto della mappa che sembra indicare costantemente una direzione di riferimento, quale che sia la meta del viaggio. Fu lui stesso a dirci, l’ultima volta in ci siamo incontrati, con parole ricche di pathos, che il suo axis mundi coincideva esattamente con la posizione di una poltrona posta tra due finestre della casa di San Costantino, da cui evidentemente poteva affacciarsi sulla sua intera vita.
Si è detto, all’inizio, che le forme umane dell’inquietudine, e quindi le risposte culturali, sono state il tema più ricorrente dell’itinerario scientifico di Lombardi Satriani. Parte costituiva di questa ricerca era la sua personale inquietudine, che a volte aveva la forma della malinconia, a volte della sete di vita. Quando ancora la “svolta riflessiva” nella storia dell’antropologia era lontana da venire, e quando le dichiarazioni di soggettività sembravano un pericolo per gli statuti scientifici delle scienze sociali, lui era solito affermare che «un itinerario critico, se percorso con tensione di verità, è sempre un’autobiografia»[16]. Nell’impartire il suo insegnamento l’antropologo di San Costantino non ha mai finto un distacco accademico, non si è mai nascosto dietro la sua scrittura elegante, sostenendo sempre che ogni discorso sulla sofferenza, ogni lettura del modo in cui la gente mette in forma il dolore, è sempre un discorso sulla propria sofferenza, sull’esperienza del proprio dolore.
In un passaggio particolarmente evocativo aveva scritto: «E se i morti sono i segni sotterranei della vita, in maniera ancora più fondante una fraternità interrotta dalla morte può essere segno sotterraneo della vita, ridiventare, questa volta faticosamente e amaramente, continuità, nonostante e comunque». Era un passaggio intenso della sua lezione, il rapporto con i morti che non si interrompe, il dialogo che nel tempo si riallaccia, la condivisione che diventa ancora possibile anche se in altre forme. Che è anche un modo di poter continuare a essere maestro.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Lombardi Satriani, L. M., Quando i giorni non erano ancora, IlTestoEditor, Davoli, 2015: 41
[2] Ibid.: 27.
[3] Lombardi Satriani, L. M., Meligrana, M., “Voci”, n. 3, dicembre 1960: 1.
[4] Lombardi Satriani, L. M., Quando i giorni non erano ancora, cit.: 47.
[5] Cit. in Ibid.:44.
[6] Lombardi Satriani, L. M., Il silenzio, la memoria, e lo sguardo, Sellerio, Palermo, 1979: 203.
[7] Lombardi Satriani, L. M., Meligrana, M., Diritto egemone e diritto popolare, Qualecultura, Vibo Valentia, 1975: 92.
[8] Lombardi Satriani, L. M., Il folklore come cultura di contestazione, Peloritana, Messina, 1967.
[9] Lombardi Satriani, L. M., Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Guaraldi, Rimini, 1968.
[10] Lombardi Satriani, L. M., Meligrana, M., Il ponte di San Giacomo, Rizzoli, Milano, 1982: 7.
[11] Lombardi Satriani, L. M., Nel labirinto. Itinerari metropolitani, Meltemi, Roma, 1992.
[12] Lombardi Satriani, L. M.,Boggio, M., Mele, F., Il volto dell’altro Aids e immaginario, Meltemi, Roma, 1995.
[13] Lombardi Satriani, L. M., Madonne pellegrini e santi. Itinerari antropologici-religiosi nella Calabria di fine millennio, Meltemi, Roma, 2000.
[14] Lombardi Satriani, L. M., De sanguine, Meltemi, Roma, 2001.
[15] De Martino, E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977: 391.
[16] Lombardi Satriani, Luigi M., Quando i giorni non erano ancora, IlTestoEditor, Davoli, 2015: 42.
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Fulvio Librandi, è docente di Etnologia delle culture mediterranee dell’Università della Calabria. Responsabile scientifico del Museo della ndrangheta. Si occupa di antropologia della violenza e di antropologia del diritto, con riferimento specifico ai temi della corporeità nelle situazioni di margine. Si interessa di problemi relativi alle dinamiche culturali in Calabria, in particolare delle logiche dei saperi trasmessi secondo modalità mitico-rituali. Negli ultimi anni sta approfondendo i problemi connessi alla patrimonializzazione dei beni immateriali e alla presenza nell’immaginario giovanile di tratti culturali compatibili con le logiche ndranghetiste. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Corpi mostruosi. Costruzioni simboliche su un margine della vita (2008); L’anthropos e l’antropologia nella ricerca di Luigi M. Lombardi Satriani (2018); Ritmi naturali, ritmi culturali (2019); La pietà popolare e le forme del dolore (2019).
Vito Teti, già docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017), Il vampiro e la melanconia (2018), Pathos (assieme a Salvatore Piermarini), 2019). Ha di recente pubblicato Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di Coronavirus, Donzelli, 2020; Nostalgia (Marietti, 2020); La restanza (Einaudi 2022). Autore di documentari etnografici, mostre fotografiche, racconti, memoir, fa parte di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere.
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