per Luigi
di Gianluca Martini
Ho accolto al tempo stesso con entusiasmo e timore l’opportunità di dare, da studente neolaureato, un contributo personale sulla figura di Luigi Lombardi Satriani. L’entusiasmo ha prevalso, ma il timore mi obbliga a fare una breve premessa retrospettiva, prima di declinare queste pagine verso una restituzione, sia pure parziale, del mio incontro e del suo lascito: una lunga testimonianza autobiografica videoregistrata, suo ennesimo e purtroppo ultimo gesto di cura e attenzione nei confronti di uno studente.
L’incontro si potrebbe configurare su tre livelli: con il “professor” Lombardi Satriani – come l’ho conosciuto da studente frequentante; con Luigi Maria Lombardi Satriani – come l’ho conosciuto attraverso la lettura integrale dei suoi testi; con Luigi – come ha voluto che lo chiamassi fin dall’avvio della nostra brevissima, per me intensissima frequentazione. Tre livelli sostanziati da tre lunghe interviste, che hanno rappresentato il cuore del mio lavoro, una tesi di laurea dal titolo Il Campanile di San Costantino. Antropologia e autobiografia nell’itinerario critico di Luigi M. Lombardi Satriani, discussa il 19 gennaio 2022, di cui la professoressa Laura Faranda è stata relatrice e il professor Antonello Ricci correlatore.
La tesi ha rappresentato l’atto finale di una gestazione più che ventennale: il mio curriculum di aspirante antropologo aveva subìto infatti una brusca, lunga interruzione temporale. Iscrittomi all’università nell’anno accademico 1990/1991, avevo frequentato e sostenuto tutti gli esami del corso di laurea fino al 1995, anno in cui avevo iniziato la mia tesi con Mariella Pandolfi – allora assistente della cattedra di Etnologia I tenuta da Lombardi Satriani, ma già, da buona globetrotter come lei stessa ama tuttora definirsi, con le valigie pronte sull’uscio di casa e la mente rivolta verso una nuova, brillante carriera accademica all’università di Montreal. Votata al “postmodernismo”, la mia tesi di allora avrebbe dovuto avere un titolo vicino a “Narratività e narrazione dell’incontro etnografico”. Le letture preparatorie erano quasi esclusivamente mutuate dalle correnti di pensiero dell’antropologia nordamericana. La professoressa Pandolfi – nel clima di grande respiro che si percepiva attorno alla cattedra di Etnologia I – aveva fatto di tutto per calarmi nel dibattito teorico di allora: mi spinse a fare l’Erasmus ad Amsterdam, perché lì avrei potuto incontrare e parlare con Johannes Fabian – cosa che diligentemente feci. Ci teneva a che assistessi agli incontri organizzati nella sede romana dell’École des Hautes Études e cercò di farmi avere stimoli diretti dai protagonisti del dibattito internazionale: resta indimenticato un pranzo con lei a Todi, ospiti a casa di Vincent Crapanzano e sua moglie. Le discussioni tra Mariella Pandolfi e Vincent Crapanzano sulla veranda di quel bellissimo casale umbro si sono scolpite nella mia memoria e hanno assunto nel mio immaginario una dimensione extra-temporale, sono entrati nel mio personale “mondo del mito”.
Tutto si era fermato lì, tutto è rimasto lontano rumore di sottofondo nella mia testa per venti anni, come sospese erano rimaste le mie letture, e sospesa era rimasta la mia passione per l’antropologia, mentre il mondo del lavoro mi assorbiva, assieme alla famiglia che nel frattempo nutriva la mia esistenza. Tutto sospeso, finché un altro tempo sospeso, quello della pandemia, non è arrivato a operare anche su di me una sorta di “sospensione della sospensione” – permettendomi di riflettere, consentendomi di mettere in discussione il ciclico e implacabile tempo “del fare”.
Così la mattina del 7 ottobre 2020 scrissi alla professoressa Pandolfi – con la quale ero rimasto in contatto – esprimendole la volontà di terminare il mio percorso interrotto e chiedendole consiglio su chi mi potesse dare rifugio e ascolto, nella mia eccentrica condizione di “laureando senior”. Curiosando sul sito dell’Università, avevo ritrovato due nomi a me molto familiari: Antonello Ricci e Laura Faranda, che negli anni Novanta collaboravano con la cattedra di Luigi Lombardi Satriani. E infatti Mariella Pandolfi nel rispondermi mi fece, senza esitazione, proprio il nome di Laura Faranda, consigliandomi di rivolgermi a lei. Le inviai un’e-mail e il 29 ottobre insperatamente mi rispose, fissando un appuntamento in videochiamata per il giorno seguente (si era in pieno lockdown).
Più di un’ora di rilassante, aperto e garbato colloquio bastò a imbastire le “forme del tempo” per la stesura di una possibile tesi di laurea. La professoressa aveva considerato la mia figura di studente sui generis un’opportunità preziosa per rigenerare la mia stagione didattica accompagnata da grandi maestri (per tutti, Cirese e Lombardi Satriani), e mi aveva proposto proprio quello che avrei voluto fare: una tesi su Luigi M. Lombardi Satriani, sostenuta dall’ipotesi di un suo inquadramento nella corrente di pensiero post-demartiniana. Prefigurando una lunga videointervista con il professore, mi mise a disposizione tutti i testi del suo maestro di cui non disponevo, raccomandandomene la cura (le biblioteche durante il lockdown non erano accessibili) e la lettura integrale. Il cerchio sembrava chiudersi nel modo migliore: nei vent’anni di silenzio accademico, per le sopravvenute calabrian connections che, grazie a mia moglie Consolata, mi avevano consentito di essere adottato da una famiglia calabrese (che è per sua stessa natura una famiglia allargata), il nome di Luigi M. Lombardi Satriani non era mai stato dimenticato. Avevo imparato a cogliere la sua importanza nel contesto regionale: un’importanza e un’autorevolezza che superava la sua posizione politica di senatore della Repubblica.
Il barone Luigi M. Lombardi Satriani ricorreva, con qualunque persona mi capitasse di evocarlo, associato alla nozione di “gran signore”. Così, solo il fatto di aver frequentato le sue lezioni all’università di Roma accresceva, agli occhi di parenti e amici calabresi, il mio prestigio personale.
Da studente sapevo poco della biografia di Lombardi Satriani, ma mi ero fatto un’idea del tutto personale. A lezione, il suo vestire sempre impeccabile (il fazzoletto al taschino non mancava mai), il suo anello con il sigillo nobiliare facevano pensare a una estrazione sociale dialetticamente contrapposta a quel mondo contadino che pure aveva studiato con rigore e con passione. La sua eleganza, la cortesia e la postura formale – evidente anche nei contesti più informali – ne accentuavano in tutti i sensi il tratto “signorile”: unica concessione alla comodità – forse indizio di uno schieramento politico? – erano le “polacchine” ai suoi piedi. Con le intramontabili polacchine e con un quotidiano tra le mani mi accolse a distanza di così tanti anni nella sua casa romana, il 7 febbraio 2021, dopo un colloquio telefonico per concordare il primo appuntamento in cui aveva esordito con queste testuali parole: «La voglio prima di tutto ringraziare per l’interesse che sta profondendo nei miei confronti e per il lavoro che sta facendo sulla mia opera, e sarò lieto di incontrarla».
Nel corso delle videointerviste realizzate il 7, il 19 ed il 27 febbraio 2021 il Professore non si è tirato indietro di fronte a nessuna domanda; ha interloquito con me come se fossi un suo collega, un antropologo già formato, riconoscendomi una dignità di interlocuzione che non mi sarei, francamente, mai aspettato; autorizzandomi persino a quell’intimità colloquiale che la lingua consegna alla formula io-tu. Dopo aver trascritto integralmente il testo delle interviste, sto procedendo attualmente a un montaggio selettivo della lunga e dettagliatissima autobiografia intellettuale ed esistenziale. La documentazione integrale è stata depositata nel Laboratorio di Antropologia visiva “Diego Carpitella” (Dipartimento SARAS, Facoltà di Lettere e Filosofia, “Sapienza” università di Roma) e sarà presto consultabile, su richiesta degli interessati. In queste pagine mi limiterò, necessariamente, a evocare solo alcuni passaggi, tenendo fede alla scansione tematica e cronologica dei nostri colloqui.
La prima intervista è un excursus fedele alla cronologia della sua formazione e della genesi dei suoi interessi antropologici. Vi si ripercorre la formazione universitaria in Scienze Politiche a Napoli, sul finire degli anni’50; l’insofferenza giovanile condivisa con Mariano Meligrana (cugino, compagno di studi, amico, poi cognato e coautore de Il ponte di San Giacomo [1]) verso i temi del diritto e della politica; l’interesse nascente per la filosofia – in particolare quella esistenzialista tedesca; le frequentazioni con filosofi napoletani come Paolo Filiasi Carcano; l’incontro con Mario Rossi, il conferimento della Cattedra di Storia delle tradizioni popolari presso la Facoltà di Magistero a Messina nel 1966, fino al successo del suo primo testo, Il folklore come cultura di contestazione [2]. A partire da qui prende corpo l’intensità, la ricchezza e l’assiduità del rapporto con la figura di Annabella Rossi, che l’ha introdotto al mondo intellettuale romano, sollecitandolo a frequentazioni per lui fondamentali, come quella con Franco Basaglia, con Franco Ferrarotti, Tullio Tentori, Tullio Seppilli, Diego Carpitella, Michele Risso, Michele Gandin.
[…] Andavamo la sera all’Hotel Santa Lucia, a Napoli, perché Paolo Filiasi Carcano, che era il titolare della cattedra di Filosofia Teoretica all’Università di Napoli, discuteva con i suoi assistenti – Raffaele Pucci, per esempio, che è poi diventato ordinario di Estetica nella stessa università, e Armando Catemario […] partecipavamo ascoltando, […] pienamente coinvolti […] dalla percezione della crisi, […] quindi uno smarrimento totale, il rischio del naufragio. Leggemmo Jaspers ed Heidegger, specialmente Jaspers con l’esperienza, appunto, del naufragio. Ma anche Heidegger con l’esperienza dell’andare verso il linguaggio. […] Proprio perché la sensazione di infelicità […] non è sopportabile, allora trovammo questa uscita in una riscoperta del cattolicesimo […] pensavamo a un cristianesimo più autentico. Rifarci direttamente alla parola di Cristo e alla realtà evangelica, per poi riproporre questo itinerario di luce e di verità a noi stessi e ai nostri contemporanei. Dico questo per dire l’orizzonte culturale ed etico che ci spinse, che spinse Mariano Meligrana e me, a fondare una rivista Spirito e tempo […] Mariano e io avremmo scoperto la funzione del diritto quando ci occupammo del diritto popolare […].
[…] Ritornando agli anni lontani di San Costantino di Briatico, in una casa solitaria. Perché io sono nato nel 1936, ma dopo tre anni e mezzo mia madre è morta, e aveva 28 anni. […]. Questa è un’esperienza che mi ha segnato in maniera decisiva. […] Dopo 10 anni, muore mio padre […] e io vivo il resto […] dell’infanzia-giovinezza, con i fratelli di mio padre, uno dei quali è Raffaele Lombardi Satriani, ai quali […] in un certo senso mi aggrappo perché sono l’ancora nella vita. E allora inizia un periodo che adesso giudico felice, e al quale torno spesso col pensiero o nei sogni di notte. […] Con Mariano […] ci preparavamo agli esami di un nuovo corso di laurea, perché ci eravamo iscritti ambedue all’Università di Messina. […] A Messina abbiamo dato alcuni esami […] nel 1965 […] ho l’incarico di Storia delle tradizioni popolari […] e scrivo una dispensa […] Il folklore come cultura di contestazione […]. Questa prospettiva ha un enorme successo, non solo accademico. Agevolato anche dagli anni: è stata una congiuntura fortunata. […] in quegli anni si respirava un’aria di libertà, di volontà di rottura degli schemi tradizionali, un rinnovamento profondo della società italiana. […] humus di grande accettazione della mia proposta. […] un successo che sorprese pure me […].
[…] Folklore e profitto [3], che è un altro mio libro molto fortunato, perché parlava della utilizzazione da parte della cultura del profitto anche delle spinte eversive, delle proposte che nascono con una connotazione rivoluzionaria, e finiscono per essere riassorbite dal sistema. Scrivevo questo perché mi aveva colpito la parabola della fortunata esperienza di Basaglia, Franco Basaglia, il noto psichiatra, che io avevo conosciuto e di cui ero diventato amico. Veniva spesso a Roma, e io l’ho conosciuto tramite Annabella Rossi, poi ci siamo incontrati più volte, venne a casa mia a via Aurora, e mi propose di fare una ricerca assieme in un villaggio calabrese per mostrare come anche un paese, come il manicomio, fosse un’istituzione totale – la “teoria delle istituzioni totali” di Basaglia, istituzioni che bisogna rompere per fare comunità aperta. Questa proposta poi non ebbe seguito, e me ne rammarico perché questa sarebbe stata un’esperienza di lavoro interessante, e anche il libro sarebbe stato interessante […].
Con Annabella ci incontriamo dopo che era stata pubblicata quella dispensa: Il folklore come cultura di contestazione di cui parlavo poco fa. […] Lei lo aveva avuto, era rimasta colpita, e mi voleva conoscere. […] mi telefona, e dice che mi vuole incontrare. Io un giorno vado a Trastevere, […] dove lei abitava con Michele Gandin, che era il suo compagno […]. Le busso, lei mi apre e, mi ha raccontato dopo, resta colpita. Le dico “perché?” – “Perché io mi aspettavo di vedere … mah, un calabrese, così sai, un po’ selvaggio, un po’ rozzo”, (anche gli antropologi possono essere oggetto di stereotipi o condizionati da stereotipi) “invece mi è apparso davanti alla porta un Lord inglese”. Perché ero vestito non male, ero dai lineamenti piuttosto fini, e questo colpì molto Annabella. Ma questo è un piccolo particolare. […] si sviluppa un rapporto che è di lavoro ma è anche di grande familiarità, […] anche perché a me faceva piacere vedere come casa sua fosse un crocevia di personaggi […] era il centro di vivacità intellettuale e di curiosità. Per fare degli esempi, Roberto Leydi […] Ferdinando Scianna […]; Franco Basaglia, quando vince la cattedra, venendo a Roma, passa da Annabella Rossi, lo conosco, e poi verrà a casa mia come dicevo prima; Guido Aristarco […]; Franco Ferrarotti, già cattedratico di Sociologia a Roma, in quegli anni vuole fare delle registrazioni all’Albergo dei poveri a Trastevere – si traveste da mendicante e va’ a fare esperienza sul campo come barbone – però la sera passa da Annabella Rossi; e così Simonetta Piccone Stella, […]; ancora Anna Maria Levi, la sorella di Primo Levi […]; Roberto Giammanco, autore del libro Black Power, […]. Tutto questo mondo di intellettuali, operatori, etc., ruotava attorno alla casa di Annabella che diventava così un’occasione di incontro per tutti, ma anche di progetti di ricerca. Per esempio, uno dei frequentatori era Michele Risso. Michele Risso un etno-psichiatra […] che partecipò con Annabella e me alla visita, a Serradarce, di Giuseppina Gonnella, […] e ne facciamo oggetto di una comunicazione per un convegno che si tiene in Germania [4]: Estasi e possessione. Pubblichiamo una relazione a tre firme: Michele Risso, Annabella Rossi e Luigi Lombardi Satriani […].
Parlavo del sodalizio intellettuale con Annabella e del fatto che noi lavorassimo insieme […] alternativamente al lavoro dell’uno o al lavoro dell’altro: e allora così io collaboro con lei quando scrive Le feste dei poveri [5], e lei collabora con me quando io scrivo Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna [6] che è la trasformazione della dispensa Folklore come cultura di contestazione – arricchita e ampliata con una serie di altre considerazioni. Quindi questi due libri sono frutto di una nostra intensa collaborazione. A doppia firma scriviamo anche una serie di articoli […] ed una serie di brani dedicati al folklore che appaiono in una collana di testi sulle coste italiane che Italo Insolera pubblica per un grande editore […] .
A doppio nome anche un saggio che scriviamo in seguito al terremoto nella valle del Belice. […] Ferrarotti, che è stato sempre uno studioso molto abile nel cogliere e nell’intercettare le realtà del momento, ci aveva detto: “se voi andate io pubblicherò il vostro resoconto su La critica sociologica – lo stesso discorso lo fece a Matilde Callari Galli e Gualtiero Harrison, ed infatti pubblicò sia quello di Annabella e mio che quello di Callari Galli e Harrison. […] Incontriamo questi paesi distrutti dal terremoto: è una un’umanità attonita in una condizione di “ebetudine stuporosa”, per usare un’espressione di Ernesto De Martino. Come colpiti da un’immensità di tragedia tale che non si consentono neanche un lamento liberatorio […]. Rientriamo a Roma e scriviamo Ipotesi sul terremoto in Sicilia.
[…] Forse un discorso un po’ particolare, un po’ più articolato può essere fatto su di un altro Michele: Michele Gandin. […] Veniva da un’esperienza di lavoro nei cinegiornali con Cesare Zavattini, […] autore del documentario su Luzzara, sul proprio paese, un faro nella storia del cinema, della cinematografia, e del documentarismo antropologico. Michele Gandin aveva vinto anche il Leone d’Oro di Venezia per alcuni suoi lavori nella sezione “documentari”. Era quindi uomo di grande prestigio. […] era una persona di grande umanità e anche di grande sensibilità […] .
Nella seconda intervista, meno vincolata della precedente a un ordine cronologico, l’interesse si è focalizzato maggiormente su temi politico/accademici. La nozione di militanza politica si dilata e diventa pretesto per ripercorrere il rapporto di Lombardi Satriani con il partito comunista, la cultura di sinistra, il mondo accademico, il posizionamento sociale di una certa “intellighenzia” degli anni ‘70. Un nucleo fondamentale riguarda poi il suo posizionamento all’interno del contesto scientifico, ed in particolare il debito teorico verso la figura di de Martino e il riconoscimento di una propria collocazione nel quadro di un’antropologia post-demartiniana. Parlando di de Martino l’interesse si è man mano spostato su quelle che Lombardi Satriani considerava peculiarità specifiche, sui tratti distintivi della sua lettura del fatto folklorico o di snodi critici tipicamente demartiniani, come la magia o l’accezione dell’irrazionale. Ho cercato di sollecitarlo a una autorappresentazione, a una restituzione di come fosse percepita la sua antropologia all’interno del contesto accademico – in particolare quello romano – a esplicitare le sue posizioni rispetto ai rigori di alcuni steccati, luoghi comuni e manicheismi disciplinari. Si è affrontato infine il ruolo istituzionale nelle definizioni accademiche dell’ambito demoetnoantropologico e l’intervista si è conclusa con un breve richiamo alla sua esperienza politica, dal 1996 al 2001, nel ruolo di senatore della Repubblica.
G.M. Cosa significava Roma negli anni 70 per un intellettuale […] schierato politicamente. […]?
L.S. Mi consideravo a sinistra del PCI. E questa scelta la condivisi con Annabella Rossi e con Michele Gandin, oltre che con tanti altri intellettuali che frequentavano la loro casa.
G.M. […] Che tipo di relazione e di interscambio c’era tra il partito e coloro che si definivano, ed erano, intellettuali di sinistra?
L.S. Ma, di fatto erano due mondi separati. E perciò avvenne il distacco dal Partito. Perché nelle scelte di fondo le mie posizioni non coincidevano mai con quelle del partito. […] [io ed altri eravamo] in polemica con chi riteneva che questo compito [quello rivoluzionario] lo potesse avere solo l’avanguardia operaia, gli operai. Io invece rivendicavo (sulla scorta di alcuni testi marxiani, della famosa lettera a Vera Zasulic) per i contadini questo carattere rivoluzionario […]. Potevano essere anche i contadini a fare concretamente la rivoluzione. […] io pensavo, allora, e con me tanti intellettuali di estrema sinistra, che si potesse prendere il potere concretamente e gestirlo. Gestirlo in nome del popolo, con il popolo e per il popolo. Naturalmente queste erano illusioni di un intellettuale.
G.M. Intellettuali di estrema sinistra che spesso avevano estrazione sociale distante dal “popolo”…
L.S. […] Armando Catemario che era dei Duchi di Quadri, di famiglia napoletana aristocratica, […] e io che appartenevo ad un’altra tradizione aristocratica, ma anche Galvano della Volpe, maestro indiscusso del marxismo, il grande teorico del marxismo, era di famiglia aristocratica […]. Ci sono, nella storia del marxismo, nella storia della sinistra, numerosi casi di aristocratici che in un certo senso scelgono di stare con la classe degli sfruttati piuttosto che a quella degli sfruttatori a cui appartengono per nascita.[…]
G.M. Come collochi de Martino relativamente al rapporto tra razionalità e irrazionale?
L.S. Io penso che De Martino fosse attratto dal paranormale, ne subisse il fascino ma contemporaneamente ne aveva paura, paura di essere sconfessato. Per lui, autore de Il mondo magico, erede della tradizione di Croce, il fatto di precipitare in una deriva irrazionalistica era il suo terrore, e quindi deve mettere le mani avanti. Io, anche riconoscendo a De Martino le caratteristiche di un maestro, certo non paragonandomi a lui, […], penso però che l’antropologia non sia solo scienza, sia anche arte, sia poesia, sia letteratura, che cioè possa accedere, per comprendere, a delle istanze irrazionalistiche. […]. Io credo che sia più coraggioso sfidare, attraversare questa coltre che appare di nebbia ma che in fondo ci fa vedere altro. Io so che questa è una posizione rischiosa, […] De Martino si ritrae. […] e io, in un certo senso, ho cercato, ripeto nel mio piccolo, di affrontare questo passo ulteriore.
G.M. Quale è stata secondo te la “dote” di de Martino per i suoi “eredi”?
L.S. […] Recuperarlo come lascito critico e avanzamento critico. Questo è il senso di essere post-demartiniani: riconoscersi nell’insegnamento di un maestro che collega i fatti culturali ai fatti economici, che tenta di introdurre un’istanza storicistica nel fatto religioso, cerca di vedere anche gli elementi storici che sono sedimentati nei riti religiosi o nei riti popolari. […] consapevoli che la sua lezione va portata avanti, può essere ulteriormente arricchita di istanze che De Martino comprese, ma che in un certo senso frenò, […] non si poteva non essere comunisti. Essere sconfessati dal Partito Comunista costava moltissimo […] Togliatti: […] ironizzava sulle inchieste di De Martino, che reputava paragonabili, come verità critiche, a quelle sulla pederastia passiva. [… ]
La produzione scientifica non si attesta tra cose certe e cose incerte, ma da inquietudini a inquietudini, da curiosità a sperimentazione. […] Credo che questa curiosità demartiniana abbia fatto bene perché ha prodotto persone curiose come Annabella Rossi […].
G.M. Qual è la peculiarità di Lombardi Satriani dentro questa tradizione di studi?
L.S. […] Rispetto a De Martino, non avere paura dell’irrazionale; rispetto a De Martino, in qualche maniera fare i conti anche con l’antropologia come arte, vedere anche l’apporto che all’antropologia può dare la poesia, che è un’altra maniera di declinare l’umano, di declinare il dolore […] una capacità ulteriore di penetrazione, e una capacità di testimoniare verità ancora più profonde […]. Credo che in qualche maniera si possa considerare unica questa mia non paura della contraddizione, questo mio accettare di essere così frequentemente contraddittorio. […] L’uomo è contraddittorio nel suo desiderio di immortalità, nella sua paura di morire, nel suo voler amare al di là dei limiti del proprio corpo e del decadimento del proprio corpo, e nell’assunzione dell’amore come unica fiamma della vita. Io questo credo: che siano contraddizioni radicali, inerenti all’essere umano e che, però, noi dobbiamo avere il coraggio di testimoniarle.
G.M. E l’impegno civile, politico, etico?
L.S. Anche religioso. In questo periodo opera in me anche un’istanza religiosa, di un cristianesimo autenticamente vissuto, che fa scegliere come vicino il dolore degli altri uomini, la solidarietà col sofferente. […] schierarmi con colui che soffre o per ragioni sociali e politiche, o per ragioni esistenziali. […] non solo come scoperta intellettuale scelgo l’antropologia rispetto alla filosofia, ma anche come esperienza vissuta, come “erlebnis”, come “vivere con”, non solo “vivere per”, vivere con gli altri. E questo mi viene da suggestioni certo scientifiche – De Martino e l’indignazione che avverte quando passa a Tricarico nel quartiere della Rabata – ma anche dall’esigenza esistenziale di stare con colui che soffre. E questo, ripeto, andando indietro nel tempo, lo riporto agli anni della mia infanzia. […] a San Costantino di Briatico […] il rispetto verso colui che soffre bisogna averlo sempre. Questa è stata una lezione di umanità, la lezione di condividere le sofferenze, il rispettare il dolore altrui. Questa per me è stata una lezione di vita che ancora adesso, a distanza di numerosi decenni, ancora conservo scolpita nel ricordo. […] Mi è stato ripetuto infinite volte “nessuno scende dalle vostre scale senza aver ricevuto l’obolo della carità”. […]. Io l’ho percepito sin dagli anni dell’infanzia. Che la nobiltà, la ricchezza fossero privilegi, ma di cui non inorgoglirsi mai. Da accettare, ma anche ponendo in essere dei contrappesi comportamentali tali che, in un certo senso, ne attenuassero il peso.
G.M. E si potrebbero, quindi, vedere testi fondamentali dell’antropologia di Lombardi Satriani – come, per citarne uno, “Il ponte di San Giacomo” – come un contrappeso?
L.S. Sì. Il tentare, restituendo la voce a chi voce non ha avuto nella storia, di ridare quello che io ho avuto come privilegio: il possesso dello strumento conoscitivo, per dire la propria voce e far dire la loro voce. In questa prospettiva potrebbe essere visto come un contrappeso. [l’intellettuale mette in essere un] linguaggio del potere, e quindi se potere, è anche responsabilità. Non esiste potere senza responsabilità. La responsabilità è di usare questo potere non per un proprio accrescimento […], ma per parlare appunto di chi il potere non ce l’ha, per dare […] linguaggio a chi linguaggio non l’ha avuto storicamente. […] usare la parola nell’umiltà di essere strumento di una moltitudine condivisa, non solo di un io onniloquente, onnipotente e onnipervasivo.
G.M. E tu pensi che i tuoi colleghi ti abbiano seguito in questo, oppure hai creato un movimento “tellurico” costante?
L.S. Questo non lo so. Questo andrebbe domandato a loro. Non posso rispondere io. Credo che se un insegnamento ho avuto per loro, è nell’attitudine, che ho trasmesso, a farti delle domande ed a non accontentarti delle risposte, […] a mettersi in discussione sempre […].
G.M. Un altro timore non potrebbe essere quello della disgregazione, cioè che l’interdisciplinarietà di una disciplina tra virgolette “giovane” possa non aiutarla a trovare la propria dimensione?
L.S. Credo che […] solo l’inquietudine costante possa garantirci dalle posizioni ingessate, […] da quello che chiamo pigrizia teoretica. Contro la pigrizia teoretica, l’inquietudine è l’unica garanzia. Io rivendico questo come necessità, e in qualche maniera come peculiarità di questa mia visione antropologica, nell’antropologia. C’erano steccati disciplinari abbastanza certi, adesso questi steccati in parte sono caduti. Ed è un bene. Questo crea un disorientamento maggiore. Ma come in tutti i casi, si tratta di abbattere gli steccati per poi magari costruirne strumentalmente dei nuovi, per poi di nuovo abbattere e differenziare i campi. Solo per il tempo che serve: questa è la provvisorietà della suddivisione, e in questo insisterei che può essere utile. Facciamo però che sia provvisorio.
Nella terza intervista si entra nel vivo del dibattito sull’antropologia in “stile italiano” e del destino della lettera D (la voce -demo), sintetizzato dal vivace dibattito interno alla disciplina. A partire dall’introduzione a Furore, simbolo e valore [7], prende inoltre corpo l’importanza di un altro snodo teorico imprescindibile nella produzione di Lombardi Satriani: il meridionalismo, il radicamento nella propria patria culturale per l’uomo, l’antropologo, l’aristocratico, l’intellettuale di San Costantino, calabrese, figlio del Mezzogiorno. Affiorano così la famiglia, il legame con gli ascendenti e i discendenti, il suo cattolicesimo “ereticale”, gli spazi di ulteriorità della fede.
[…] la mia personalità scientifica è indissociabile dal Mezzogiorno. Se non ci fosse stato il Mezzogiorno io sarei stato altro. Altro se non ci fosse stato San Costantino, il mio passato, mio zio Raffaele, la mia Calabria. Questo oggetto, il sud, come oggetto di un amore, di un amore persino eccessivo, come sono tutti gli amori. […] .
In questi incontri fluviali […] ho parlato sia del De Martino che scende nel quartiere della Rabata e prova la collera storica, sia del rapporto che ho avuto con la mia infanzia e con la mia origine, notando come questo mi abbia messo in una condizione di privilegio, di guardare non con l’atteggiamento di rivalsa piccolo borghese che vuole far dimenticare la propria origine contadina, e quindi deve in un certo qual modo differenziarsi, non avendo bisogno di differenziarmi. Io sono stato messo in una condizione positiva di distacco e compartecipazione, di empatia con il mondo contadino. A San Costantino vivevo in questa casa dove i contadini coloni portavano le primizie, […] però il rispetto per il contadino, per il colono, io l’ho appreso sin da quando ero ragazzo.
[…] Comunità familiare, comunità paesana, comunità estesa alla Calabria, comunità estesa al Meridione. Tutto come spazio di una cultura nella quale mi ritrovo. Tutto questo c’è sempre: il mio desiderio di comunità. Se vuoi è il desiderio di non sentirmi solo, e ritrovare comunanza, di stabilire comunanza. […] Io ho bisogno, dopo un certo tempo, di ritornare in Calabria, e di vedere quello spazio, di vedere casa mia, ma rivedere anche il mio paese, di vedere quei panorami, quei colori […] come per Heidegger si è in cammino verso il linguaggio, io posso dire che sono stato sempre in cammino verso casa. Sono partito da casa per trovare casa, in questo itinerario, per “attendarmi” […] Il processo di rendere domestico il mondo, che poi è il processo della vita: rendere il mondo abitabile.
[…] Ho avuto un’educazione cattolica. […] Una volta, andando a Messina Mariano [Meligrana] e io, Mariano disse: «noi non possiamo, se siamo cattolici, non possiamo più dirlo perché dobbiamo pagare, con il silenzio, la colpa storica che il cattolicesimo ha avuto diventando la religione del potere. E quindi, in un certo senso, adesso, dobbiamo risarcire con il silenzio questa colpa» […]
[La religiosità] ha influito nel senso che mi ha aiutato a non esercitare violenza sull’altro, ad ascoltarlo come un altro, cioè in quella pariteticità di rapporto io-tu che per essere trasceso nel “noi” deve essere un movimento dell’“io” che va verso “tu” e del “tu” che va all’“io”. In questo flusso che è di tensione, anche amorevole, assumere l’altro come altro, ma anche come un altro me. Io penso che questo sia un movimento religioso, e in questo la religione è indissociabile dall’etica.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1] Lombardi Satriani, L. M., Meligrana, M., 1989, (ed. or. Milano 1982) Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Sellerio, Palermo.
[2] Lombardi Satriani, L. M. ,1967, Il folklore come cultura di contestazione, Peloritana, Messina.
[3] Lombardi Satriani, L. M., 1973, Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, Guaraldi, Firenze
[4] Presentato al convegno internazionale Symposion Anthropologie der Ergriffenheit und Besessenheit tenutosi a Bad Homburg vor der Höhe dal 2 al 4 maggio 1968, confluì poi in Magische Welt, Besessenheit und Konsumgesellschaft in Süditalien, pubblicato nel 1972 tra gli atti del convegno del 1968; inserito, con il titolo “Mondo magico, possessione e società dei consumi nell’Italia meridionale” in Carpitella, D., 1976, Folklore e analisi differenziale di cultura. Materiali per lo studio delle tradizioni popolari, Bulzoni Editore, Roma.
[5] Rossi, A., 1969 Le feste dei poveri, Laterza, Bari.
[6] Lombardi Satriani, L.M., 1974 (ed. or. Messina 1968), Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Guaraldi, Firenze.
[7] Lombardi Satriani, L.M., 1980 Introduzione, in E. De Martino, Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano.
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Gianluca Martini, ha discusso nel gennaio 2022 una tesi di laurea in Lettere e Filosofia presso l’università “Sapienza” di Roma dal titolo “Il campanile di San Costantino. Antropologia e autobiografia nell’itinerario critico di Luigi M. Lombardi Satriani”, di cui è stata relatrice Laura Faranda, chiudendo il proprio corso di studi che ha visto un’interruzione più che ventennale. La sua formazione universitaria risale ad inizio anni ’90, quando ha frequentato il dipartimento di demo-etno-antropologia sostenendo esami tra gli altri con Alberto M. Cirese, Pietro Clemente, Ugo Bianchi. Già allora laureando presso la Cattedra Etnologia I tenuta da Luigi M. Lombardi Satriani, ha partecipato al programma Erasmus presso l’Universiteit van Amsterdam.
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