Leggo e rileggo con attenzione il testo che ho sotto gli occhi (Montes 2017a). Il senso del vivere? La vita come oggetto di studio antropologico? Leggo e rileggo per il piacere, ma anche per lasciarmi andare a una riflessione sulle operazioni mentali che volontariamente e involontariamente catturano ciò che mi è familiare o assediano ciò che mi è estraneo. Leggo e rileggo e vado con la mente ad altri testi di antropologia, altri momenti della mia vita. Altro? C’è sempre dell’altro nell’esistenza di un individuo. L’altrove è in noi, nel tempo, nello spazio, nella cultura. E io penso e ripenso e vado a immagini consolidatesi nel tempo, negli anni di studio, a lezione, su monografie e negli scambi con altri discenti e docenti.
Geertz e la lotta dei galli mi portano altrove, indietro nel tempo: un tempo che sembra bloccato dalle immagini che pur tuttavia scorrono nella mia mente e si confrontano con le foto che ho davanti. Guardo e riguardo le foto e la mia mente è sospesa per un attimo. Solo un attimo! Allora, passato l’attimo, torno a guardare le mie diapositive antropologiche imponendomi un ordine. Ne osservo la sequenza e penso ancora per flussi, nuovamente per flussi, ancora per flussi. Mi lascio andare ai miei pensieri. Thin description? Thick description? Le azioni eseguite saranno le stesse… magari io e Geertz abbiamo guardato lo stesso spettacolo… ma il significato sociale, l’interpretazione e lo slittamento culturale non erano tra i miei pensieri. Guardo? Non lo è più: il mio atto è già un ‘guardavo’, mentre un momento cede il passo all’altro. Io intanto, attimo dopo attimo, guardavo ma non osservavo un evento culturale. Per me, era uno spettacolo di intrattenimento. Non lo era?
Il tempo passa inesorabile ed anch’io – come tutti (consapevolmente o meno) – ho tessuto, nel tempo, la mia piccola ragnatela, senza tuttavia sentirmi “impigliata in una rete di significati”; semmai, mi sento intrappolata in un circuito mentale difettoso, in una lotta continua, nella ricerca continua di strategie xing/shi (Sun Tzu) e c’est porteur. Sono in divenire, mi lascio andare e lotto allo stesso tempo con me stessa. Lotto e rifletto. Non mi rassegno. In fondo, cos’è la ragnatela di cui parla Geertz se non la costruzione – spesso conflittuale – delle nostre stesse forme di organizzazione del pensiero che crediamo totalmente libere e sono, invece, più o meno adeguate al sistema della cultura? Quali spazi di libertà individuale abbiamo, tuttavia? Quale controllo effettivo abbiamo dei nostri pensieri, in ultima analisi? Non so certo rispondere. So per certo però che quando questo meccanismo di cui parlavo si inceppa (per quanto culturale e condiviso sia), inizia la nostra guerra (interiore): due identità distinte all’interno dello stesso individuo lottano l’una contro l’altra; l’alterità/Sè si sdoppia nella forma di ciò che esiste perché appare e ciò che è in quanto tale. E non è soltanto un processo che si svolge ‘nella nostra testa’. Non lo è affatto.
Lo sdoppiamento riguarda altri livelli, riguarda anche lo sguardo dell’altro su di noi (Mead 2011). Lo sdoppiamento è dovuto al fatto che l’identità passa per l’altro: il suo riconoscimento (Crespi 2004). A ben vedere, infatti, cosa hanno gli altri se non un’immagine di noi – quella che potrebbe parere la nostra identità – costruita secondo i loro schemi mentali, organizzati culturalmente. Fino a che punto, mi chiedo, questa immagine è adeguata (al nostro stesso volere)? Fino a che punto – è lecito chiedersi – questa immagine è percepibile, nella sua essenza, allo sguardo dell’altro? Noi non siamo mai ‘nudi’ allo sguardo dell’altro e nemmeno al nostro stesso sguardo. Un’immagine corporea (o un’identità fisica) è facilmente percepibile alla vista e ciò sembrerebbe contribuire alla costruzione di una visione statica, quasi fissa dell’identità. Ma non è purtroppo così semplice: non è mai un processo lineare, singolare o puramente individuale. Ciò che vediamo va infatti sottoposto al vaglio dell’interpretazione – come direbbe Geertz – e delle consonanze/dissonanze di sapere e credere costruite culturalmente.
Io leggo e rileggo Montes (Montes 2017a) e penso alla vulnerabilità degli individui, al loro essere in costante conflitto con malattie e infermità. Montes fa riferimento a Sacks come esempio di individuo e studioso che ha fatto della propria (e altrui) vulnerabilità un processo di assestamento e riassestamento continuo della propria identità. Per Sacks l’immagine del Sé passa al vaglio dell’immagine corporea. Il problema che pone Sacks riguarda la trasformazione dell’identità prodotta in seguito a piccoli (o grandi) cambiamenti d’ordine somatico, oltre che puramente cognitivo. Una malattia o anche un semplice acciacco impongono dei cambiamenti e al contempo una presa di coscienza – nella discontinuità esistenziale provocata dalla malattia – di ciò che noi sentiamo e percepiamo di essere (Sacks 1995). Per quanto accettabile sia questo, stupisce qualcos’altro in Sacks. Cosa, più esattamente? La risposta alla malattia da parte di un singolo individuo sembra, in Sacks, un elemento del tutto positivo perché fa riflettere sul rapporto tra soma e mente, tra percezione interna del Sé (che noi abbiamo di noi stessi) e percezione esterna del Sé (che altri hanno di noi). Non so dire se io vedo questo processo negli stessi termini ‘positivi’ in cui sembra prospettarlo sovente Sacks (per Sacks, una malattia, per quanto debilitante, diviene un percorso di consapevolezza di sé e degli altri). So bene però – su questo non ho perplessità – che il processo di acquisizione del Sé corporeo è un processo difficile che non andrebbe mai dato per scontato; non va dato per scontato nemmeno per gli adulti, nemmeno quando pensiamo che sia consolidato definitivamente. Persino un incidente puntuale, magari risoltosi felicemente, può rimettere tutto in gioco: cognitivamente ed emotivamente (Montes 2017b).
L’identità non è dunque un processo scontato, né acquisito una volta per tutte. Con i bambini, come sappiamo, si utilizzano gli specchi, le bambole e altri giocattoli come immagine speculare di se stessi, come processo in itinere attraverso il quale alterità e identità finiscono per dissociarsi e acquisire pieno significato. La funzione dell’Altro è infatti essenziale per la costruzione del Sé: alterità e identità si situano all’interno di una struttura relazionale profonda, contribuendo così alla loro reciproca costruzione. Io sono Sé e non Altro; io sono Sé e in parte anche Altro: alterità e identità si differenziano, si mescolano e infine si ricompattano sistematicamente, nel tempo. L’esempio di Sacks è quindi calzante (e al contempo sofferto) perché il neuro-scienziato traduce, nella propria pratica medica, la sua azione somatico-cognitiva in considerazione teorica da comparare con le esperienze d’altri individui al fine di ragionare sui movimenti d’identità interpersonale. Si potrebbe più in generale dire che la riflessione di Sacks, nell’arco ampio delle sue opere, ci porta a mettere meglio a fuoco il legame tra soma e cognizione, tra vulnerabilità e senso da dare all’esistenza.
Sebbene malattie e morte accomunino indistintamente tutti gli uomini, infatti, la distinzione possibile risiede nel modo in cui miti e riti vengono messi in opera, diversamente nelle varie culture, per ‘addolcire’ o ‘smussare’ il senso di vuoto o perdita provocato da malattie e morte (Van Gennep 1981). Tutti noi facciamo i conti con la (paura della) morte: «ogni società vorrebbe essere immortale e ciò che chiamiamo cultura non è altro che un insieme organizzato di credenze e riti aventi lo scopo di lottare contro il potere di dissoluzione della morte individuale e collettiva» (Thomas 2006: 16). Lottare contro la morte è un istinto naturale motivato dalla generale tendenza a sopravvivere. Detto questo, definita la cultura, rimane ancora un quesito fondamentale: perché sopravvivere in quanto singolo individuo? La risposta non è ovviamente semplice per nessuno, per nessuno studioso. E forse, per quanto mi riguarda, più che tentare di rispondere vanamente in termini di sopravvivenza, dovremmo invece vivere imparando a vivere bene, avendone coscienza, come si evince dalla lettura del saggio di Montes (Montes 2017a).
La vita non ha un senso in sé: siamo noi che la rendiamo ‘sensata’, assegnando le giuste priorità all’‘oggi’ e non soltanto al ‘domani’. La vita non si vive unicamente nella programmazione di ciò che si vorrebbe fare ma, anche, nella gioia del presente che scorre. Mi viene in mente, così, mentre leggo e rileggo, un’esortazione del carpe diem oraziano secondo cui dobbiamo goderci il ‘momento in atto’ senza pensare ossessivamente al futuro. Mi vengono ugualmente in mente, in stretto collegamento, le parole di Lorenzo dei Medici (1999): «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza». Il senso del vivere può essere incerto, aleatorio o calcolato. È indubbio. Di sicuro, però, noi abbiamo una parte importante nella sua costituzione: in parte, il senso del vivere dipende da noi. Non dobbiamo dimenticarlo. Siamo parte in causa.
Se penso alla corrente antropologica cosiddetta Writing culture, mi viene in mente l’importanza del testo e della soggettività ribadita dagli appartenenti a questa corrente, trascurata dagli autori che li hanno preceduti; mi vengono pure in mente le idee di Marx secondo cui l’Uomo è il risultato di forze economicamente produttive che, attraverso i rapporti di classe, ‘determinano’ un essere spesso privo della debita capacità riflessiva o di scelte realmente libere. Penso, al pari di Writing Culture e di Marx, che si debba combattere contro le forze che impongono, dall’alto o dall’esterno, una sola concezione dell’essere umano. Alla stregua di Montes, penso che «l’antropologia debba mostrare, da parte sua, impegno verso i vulnerabili del mondo e, allo stesso tempo, rivelare gli incastri manipolatori che vengono dall’alto» (Montes 2017a).
Penso quindi che riflettere sul senso della vita sia una magnifica ricerca da prospettare in chiave antropologica. Certo, non facile! Chiunque, un giorno, dovesse imbarcarsi in una tale impresa dovrebbe avere chiaro – lo considero un punto essenziale e Montes ne fa un elemento di forza della sua proposta – il proprio senso del vivere: un senso che, in quanto membro di una società, un individuo dovrebbe consapevolmente porre in risonanza con il senso del vivere del gruppo di appartenenza, sulla base di un metodo scientifico che dia priorità al valore del libero sperimentare: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato» (Einstein 2015). Io, per quanto mi riguarda, sono alla continua ricerca: sono in un continuo processo di ricerca. Sono felice di leggere, attraverso gli altri, i miei pensieri inespressi: perché, in questo fiume di parole empatiche, sento un senso di appartenenza profondo, quasi viscerale, pacificatore. Soprattutto, leggendo e rileggendo, pensando e ripensando, sento talvolta di dover smettere di correre, di dover smettere di andare da qualche parte per costrizione. Tutti, per un attimo, ci fermiamo e pensiamo… pensiamo. Nel presente. Tutti dovremmo farlo. Perché non farlo, d’altronde? È così essenziale correre? Per andare dove, in fondo?
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Riferimenti bibliografici
Clifford J., Marcus G. E., Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, trad. di A. Aureli e A. Perri, Meltemi, Roma, 2006
Crespi F., Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2004
Dei Medici L., Canti carnascialeschi, a cura di P. Orvieto, Salerno, Roma, 1991
Einstein A., Born M., Born H., Scienza e vita. Lettere (1916-1955), a cura di M. Dorato, Mimesis, Milano, 2015
Geertz C., Interpretazione di culture, trad. di E. Bona e M. Santoro, Il Mulino, Bologna, 1988
Hegel G. W. F., La fenomenologia dello spirito, a cura di Garrelli G., Einaudi, Torino, 2014
Marx K., Il capitale, a cura di E. Sbardella, trad. R. Meyer , Newton Compton, Roma, 2013
Mead G. H., La socialità del sé, a cura di Rauty R., Armando, Roma, 2011
Montes S., Il senso del vivere, ovvero la vita come oggetto di studio antropologico, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 27, settembre 2017a
Montes S., In contrattempo, per stereotipi e incidenti. Antropologia di un frammento di esistenz”, in Dialoghi Mediterranei”, n. 28, novembre 2017b
Popper K., Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna, 2009
Sacks O., Un antropologo su Marte, trad. di I. C. Blum, Adelphi, Milano, 1995
Thomas L.-V., Morte e potere, Lindau, Torino, 2006
Van Gennep A., I riti di passaggio, trad. di M. L. Remotti, Bollati Boringhieri, Torino, 1981
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Elisabetta Guarneri, laureata in Beni Demoetnoantropologici, è insegnante specializzata in peer education e cooperative learning. Si occupa in modo particolare di tradizioni popolari e ha un vivo interesse per tematiche legate alla memoria individuale e culturale.
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