Stampa Articolo

Le riviste di antropologia culturale in Italia: problemi e prospettive

9182b7ef-f723-41eb-97bf-61d930a32e57di Fabio Dei 

Muovo da una constatazione numerica: le riviste italiane nel settore M-DEA/01 o 11/A5 sono moltissime. Oltre 20 ne classifica l’ANVUR solo nella classe A (contandone anche alcune multidisciplinari); ma ne esistono anche altre che non sono (o non sono ancora) incluse in questo elenco, per scelta o per mancanza di alcuni requisiti oggettivi ma non certo per minore qualità e vivacità. Il costante incremento quantitativo degli ultimi anni è dovuto da un lato al progressivo ampliamento della comunità antropologica (come effetto di una trentina, ormai, di cicli di dottorato di ricerca e di vent’anni di corsi di laurea magistrale, anche se solo una parte minima degli studiosi così formati è stata assorbita dall’università); dall’altro lato, alle opportunità offerte dai formati digitali e dalla rete. La ricchezza del panorama dei periodici è certamente un segno di vivacità intellettuale. Non mancano tuttavia problemi, tensioni e difficoltà, che scaturiscono proprio da quelle nuove forme di produzione, trasmissione e diffusione della conoscenza che negli ultimi venti anni hanno trasformato radicalmente il volto dell’università – in Italia forse più che altrove. Organizzerò le mie osservazioni articolandole nei seguenti punti:

-          si scrive troppo e si legge poco; 

-          le valutazioni ANVUR e la natura della produzione scientifica.

-          l’accessibilità delle riviste, gli editori e la rete;

-          il sistema della peer review;

-          La lingua: italiano o inglese? 

open-access-symbol-1-2Si scrive troppo e si legge poco

Intanto, sia nel campo delle riviste che in quello della produzione libraria, la caduta vertiginosa dei costi di produzione ha portato a una moltiplicazione delle testate, delle collane e dei titoli. Le pagine vanno riempite, e non solo aumenta il numero delle autrici e degli autori potenziali, ma anche il numero di pubblicazioni che ciascuno annualmente sforna. Le call for papers si susseguono; e non c’è ormai convegno di cui non si pubblichino gli atti.  Si attribuisce spesso tutto questo alla logica del publish or perish che caratterizzerebbe un’università aziendalizzata e produttivistica. Può darsi che sia così, nella misura in cui la valutazione privilegia gli aspetti quantitativi su quelli qualitativi (sulla valutazione tornerò oltre). Ma è chiaro che vi sono spinte a scrivere molto, e ciò porta necessariamente a un abbassamento della qualità media, e a produzioni ridondanti e non sempre abbastanza curate. Per la verità, il peggio viene dalla produzione libraria.

Vi sono editori piccoli e medi, specializzati nel settore delle scienze sociali, che pubblicano senza alcun controllo sui contenuti. La verifica della qualità scientifica può essere affidata ai direttori di collana e alla peer review, qualora sia prevista (ma per i libri gli eventuali referaggi sono spesso generici, non dettagliati: i revisori non sono pagati e non possono certo svolgere il ruolo dell’editing per un intero volume, limitandosi a un giudizio complessivo sullo spessore scientifico dell’opera): ma per il resto, l’editore non controlla né il testo né le bozze. Ne escono libri pieni zeppi di refusi; e il peggio emerge nelle traduzioni, anch’esse non pagate, che non di rado sembrano fatte con programmi automatici e risultano decisamente illeggibili.

Le riviste sono mediamente più curate: si vede che c’è dietro il lavoro di redazioni serie e competenti – redazioni che fra l’altro rappresentano spesso palestre di formazione per le generazioni più giovani di studiosi che prendono confidenza con le croci e le delizie della scholarship.  Resta però il fatto che la moltitudine di periodici scientifici va a formare un quadro frammentato e poco differenziato, in cui mancano punti di riferimento unanimemente riconosciuti. In altre parole, non vi sono riviste di maggior prestigio, che tutti leggono e che offrono dunque agli autori una certezza di diffusione. La fascia A dell’ANVUR non è una garanzia in questo senso. L’altra faccia della proliferazione quantitativa è dunque il rischio che le riviste siano poco lette, anche all’interno della stessa comunità scientifica. I membri di quest’ultima sono talmente occupati a scrivere articoli, magari a leggere manoscritti per la propria rivista, o a compilare schede di peer-review, da non avere il tempo e le motivazioni per leggere ciò che gli altri producono. Il che rende a sua volta meno utile e significativo il momento stesso della scrittura. Si dovrebbero pubblicare articoli perché si ha qualcosa da dire, perché siano letti e discussi, non solo per accumulare titoli per i concorsi o per superare le “mediane”; se ciò non accade, l’intero sistema rischia di perdere senso. Sarebbe dunque auspicabile un maggior equilibrio fra “produzione” e “consumo” di prodotti scientifico-editoriali. Scrivere un po’ meno, leggere e dibattere un po’ di più. Ma sono purtroppo i criteri di valutazione della ricerca scientifica che sembrano confliggere con questo obiettivo.

logo-anvur-x-sitoLe valutazioni ANVUR e la natura della produzione scientifica

L’ANVUR ha tentato di stabilire un sistema “universalistico” e quantitativo di valutazione della ricerca e dei profili scientifici dei candidati all’ASN (e, per estensione, dei concorrenti ai concorsi accademici). Ha cercato di adattare il sistema bibliometrico alle discipline umanistiche e sociali, per le quali non era palesemente utilizzabile. Ne è risultato un metodo misto molto discutibile, in cui una oggettività numerica e analitica (il calcolo delle “mediane”) si intreccia con le valutazioni qualitative e sintetiche delle commissioni rappresentative della comunità scientifica. Tutto ciò ha spostato sulle riviste una parte importante di responsabilità valutativa: da qui la richiesta del loro “riconoscimento” e l’istituzione della “classe A”.  Quest’ultima dovrebbe garantire la serietà, solidità e attendibilità scientifica degli articoli anche senza bisogno di una ulteriore valutazione. Dovrebbe; perché sappiamo benissimo che non è così. Per fortuna le commissioni dell’ASN continuano a usare criteri qualitativi, che sono sempre meglio (anche considerando la variabilità dovuta a fattori soggettivi, di scuola etc. etc.) del puro automatismo.

Non è che le riviste non siano adeguate a questo compito: i filtri di qualità che molte di esse (forse non proprio tutte) applicano sono spesso attenti e rigorosi. Ma le riviste non sono fatte per questo: specie in campo sociale e umanistico, non dovrebbero rappresentare semplici depositi di “prodotti”, ma strumenti di dibattito, di scambio, di diffusione di informazioni e idee. La logica ANVUR tende sottilmente a cambiarne la natura. A partire dal fatto che privilegia il format del saggio classico e ignora o mette in secondo piano contributi di altro tipo, come le recensioni, le note di dibattito, le edizioni di fonti, le rassegne bibliografiche  etc. Non credo ad esempio ci sia bisogno di ricordare che le recensioni hanno rappresentato (e malgrado tutto continuano a rappresentare) un aspetto cruciale del dibattito scientifico: ma  oggi sono decisamente scoraggiate, e a meno che non assumano la forma di una essay-review, è come se non esistessero per il sistema di valutazione.

Così come non ha più alcun riconoscimento la figura del curatore di numeri monografici (o di volumi collettanei). L’ANVUR considera il curatore come un mero assemblatore di “prodotti”, che al più si limiterebbe a uniformare le norme editoriali. Ignora così che si tratta in molti casi di un lavoro di fondamentale importanza, che implica la profonda conoscenza e la mappatura di un campo di studi, la redazione di una call for papers o comunque la costruzione di una rete di relazioni scientifiche nazionali e internazionali, un eventuale lavoro di traduzione, il commento alle prime versioni dei saggi e il confronto con autori e revisori, e insomma tutti i fondamentali  della scholarship. Qualcosa che è spesso più impegnativo e caratterizzante persino di una monografia.

Dall’altra parte, i numeri miscellanei delle riviste sono spinti ad assumere la forma di collazioni di saggi slegati, mentre sono scoraggiate le “rubriche”, fatte spesso di brevi interventi che resterebbero invisibili alla griglia valutativa. È anche per questo motivo che sempre più raramente le riviste riescono ad alimentare gli aspetti più vivi e attuali del dibattito, sostituite in questo da blog o persino da pagine di social media, più agili e non soggette ai tempi lunghi dell’editing e soprattutto ai filtri della valutazione ufficiale.

A me pare anche che rappresenti un problema la crescente, implicita o esplicita, richiesta di standardizzazione dei saggi, ai quali si richiede un format molto rigido: una certa lunghezza, una struttura espositiva e argomentativa che dev’essere sempre la stessa (nell’articolazione di premesse teoriche, dati empirici, “interpretazione”, “conclusioni”), una certa modalità di citare e utilizzare note e rimandi bibliografici. Questa è in realtà una tendenza internazionale, che parte principalmente dalle riviste anglofone, e che il sistema di peer review tende ad accentuare. Può non essere un male che gli studiosi più giovani e in formazione dispongano di modelli o template che aiutano ad esser chiari, a non disperdersi etc. Ma bisogna anche ricordare che secondo questi criteri quasi nessuno dei grandi saggi che hanno fatto la storia dell’antropologia sarebbe apparso pubblicabile. Reviewers coscienziosi avrebbero detto a Mauss che bisognava accorciare il Saggio sul dono; a Lévi-Strauss che in Le gesta di Asdiwal manca una chiara premessa teorica, ci sono troppi schemi e le conclusioni sono appena abbozzate; a de Martino che nelle Note lucane occorre specificare meglio la metodologia della ricerca sul campo e uniformare il sistema di citazioni, e così via.     

screenshot-2023-01-11-alle-12-36-42-1024x1024L’accessibilità delle riviste, gli editori e la rete

C’era una volta un magico reame in cui le riviste si stampavano, i lettori si abbonavano, oppure le si trovava in libreria dove si potevano avidamente sfogliare; o ancora si potevano trovarne polverosi vecchi fascicoli nelle biblioteche, e si cercava di fotocopiare gli articoli principali, magari aggirando con giochi d’astuzia i controlli sulle norme del copyright. Fare una rivista implicava accordarsi con un editore e garantire un certo numero (almeno alcune centinaia) di abbonamenti. Gli autori ricevevano una ventina di copie di un fascinoso e profumato oggetto chiamato estratto. Oggi di tutto questo c’è ancora qualche traccia, ma la logica del sistema è completamente cambiata. La distribuzione e l’accessibilità delle riviste si articola lungo un continuum che va da quelle interamente digitali e presenti in rete in full open access a quelle ancora solamente cartacee. Ormai rarissime queste ultime, sempre più diffuse le prime. In mezzo, riviste che continuano a stampare, sia pure in tirature molto ridotte e destinate alle poche biblioteche che ancora acquistano il cartaceo, e al contempo distribuiscono in formato digitale.

Per le riviste internazionali in lingua inglese, la distribuzione digitale è organizzata attraverso alcuni grandi editori e alcune grandi banche dati, cui si può accedere con le credenziali delle principali università, oltre che ovviamente con abbonamento privato (per non parlare delle diffuse forme di distribuzione “pirata”, che si giustificano in nome della libertà di accesso ma rischiano anche, in tempi medio-lunghi, di compromettere la sostenibilità dell’intero sistema editoriale). Nei Paesi dell’Europa continentale la situazione è assai più difficile e frammentata. Il paradosso è ad esempio che in Italia può esser molto difficile avere accesso a riviste italiane. La principale piattaforma di distribuzione digitale è “Rivisteweb”, che include i periodici di Il Mulino e Carocci (quelle specificamente antropologiche sono L’uomo e Rivista di antropologia contemporanea, ma anche Studi culturali e Etnografia e ricerca qualitativa includono contenuti M-DEA); il portale consente l’acquisto di singoli articoli, ma la gran parte degli accessi avviene attraverso gli abbonamenti delle istituzioni accademiche. Sulla più famosa piattaforma di storage delle riviste, JStor, mi risulta siano presenti solo La ricerca folklorica e Lares, con un embargo di tre anni (al fine di proteggere gli abbonamenti alle annate correnti). Per il resto, la situazione è molto frammentata. La situazione italiana è caratterizzata dall’assenza di grandi editori universitari: le riviste sono spesso affidate a piccoli editori o realizzate in proprio, ed hanno dunque difficoltà a investire in tecnologie informatiche.

Ma oggi le cose stanno ancora cambiando. Le politiche europee di sostegno alla ricerca spingono per generalizzare l’accesso libero ai prodotti della ricerca che gode di finanziamenti pubblici. Dove siano presenti editori, questi non possono limitare i diritti di diffusione e imporre dunque un copyright riservato. Ciò sta spingendo i maggiori editori internazionali a introdurre la formula del cosiddetto Gold Open Access: gli articoli sono scaricabili gratuitamente in full text a fronte di un contributo economico dell’autore, o APC (Article Processing Charge). Si tratta di contributi piuttosto consistenti, che ad esempio per Cambridge University Press superano i 3 mila euro (un finanziamento che in Italia copre di solito il costo di una intera monografia). Per gli autori l’alternativa è il Green Open Access, che non prevede contributi e consente di rendere pubblico e condividere solo il preprint dell’articolo (ad esempio su social media tipo Academia.edu), ma non la versione editoriale finale. Insomma, si rovescia integralmente la logica precedente: a pagare non è più il lettore ma l’autore, tramite fondi che le Università iniziano a mettere a disposizione proprio a tale scopo.

Anche in Italia si sta iniziando a sperimentare il sistema, nell’ambito delle monografie oltre che su quello delle riviste. Difficile dire quanto e come potrà impattare sulla nostra organizzazione editoriale. Le case editrici sapranno adattarvisi, o ne saranno messe in crisi? In apparenza si tratta di modalità dirette e democratiche di pubblicizzazione della ricerca. D’altra parte, però, non si può non riconoscere che gli editori hanno avuto un ruolo enorme e spesso molto positivo nell’organizzazione della cultura: non li possiamo certo considerare come predatori in caccia di profitto in un mondo di conoscenze altrimenti pure e disinteressate. Non credo sia facile sostituirne la funzione. E c’è inoltre l’incognita sulla durata e sulla conservazione di riviste e libri in formato puramente digitale. La carta si conserva per secoli, questo lo sappiamo. Quanta durevolezza possano avere i formati digitali è ancora un’incognita. Se una rivista on line chiude e il suo spazio web scompare, chi ne garantisce la consultabilità? In che modo fra un secolo tutti i materiali che si producono oggi saranno disponibili? (ammesso, beninteso, che fra un secolo ci siano ancora i pc, il web e l’energia sufficiente a farli funzionare, e che ci siano ancora l’antropologia e le scienze sociali).   

9788815242761_0_500_0_75Il sistema della peer-review

La pratica formalizzata e sistematica della peer-review è una delle novità più significative che negli anni Duemila ha investito l’ambito delle riviste scientifiche. Non è che prima il “referaggio” non esistesse. Direttori, redazioni, comitati editoriali esaminavano gli articoli ricevuti, li discutevano, li criticavano, proponevano revisioni; e come si fa oggi, si ricorreva a consulenti e esperti esterni su campi specialistici. Dalla qualità degli articoli pubblicati dipendeva ovviamente il prestigio della rivista. L’istituzionalizzazione delle peer-review ha reso questo processo più generalizzato e formalizzato. Ogni rivista ha la sua scheda, contenente alcune voci analitiche a risposta chiusa e uno spazio per i commenti liberi. Compilare queste schede è diventato ormai un impegno di tempo e di energie piuttosto consistente per ogni studioso (molto consistente, se vi si aggiungono le revisioni di tesi di dottorato, quelle per la VQR eccetera). Accettare questo compito e svolgerlo seriamente (cosa che non sempre accade) è una riconosciuta modalità di partecipazione alla comunità scientifica.

Il sistema sembra nel complesso funzionare, ma non mancano falle piuttosto evidenti, che cerco di segnalare. Primo, il referaggio è davvero anonimo? Se la direzione della rivista è attenta e corretta, l’identità dei reviewer resta effettivamente protetta. È più difficile che lo resti quella dell’autrice o dell’autore, anche quando il suo testo venga fatto circolare in una versione rigorosamente purgata da ogni riferimento personale, sia nei metadati del file che nei riferimenti bibliografici. In una comunità di studi piccola come quella dell’antropologia italiana, è quasi impossibile non riconoscere l’autorialità sulla base dei contenuti trattati e del campo di ricerca. Secondo punto: in che modo la direzione della rivista si rapporta alle valutazioni dei revisori? Mi pare vi siano diversi stili o strategie. Da un lato, vi sono comitati direttivi e redazioni che interpretano il loro compito come puramente di mediazione fra autori e revisori; dall’altro, quelle che sono invece più interventiste, che accentuano o attenuano le osservazioni critiche, cercano di accordarle tra loro (non di rado capita che due diversi revisori avanzino critiche o richieste di cambiamento contrastanti), ne aggiungono di proprie. Personalmente, propendo per questa seconda strategia: mi pare che la direzione e la redazione non debbano e non possano abdicare alla loro responsabilità nei confronti di quanto viene pubblicato. Come detto, le riviste non sono puri depositi di testi, ma strumenti di una politica culturale che non può essere interamente delegata ad arbitri esterni (c’è da dire che qualche volta la responsabilità viene assunta indirettamente proprio nella scelta dei revisori, visto che ce ne sono di notoriamente più severi e più lassisti…).

Terzo punto: nel caso, molto frequente, che i revisori chiedano modifiche al testo come condizione per la pubblicazione, come viene valutata la seconda stesura che gli autori sottopongono?  Di norma, viene inviata di nuovo ai revisori per un controllo; ma – almeno nella mia esperienza – questa seconda fase è spesso più superficiale. Il che getta un’ombra di ambiguità sulle valutazioni che richiedono cambiamenti massicci e sostanziali al testo, mettendone radicalmente in discussione la validità metodologica, la solidità dell’impianto teorico etc. Spesso questi giudizi sono dati per evitare una bocciatura troppo netta: eppure, quando i vizi sono strutturali, dovrebbe esser chiaro che una semplice revisione del testo non sarà sufficiente a emendarli. Sarebbe più onesto verso gli stessi autori dirlo con chiarezza e invitare a ripensare l’intero testo (o l’intera ricerca) dalle sue basi. Su tutti questi punti c’è in giro una variabilità di stili e comportamenti forse un po’ eccessiva (può accadere così che lo stesso articolo, respinto da una rivista, sia accettato senza variazioni da un’altra). Non sarebbe male se le riviste si coordinassero, arrivando a stabilire linee guida comuni nel rapporto con autori e revisori.

rf01_copLa lingua: italiano o inglese?     

È il dilemma di ogni redazione: pubblichiamo solo in italiano? Solo in inglese? In italiano e in inglese, e magari anche in altre lingue? È chiaro che usare solo l’italiano limita la potenziale audience. Il prestigioso modello delle scienze dure, dove si pubblica ormai quasi tutto nell’unica lingua veicolare internazionale e dove la comunità scientifica pensa se stessa su scala globale, si fa sentire anche nel campo degli studi umanistici e sociali. Dove però si pongono alcuni problemi, sia pratici sia più ampiamente epistemologici. Partiamo da questi ultimi. Anche senza scomodare Writing culture, sappiamo bene che la produzione scientifica in antropologia culturale si lega strettamente a una dimensione linguistico-letteraria, molto più di quanto non accada in medicina, biologia o fisica (anche se, pure in questi casi, non è inesistente).

La ricchezza della descrizione etnografica, delle interpretazioni dei significati dei fenomeni culturali, delle cornici teoriche proposte etc. dipende in buona parte dalle risorse linguistiche utilizzate, dalle capacità stilistiche, espressive, persino evocative degli autori. Basta pensare alle opere di de Martino: il loro successo non dipende forse dalle sue straordinarie capacità di prosatore scientifico? Certo, ne abbiamo oggi ottime traduzioni in inglese e in francese. Ma il punto è: avrebbe potuto pensare quelle opere non utilizzando la sua lingua madre? Insomma, ci sono tradizioni di cultura umanistica che sono legate a una lingua specifica, e che non è possibile né giusto disperdere all’interno di una produzione tutta piegata su stili espressivi piatti e standardizzati. Perché poi non è l’inglese letterario quello che si usa nelle riviste, ma una lingua intermedia, impoverita su gerghi vagamente tecnici, non di rado maccheronica nella sintassi e nelle scelte lessicali. Il che porta anche ai problemi pratici: in che misura nelle riviste italiane vi sono le risorse per un controllo linguistico adeguato sui testi pubblicati in inglese? Vogliamo sprovincializzarci, giusto: ma cosa c’è di più provinciale che voler “fare gli americani” senza averne i mezzi?  Credo in ogni caso che sia giusto muoversi su entrambi i versanti, senza confonderli. Portare avanti da un lato una produzione scientifica in lingua italiana, ben innestata su una tradizione che sarà oggi poco conosciuta sul piano globale, ma ha una sua solidità e originalità ben configurate che sarebbe stupido disperdere. Dall’altro lato, lavorare a progetti editoriali in lingua inglese volti a far conoscere gli aspetti più rilevanti della cultura antropologica nel nostro Paese: progetti sui quali, a mio avviso, dovrebbero impegnarsi in particolare le associazioni professionali.

cover-ossimoriLa standardizzazione e le idee

Tutti gli aspetti finora discussi hanno come sfondo un processo sempre più ampio di standardizzazione delle strategie editoriali, delle politiche accademiche, degli stili della ricerca scientifica, dei format di scrittura. Persino i rapporti fra redazioni e autori sono sempre più automatizzati, tramite piattaforme che gestiscono ogni aspetto del trattamento di un articolo, dalla submission ai referaggi alla correzione delle bozze. Ora, la standardizzazione va bene, è una strada inevitabile da seguire. In questa direzione va del resto anche la proposta che ho sopra avanzato, di un coordinamento fra le diverse riviste per stabilire linee guida riguardo ai referaggi, e non solo.  Ma bisogna capire quanto e come la standardizzazione è compatibile con la funzione essenziale delle riviste, che è quella di produrre idee, sollecitare la discussione, aprire nuovi scenari. Faccio un solo esempio. Il n. 1 di La ricerca folklorica, 1980, era stato costruito da Glauco Sanga come una rassegna delle posizioni dei più importanti studiosi italiani su quello che era il tema del momento, la cultura popolare, sulla base di una griglia di domande inviate dalla redazione. Ne risultano 18 brevi interventi, che hanno suscitato al tempo ampia discussione e rappresentano oggi un caposaldo della storia degli studi. Potremmo realizzare oggi un format del genere? Solo con grande difficoltà e aggirando ogni criterio “normalizzante”: tanto per cominciare, i testi non hanno la forma del saggio e non potrebbero esser sottoposti a referaggio. E poi, come sarebbe possibile “spacchettarli” per l’inserimento sulle piattaforme di distribuzione e la vendita articolo per articolo? E a quali condizioni gli autori avrebbero il Green o il Gold Open Access?

Insomma, accanto a un sistema di riviste scientifiche globalmente standardizzato, è opportuno e utile che si mantengano iniziative meno formalizzate, nelle quali la “conversazione” disciplinare e il confronto delle idee possano più liberamente fluire. Anzi, i due processi sono forse complementari, facce della stessa medaglia: più la componente “ufficiale” si ingessa, più vi sono stimoli a creare qualcosa di diverso – di “deanvurizzato”, se vogliamo dir così.  Mi sembra questo lo spazio in cui si colloca oggi Dialoghi Mediterranei: che a me ricorda un po’ la mia “prima” rivista, quell’Ossimori diretta da Pietro Clemente negli anni Novanta, nella quale sono maturati i miei entusiasmi antropologici (ne ho parlato di recente proprio su Dialoghi n. 57 (settembre 2022). Era una rivista fatta di un solo saggio, e poi rassegne, commenti, un “caleidoscopio” di note e recensioni, le lettere al direttore, uno spazio per giochi linguistici e divertissement antropologico-letterari. Tutta roba che oggi non avrebbe corrisposto a nessun format stabilito, a nessun criterio di valutazione: ma, accidenti, traboccante di idee. Ci fosse stato il web, forse Ossimori sarebbe andata oltre il suo decimo numero (al quale si è invece fermata). Lunga vita allora a Dialoghi, che con la ferrea precisione del suo direttore arriva sui nostri schermi ogni inizio di bimestre, ogni volta ricca e densa di sorprese.

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

______________________________________________________________

Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017), James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura (Carocci 2021). Dirige la Rivista di antropologia contemporanea.

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>