di Chiara Dallavalle
Il contatto con l’Alterità costringe a ridisegnare nuove forme di identificazione e appartenenza, che non necessariamente producono ansia o senso di perdita. Le varie forme di meticciato prodotte dalla globalizzazione hanno prodotto fatti culturali assolutamente nuovi e per certi versi quasi di tendenza. Il termine etnico spesso si riferisce a beni e merci particolarmente alla moda, come nel caso di raffinati ristoranti orientali, mobili ispirati al periodo coloniale e stili di abbigliamento che richiamano l’India. Anche la presenza sempre più cospicua dei migranti entra a far parte di questo processo di contaminazione culturale, laddove sempre più spesso viene riconosciuta e valorizzata l’anima multiculturale di molti territori urbani. Sono proprio le grandi città a divenire lo scenario privilegiato per mettere in scena nuove pratiche interculturali. Per contrapposizione, i piccoli centri rurali, e in particolare quelli montani, vengono ancora visti come depositari di un patrimonio culturale legato alla tradizione, le cui radici affondano inesorabilmente nel passato.
Per questa ragione, l’arrivo di non autoctoni nelle zone montane può essere percepito come una potenziale minaccia all’eredità culturale locale. Non autoctoni che negli ultimi decenni hanno in realtà contribuito ad invertire il trend demografico delle Alpi, che ha mostrato un primo timido segnale di aumento della popolazione dopo anni di declino ed emigrazioni. I monti sono oggetto di piccoli ma significativi flussi migratori in entrata, ad esempio, da quando i cosiddetti neo-rurali hanno iniziato a nutrire interesse per un ritorno alla natura in zone selvagge e scarsamente abitate. Si tratta soprattutto di persone in fuga dalla città, spesso proveniente da altri Paesi europei, che hanno trovato nella montagna un’opportunità per costruirsi uno stile di vita più in sintonia ai ritmi della natura.
Il fenomeno dei montanari per scelta si accompagna a quello dei cosiddetti montanari per necessità, ovverosia coloro che non riescono a trovare una stabilità economica altrove, e ripiegano sulla montagna in virtù dei suoi elementi attrattivi quali abitazioni a costi più bassi, offerta di lavoro in determinate nicchie occupazionali, e via dicendo. I montanari per forza sono invece i migranti forzati, che, a seguito dei vari percorsi di smistamento previsti dalla procedura di richiesta d’asilo, vengono collocati in percorsi di accoglienza ubicati in zone montane. Sono proprio questi ultimi che sempre più spesso vengono individuati come attentatori al patrimonio delle tradizioni della montagna, con il timore che mestieri e pratiche ancestralmente detenuti dagli autoctoni possano essere trasmessi a persone percepite come culturalmente agli antipodi, quando non addirittura irrimediabilmente perduti sotto la spinta del nuovo.
Questo timore si fonda sulla percezione che l’identità collettiva delle montagne sia costruita su un patrimonio culturale tradizionale caratterizzato da purezza ed autenticità, e posseduto essenzialmente dai montanari per nascita, coloro che non hanno mai abbandonato le proprie valli e che detengono tale patrimonio tramandandolo di generazione in generazione. Il concetto di patrimonio culturale è qui inteso in senso ampio, e include una vasta pletora di categorie che non si limitano solo a oggetti e edifici storicamente rilevanti, ma anche e soprattutto a tutte quelle dimensioni umane, che plasmano un territorio attraverso le attività produttive, i cicli rituali, i saperi, le relazioni di comunità (Todesco 2017). È chiaro che in questa accezione la cosiddetta eredità culturale della montagna costituisce un fattore identitario aggregante, importante per gli autoctoni, che li riconnette alla propria storia e ad una dimensione comunitaria spesso percepita come in contrapposizione alle logiche globalizzanti in cui anche la montagna al presente si trova immersa. Da qui a volte certi irrigidimenti nei confronti dei nuovi arrivati, chiusure verso i turisti stagionali, e possibili resistenze ad accogliere proposte di cambiamento provenienti dall’esterno.
In realtà l’appello ad una supposta autenticità del patrimonio culturale montano si fonda su una prospettiva che si focalizza sul prodotto finale, trascurando invece le dinamiche processuali che portano a tale prodotto. L’autenticità si connota di per sé come un concetto elusivo (Andriotis 2011), che si presta a differenti significati ed interpretazioni, e che oggi sempre più spesso viene utilizzato in riferimento alle memorie collettive attorno a cui si aggregano processi identitari locali, ma anche e soprattutto in riferimento ai flussi turistici che vogliono fare esperienza del passato. Da qui appare evidente che l’autenticità si ponga come categoria costruita socialmente e culturalmente, anziché come data naturalmente. Inoltre la tendenza a riferire l’autenticità a specifici prodotti finiti, quali siti archeologici, manufatti alimentari, tradizioni rituali e via dicendo, nega la continuità storica di quei processi di ibridazione da sempre in atto, in favore invece di una netta demarcazione tra presente e passato. Quest’ultimo rimane il depositario dell’autentico patrimonio culturale costruito attraverso millenarie sovrapposizioni di strati di conoscenza collettiva, mentre il presente spesso viene rappresentato come il nemico che pone sotto assedio tale purezza, e la corrompe attraverso le proprie logiche meticce.
Se questi meccanismi sono connaturati a qualunque fase storica di cambiamento socio-culturale (la paura del nuovo che avanza e il rimpianto per il passato), essi al presente sembrano trovare terreno fertile nelle zone montane, che si pongono di per sé come aree fragili per svariate ragioni. Da sempre territori difficili da un punto di vista morfologico, negli ultimi sessanta anni le montagne italiane hanno visto un progressivo depauperamento socio-economico, che ha portato a un lento declino demografico, in lenta ripresa solo in tempi recenti. Questa fragilità rende più forte il timore della diversità culturale, che rischia di essere quindi vista non come spinta propulsiva al rinnovamento ma come perdita ulteriore delle memorie collettive.
Tuttavia, se da un lato questo timore spesso prevale su logiche razionali che valutano anche le opportunità rappresentate dall’arrivo dei nuovi montanari (Membretti et al. 2017), oggi il significato stesso di eredità culturale non può che essere soggetto a ibridazione, a prescindere dalla presenza o meno di esterni, siano essi migranti, semplici turisti o neo-rurali. L’identità montana deve necessariamente confrontarsi con l’ambiguità e l’elusività di ciò che fino a questo momento è stato considerato autentico nella sua essenza. I processi di globalizzazione che hanno completamente ridisegnato le pratiche culturali contemporanee anche nelle zone montane, costringono gli abitanti delle valli a confrontarsi con un sentimento identitario costruito attraverso processi e pratiche completamente nuove, rendendo sempre più inadeguato invece il limitarsi a categorie di appartenenza rigide e fissate una volta per tutte.
Anche in montagna allora l’identità si scompone e ricompone, e l’appartenenza non è più uno status acquisito una volta per tutte ma un processo di negoziazione sempre aperto (Varotto 2017). Se la celebrazione della purezza culturale e l’enfasi su prodotti culturali autentici e testimoni di un passato quasi mitico, risultano essere un’interessante strategia di marketing per incentivare i flussi turistici, le pratiche quotidiane rimangono sostenute invece da contaminazioni, mescolamenti e discontinuità, in un dinamismo in cui i fatti culturali sono costantemente rigenerati. Quella che può apparire una minaccia al patrimonio culturale delle montagne in realtà si fonda quindi su un’idea fuorviante della cultura intesa come entità costituita da elementi fissi e ben definiti. Al contrario il focus è sempre sul processo e, nel caso dell’incontro tra gruppi che provengono da mondi culturali lontani, sul processo di negoziazione che porta all’enfatizzazione di determinati elementi culturali in favore di altri. Sono sempre le persone attraverso le proprie pratiche quotidiane che costruiscono la propria identità in un dinamico divenire.
Questo apre qualche riflessione importante in relazione al cambiamento culturale prodotto o indotto dall’arrivo dei migranti – forzati e non – nelle aree montane. Sembra infatti possibile affermare che spesso il mantenimento vero e proprio del territorio, nella sua ampia accezione di spazio geografico, sociale ed economico, sia garantito proprio dalla presenza degli “altri”. Dai migranti che imparano a riparare i muretti a secco in Liguria, dagli stranieri che acquistano e ristrutturano case abbandonate in borgate sperdute, da chi fugge dalla città e avvia piccole attività imprenditoriali di tipo agro-alimentare contribuendo a rivitalizzare l’economia locale. L’ibridazione non è quindi solo inevitabile, ma apre anche prospettive di sviluppo e di rinnovamento in queste terre.
A questo proposito è interessante notare come spesso siano proprio i nuovi arrivati, soprattutto i cosiddetti neo-rurali, ad appropriarsi di elementi identitari della tradizione, quasi a voler riscoprire insieme al contatto con la natura anche un mondo antico ormai dimenticato e da far rivivere. Questo fenomeno si osserva ad esempio nel caso dei saperi legati ad antichi mestieri, abbandonati dai montanari per nascita e riscoperti invece dai nuovi arrivati, che si immaginano un’esistenza ridisegnata al ritmo dei cicli naturali che scandivano la vita di un tempo. Interessante è allora la domanda che si pongono Andrea Membretti e Pier Paolo Viazzo: di chi sono le montagne? Chi è titolato alla conoscenza e alla trasmissione di questo presunto patrimonio culturale montano, nel momento in cui le montagne stanno subendo così grandi trasformazioni socio-demografiche? (Membretti et al. 2017) La domanda apre interessanti prospettive di ricerca, e spazio per ulteriori analisi di un fenomeno che è in costante divenire.