Deriva autoritaria da una parte, rifiuto della politica e astensionismo di massa dall’altra, crescita dell’individualismo e della xenofobia, disoccupazione sempre alta, logoramento dei rapporti sociali, riforme imposte dall’alto rifiutando ogni confronto e Parlamento esautorato, litigi e frantumazioni all’interno dei partiti, la crescita smisurata delle disuguaglianze, corruzione ed evasione danno l’immagine di un sistema che va incontro a una deflagrazione o comunque giunto a una biforcazione: catastrofe o ricerca di nuovi equilibri e di nuovi paradigmi, a partire da una prassi politica che si fondi sulla partecipazione attiva e sull’autogoverno, per contrastare le oligarchie economico-finanziarie, tecnocratiche e politiche che dominano nel mondo.
Renzi ha messo in cassaforte la legge elettorale. La madre di tutte le leggi, in quanto elegge i legislatori, anche a detta di Renzi, avrebbe dovuto avere un consenso diffuso tra tutte le forze politiche. È stata approvata, invece, con una maggioranza risicata di 334 voti, inferiori alla stessa maggioranza di governo e con una frattura all’interno del PD. È una legge certamente migliore del Porcellum ma con tanti limiti nel metodo e nei contenuti. Se la democrazia rappresentativa non è una democrazia sostanziale e continua, bensì formale ed episodica, nel senso che, come scriveva già Jean Jacques Rousseau, subito dopo il voto, il popolo sovrano viene già espropriato, questa legge elettorale insidia alla radice la stessa democrazia rappresentativa. In primo luogo, essa prevede, al primo turno, maggioranze bulgare con il 40% dei voti e cioè con il consenso effettivo di una estrema minoranza dei cittadini, se si considera che quel 40% dei votanti va calcolato su circa la metà degli aventi diritto al voto, in considerazione del fatto che tra astenuti, schede nulle e bianche soltanto il 50% contribuisce al voto. Inoltre, pressoché la metà dei rappresentanti è nominata dalle segreterie dei partiti. La legge, è vero, consente la governabilità e dovrebbe anche evitare gli inciuci, ma consente anche di sgovernare, poiché assicura al premier semipresidenzialista un controllo totale del parlamento e del governo, di controllare la Corte costituzionale e di eleggere il Presidente della Repubblica. La legge è anche un’occasione mancata per regolamentare le elezioni primarie, per stimolare la partecipazione dei cittadini, ai quali non resta, a questo punto, che il referendum abrogativo.
Le ultime elezioni regionali e comunali dovrebbero essere un segnale allarmante per Renzi e ricordargli che, talvolta, leggi elettorali fatte in fretta e furia per esserne beneficiari, finiscono per giovare ad altri. Il M5S ha registrato un certo successo, entrando anche nelle amministrazioni regionali e comunali. Ciò mostra che il voto dato ad esso non è una semplice ed episodica testimonianza di protesta ma un consenso strutturale a un movimento che interpreta desideri di pulizia, di onestà, di coerenza. Oggi sembra che nel M5S stia emergendo una classe dirigente che si va emancipando da Grillo ed è augurabile che ciò faccia uscire il movimento dall’irrilevanza politica e costituire un’alternativa a Renzi nel ballottaggio con la nuova legge elettorale, sulla scia di ciò che è avvenuto a Venezia. Per Forza Italia e NCD è stata una debacle. Matteo Renzi ha cantato vittoria perché cinque regioni sono andate al PD e soltanto due alla destra e perché il PD, ora, governa 17 regioni su 20. Ma è proprio così? In verità, il PD ha perso circa 2 milioni di voti, ha guadagnato una regione importante come la Campania, ma col rischio di non governabilità e la perdita della Liguria. In pratica, il PD ha perso i consensi di sinistra e non ha sfondato al centro. Sull’esito dei ballottaggi, con la sconfitta, soprattutto a Venezia, a Arezzo, a Matera, a Nuoro e in tanti comuni siciliani tra cui Enna, la roccaforte di Crisafulli, dove vince un espulso dal PD, Renzi ha dovuto ammettere la sconfitta e la necessità di rinnovare il partito. Il PD ha perso, dunque, dove non vi erano candidati credibili e ha vinto dove vi erano candidati che rappresentavano il rinnovamento. Credo che Matteo Renzi dovrebbe riflettere sull’esito delle elezioni regionali e comunali, rimettendo in discussione sia il suo atteggiamento tronfio e presuntuoso, sia il suo populismo coi suoi numerosi annunci, che alla fine determinano delusioni e senso di frustrazione, quando alle promesse non seguono i fatti. Dovrebbe riconsiderare anche la sua politica economica, smettendola di fare pagare sempre i più deboli, come dimostra la recente rapina ai danni dei pensionati.
La riforma della scuola, già approvata al Senato, s’innesta all’interno della visione globale del presidente del consiglio, una concezione autoritaria e dirigista. Già una riforma della scuola approvata con la mannaia del voto di fiducia e con il popolo degli insegnanti fuori a protestare la dice lunga sulla mancanza di confronto e di dibattito. La proposta approdata al Senato ha qualche aspetto migliorativo ma qualcuno anche peggiorativo rispetto al testo iniziale del governo. La cosa più seria di questa riforma è che affronta il problema del precariato che, per anni, è stato lasciato marcire. Chi non ricorda la promessa della Moratti di eliminare il precariato entro 3 anni ? La Gelmini, immedesimata nel ruolo della falciatrice di risorse, neanche si pose il problema. Ora si dovrebbero assumere cento mila precari entro l’inizio del prossimo anno scolastico e 60 mila l’anno prossimo, ma i tempi e i modi di applicazione sembrano lasciare fuori ancora un cospicuo numero di precari. È certo una cosa positiva l’inversione di tendenza sulla raffica di tagli alla scuola verificatisi negli ultimi anni e lo stanziamento di tre miliardi. Per quanto riguarda i contenuti della riforma, essa ricalca un modello aziendalista, già tracciato anni fa a cominciare dalla terminologia (profitti, crediti, debiti, produttività ecc.). Nonostante la scuola italiana fosse stata considerata sempre un modello apprezzato e studiato all’estero, soprattutto il percorso dell’obbligo, ora si guarda agli Stati Uniti, come su tante altre cose, tranne che sulle tasse e sul controllo dell’evasione. Si precarizzano gli insegnanti, anche di ruolo, inserendoli in un elenco territoriale, da cui il Preside-dirigente, denominato “leader educativo”, può attingere, scegliendoli tra i docenti ritenuti per curriculum ed esperienza più adatti al progetto educativo della scuola e può nominare anche fino al 10% di docenti come collaboratori. Positivi sono il rafforzamento e il reinserimento di musica, arte, competenze digitali, diritto ed economia, cittadinanza, inglese e discipline motorie. Ma i presidi, nonostante le modifiche sopravvenute, restano il motore centrale della scuola. Non solo sulle assunzioni ma anche sulla valutazione degli insegnanti, sono destinati a gestire un forte potere di discrezionalità premiale e disciplinare. Ma quali sono i criteri del merito? E siamo certi che il dirigente abbia la capacità di valutare il merito? Non c’è dubbio che l’insegnante debba essere valutato ma sono altri i criteri in base ai quali debba avvenire la valutazione, tra i quali, certamente, il giudizio dei genitori, degli alunni, di una commissione collegiale di esperti. La scuola-azienda, così concepita, è costretta a dialogare con le logiche del mercato e guadagnarsi le risorse da parte dei privati. È ovvio che questi finanziano le scuole dei propri figli, da qui il rischio di istituzioni scolastiche classiste. Se le scuole degli anni ’50 e ’60 erano classiste all’interno delle singole aule di ogni scuola per riproduzione sociale, le scuole classiste di oggi saranno gli interi plessi, finanziati dai genitori facoltosi, a fronte delle scuole di serie B, finanziate dallo Stato. Inoltre, lo school bonus dei finanziatori sarà a carico della fiscalità generale, in quanto i donatori possono fruire di detrazioni fiscali fino al 65% e anche le scuole paritarie saranno finanziate a carico dei contribuenti italiani.
Ma la questione più rilevante è un’altra e meriterebbe un discorso lungo e articolato, che non può trovare spazio all’interno di un discorso più generale sugli eventi più complessi e drammatici di questi mesi. Perciò proverò soltanto ad accennarli. Quando parliamo di tutti gli argomenti trattati in questo articolo, dalla democrazia, alla legalità, al razzismo, tutti quanti facciamo riferimento alla scuola come luogo deputato a formare l’uomo e il cittadino, come una palestra di educazione alla legalità, alla solidarietà, alla giustizia, alla democrazia. E allora, una riforma della scuola che non sia un semplice provvedimento amministrativo deve mirare a cambiare la scuola nei metodi e nei contenuti, deve garantire il diritto allo studio, deve tendere a una formazione omnidirezionale, che unisca sviluppo cognitivo e affettivo, capacità manuali e intellettuali in direzione di una formazione integrale dell’individuo. Non mi pare che la riforma Renzi risponda a questi requisiti. Ed è soprattutto per questo che gli studiosi più avveduti e gli insegnanti più impegnati avversano la riforma.
Un capitolo a parte merita il cancro che sta divorando la vita pubblica del nostro Paese. La corruzione, ormai è endemica, è come un tarlo, penetrato nelle pieghe del sistema. Ovunque la magistratura metta le mani, scopre corrotti e corruttori. L’ultimo scandalo di Roma-capitale ha messo in luce un intreccio tra criminalità organizzata, consiglieri regionali e comunali, assessori, funzionari della P. A., di centro-destra e di centro-sinistra, cooperative bianche e rosse, tutti assatanati e bulimici, spregiudicati e pregiudicati come meglio non si poteva esprimere che nell’espressione “Ci stiamo mangiando Roma”. E poi voti di scambio con la ‘ndrangheta, tangenti delle Coop che speculavano sui centri di accoglienza degli immigrati, con un tariffario per ogni migrante ospitato, a partire dal centro di smistamento di Mineo, dove i bandi erano truccati, che vede coinvolto anche il sottosegretario Castiglione del NCD. Altro che la diversità invocata ai tempi di Enrico Berlinguer. Oggi, purtroppo non c’è più. Molti dei nostri rappresentanti sono più sensibili a fare affari, a usare la loro carica, non per il bene comune ma per interessi personali e senza distinzione tra partiti. D’altronde, quando non esiste più un ancoraggio dei partiti a valori e a codici etici, non ci si può meravigliare se la politica diventa pragmatica degli affari, dell’avidità di denaro, della corruzione. Lo stesso dicasi dell’evasione. In una società senza un’etica della solidarietà, della coesione, non può non prevalere la pragmatica dell’individualismo, della sopraffazione, del si salvi chi può. Ciò non significa che sono tutti uguali. Ci sono anche degli onesti tra i nostri rappresentanti, che sentono tutto il disagio di questa devastazione etica. Eppure non sarebbe difficile combattere corruzione ed evasione. Basterebbe annullare il denaro contanti e imporre il pagamento con carte di credito. Sparirebbe l’evasione ed anche la corruzione e si assesterebbe un colpo mortale anche alle mafie. Ma è del tutto evidente che non lo si vuole fare da parte dei governanti, di qualsiasi appartenenza.
A questo osceno scenario di malaffare e di corruzione va ricondotta la crescente sfiducia del cittadino, il grave scollamento dei cittadini dalla politica, che produce il fenomeno dell’astensionismo. Ritengo che rinunciare al diritto-dovere di partecipare alle elezioni sia un grave errore politico. Mi permetto di ricordare agli astenuti quanto hanno scritto sia Bertolt Brecht sia Antonio Gramsci. Il primo scriveva che «Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, delle scarpe e delle medicine, dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è un somaro, che si vanta e gonfia il petto, dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso, il corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali». Il secondo scriveva: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia… Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La massa ignora, perché non se ne preoccupa e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?… Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto… Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo…ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini».
La sostanza è che chi non partecipa non conta nulla e lascia lo spazio pubblico agli affaristi della politica. La non partecipazione indebolisce la democrazia e spinge verso una deriva autoritaria. Il rimedio non può consistere nel partito personalizzato, di un solo uomo al comando. Un premier che si dice di sinistra e che dichiara di volere cambiare il Paese dovrebbe esaltare la partecipazione, dialogare coi suoi elettori e con i cittadini che sono destinatari delle riforme. Invece ha fatto la scelta di un sol uomo al comando, producendo una crisi con l’elettorato e dentro il suo stesso partito.
Se allarghiamo lo sguardo oltre l’orizzonte del nostro Paese, assistiamo alla crisi profonda della Unione Europea, crisi di identità e di prospettiva. Così è nella gestione della questione della immigrazione, così si conferma nella vicenda del “debito greco”. L’atteggiamento ricattatorio che stanno avendo l’Europa e l’FMI nei confronti del governo di Atene, sembra che abbia una regia delle oligarchie tecnocratiche e finanziarie, per tentare di sostituire il governo, eletto democraticamente dal popolo greco. Inoltre, le politiche di austerità e di smantellamento dello stato sociale e dei diritti stanno tradendo il sogno di un Europa democratica e giusta. L’atteggiamento dell’Europa verso la Grecia risulta ancora più inquietante se si pensa che in Grecia vi sono le radici della cultura europea, che è nell’antica Ellade che sono nate la democrazia, la filosofia, la letteratura, la rappresentazione teatrale, quella Koinè diàlektos, quella radice comune di una civiltà che accomuna popolazioni diverse.
Occorre ripensare l’Europa prima che sia troppo tardi. Se non si può realizzare subito l’Europa che avevano in mente i redattori della carta di Ventotene, sulla scia degli Stati Uniti d’Europa, si tenti di giungere almeno a una unione politica degli Stati del trattato di Roma del 1950 e aperta a chi ci sta. L’alternativa ci condanna a ritornare alla sovranità nazionale con tutti i limiti e i rischi che ciò comporterà in un mondo globale.
In questo mondo di egoismi, di corrotti, di uomini in cerca di potere e denaro, papa Francesco sembra una vox clamans in deserto. Egli rende pubblica la verità nascosta dai potenti della Terra, su come funziona il mondo in cui viviamo, sul potere delle multinazionali e del capitale finanziario, il quale impone le sue regole anche all’Europa e privilegia le banche facendo pagare il conto al popolo, fino a distruggere l’intero pianeta. A dare suggello a quanto è venuto dicendo durante il suo breve pontificato, papa Francesco lancia una sfida ai potenti del mondo con la sua nuova enciclica. Il titolo Laudato si’ rappresenta una conferma e dà significato al cammino da lui intrapreso sulle orme di S. Francesco, assumendone il nome. Il pontefice si rivolge a tutti e invocando “sorella terra”, come bene comune, lancia una virulenta critica al sistema globale di sviluppo e alla finanza globale, con la cieca pulsione accumulatrice che crea spaventose uguaglianze, degrado ambientale e povertà. Il papa invita a un mutamento radicale della politica in direzione di un futuro dell’umanità più armonioso, in una terra risanata e in una visione di bellezza. Una parola che ricorre più volte e che è coessenziale al lessico francescano.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).
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tu dici cle legge elettorale è meglio del porcellum…
“ma consente anche di sgovernare, poiché assicura al premier semipresidenzialista un controllo totale del parlamento e del governo, di controllare la Corte costituzionale e di eleggere il Presidente della Repubblica”
Scusa Piero ma peggio di così?
Quanto al nostro Sciamano bianco che è proprietario qui a Roma di quasi mezza città, perchè non ci paga l’IMU e non accoglie nelle sue immense proprietà immobiliari, non solo romane, qualche decina di migliaia di profughi che sono i primi e veri poveri del nostro sfortunato mondo; sfortunato perchè quasi nessuno riesce a indicare proprio le teocrazie quali prime responsabili del lavaggio del cervello dal quale dobbiamo difenderci tutti i giorni e che generano gli orrori che vediamo??
Un abbraccio
Tullio?