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L’enigma del termine ṣūfī (*)

COPERTINA di  Michele Marangon

Il vocabolo ṣūfī (o mutaṣawwif), utilizzato nella lingua araba per designare gli adepti (pl. ṣūfiyya o mutaṣawwifa) delle numerose confraternite sorte nei territori islamizzati a partire dal secolo VIII dell’era cristiana, deriverebbe – dal punto di vista etimologico – da un elemento connesso all’abbigliamento dei mistici, ovvero la lana (ṣūf) in cui i loro abiti erano tessuti. Eppure, malgrado l’abbondanza di indizi che avvalorano la legittimità di tale derivazione connessa al vestiario, osserviamo che numerosi autori musulmani del Medioevo la disdegnarono, proponendo diverse alternative. Da dove nasce, dunque, l’anomalia di questo atteggiamento sprezzante nei confronti dell’interpretazione etimologica più semplice e meglio attestata?

La filiazione etimologica riferita all’abito in lana pare essere accettata dai più autorevoli arabisti europei dei secoli XIX e XX: Theodor Nöldeke, Louis Massignon, Henry Corbin, Reynold A. Nicholson e Arthur J. Arberry –  per menzionare soltanto i più noti –  concordano nel far risalire il termine al tessuto con il quale veniva confezionato il saio dei sufi (cfr. ad es. Nicholson 1914: 3, Arberry 2008: 35), denominato ḫirqa o muraqqa‘a, a seconda del caso. La parola ḫirqa, in particolare, designava una sorta di lunga tunica composta da scampoli di lana ricavati da differenti pezze di tessuto (cfr. Mansouri 2007: 53-55), sebbene alcuni indizi parrebbero datare l’introduzione di tale procedura di confezionamento, più complessa, ad un periodo posteriore al secolo IX (cfr. aš-Šaybī 1967: 54-55). Diversi trattatisti sufi medievali menzionano il rituale della trasmissione della ḫirqa dal maestro al discepolo, ritenendolo un momento simbolico in cui si sanciva definitivamente l’affiliazione dell’iniziato alla confraternita mistica. Alcuni autori fanno addirittura risalire tale pratica a ‘Alī Ibn Abī Ṭālib (m. 661), quarto califfo dell’Islam; egli avrebbe consegnato la ḫirqa a Ḥasan al-Baṣrī (m. 728), imām e asceta iracheno (cfr. Molé 1992: 58). Il martire sufi Ḥusayn Ibn Manṣūr al-Ḥallāǧ (m. 922) ricevette la tunica dallo šayḫ al-Ǧunayd (m. 910), il quale – a sua volta – l’aveva ottenuta da as-Sarī as-Saqaṭī (m. 867). Potremmo continuare con degli esempi analoghi fino ai nostri giorni, malgrado il materiale di confezionamento della ḫirqa sia variato conformemente all’epoca e al luogo. D’altra parte, come abbiamo già anticipato, molti eruditi ritennero l’allusione all’abito in lana inadeguata a spiegare l’origine del vocabolo usato correntemente per designare i mistici. Vale la pena di presentare alcune tra le occorrenze più significative di questa tendenza.

Abū Rayḥān Muḥammad al-Bīrūnī (m. 1048), illustre scienziato persiano, considera la parola ṣūfī una traslitterazione del greco σοφός – sophòs (“saggio”) (cfr. Corbin 1986: 262). Al-Qušayrī (m. 1072), šayḫ (“maestro spirituale”) originario del Ḫorāsān e autore di un trattato che prende il suo nome (ar-Risāla al-Qušayriyya fī ‘ilm at-taṣawwuf), sostiene –  da un lato –  che «non si può attestare, nell’ambito della lingua araba, nessuna referenza e nessuna derivazione etimologica per tale termine; senonché appare evidente che esso ha la forma di un soprannome o di un titolo onorifico (laqab)». Dopodiché egli sembra confermare l’ipotesi che il lemma ṣūfī derivi da ṣūf, dichiarando che «si diventa ṣūfī (taṣawwafa) quando ci si veste di lana, così come si diventa “incamiciati” (taqammaṣa) quando si indossa una camicia». Lo šayḫ soggiunge però laconicamente che i sufi «non si sono mai distinti [dal resto dei musulmani] per il loro abbigliamento in lana» (al-Qušayrī 1990: 279).

Vale la pena  evidenziare il fatto che lo stesso autore trascrive – in un capitolo successivo della Risāla – la storia della conversione alla vita ascetica di Ibrāhīm Ibn Adham (m. 777), uno dei primi sufi di cui si tramanda notizia, la quale è stata talora messa a confronto con alcuni testi agiografici buddhisti. Ibrāhīm, giovane principe di Balḫ – nel Ḫorāsān – in seguito alla percezione di una voce sovrannaturale durante una battuta di caccia, rinuncia alla sua preda; quindi, incontrato un pastore, indossa la tunica in lana (ǧubba min ṣūf) di costui, affidando al pover’uomo tutti i suoi beni (cfr. al-Qušayrī 1990: 391-392). In seguito al-Qušayrī esamina alcune derivazioni etimologiche alternative, per lo più caratterizzate da pie allusioni: il termine ṣūfī potrebbe riferirsi a ahl aṣ-ṣuffa, un gruppo di zelanti discepoli del Profeta che erano soliti sedere su una panca (ṣuffa) appoggiata al muro della moschea di Medina; oppure potrebbe alludere alla purezza (ṣafā’) dei cuori dei mistici; o potrebbe infine derivare dal fatto che questi ultimi costituiscono la prima linea (aṣ-ṣaff al-awwal) tra le schiere che contemplano la Presenza divina nella dimensione ultraterrena.

FOTO1Ciò nonostante, l’autore afferma che queste interpretazioni sono assai difficilmente accettabili dal punto di vista filologico-linguistico. Egli rinuncia quindi alla formulazione di un parere definitivo sull’origine del vocabolo in questione, poiché i sufi – a suo avviso –  «costituiscono ormai una comunità troppo conosciuta perché si senta il bisogno, per designarli, di un riferimento linguistico o di un’attestazione di carattere etimologico» (al-Qušayrī 1990: 279). Ibn az-Zayyāt at-Tādilī (m. 1231), agiografo marocchino, attribuisce al termine una connotazione etnica, affermando che Ṣūfa fu il nome di un clan dell’antica tribù araba di Tamīm (cfr. Mansouri 2007: 54).

Ibn Manẓūr (m. 1312), celebre lessicografo e autore del Lisān al-‘Arab – uno tra i più autorevoli e completi dizionari della lingua araba – conferma l’accezione riportata da at-Tādilī, ma ne aggiunge anche delle altre: secondo una di queste, erano detti aṣ-ṣūfān i responsabili della gestione della Ka‘ba durante il pellegrinaggio alla Mecca in età preislamica. Questo appellativo sarebbe derivato dal soprannome Ṣūfa, attribuito ad un certo Ġawṯ Ibn Murr del clan dei Muḍar (cfr. Ibn Manẓūr 1884, voll. XI-XII: 102-103), il quale pare indossasse abitualmente un copricapo di lana.

Nel suo eccellente Dictionnaire arabe-français (1860), Albert Kazimirski de Biberstein, facendo probabilmente riferimento al Lisān al-‘Arab, menziona per il verbo ṣāfa, oltre al senso principale di “essere ricoperto di lana”, quello di “deviare, discostarsi dal bersaglio”, il quale si applica specificamente alle frecce. La forma alternativa ṣawifa significa “distogliere o essere distolto (da qualcuno o qualcosa)”, ed è applicabile al viso o allo sguardo; infine la IV forma derivata (aṣāfa) equivale a “stornare [un male] (da qualcuno)”, azione attribuibile soltanto a Dio (cfr. Ibn Manẓūr 1884, voll. XI-XII: 103, Kazimirski de Biberstein 1860, vol. I: 1385-1386).

Nel Novecento alcuni intellettuali europei –  per lo più esponenti della corrente perennialista, da René Guénon a Titus Burckhardt – preferirono adottare un metodo interpretativo differente. Facendo appello allo ‘ilm al-ǧafr, scienza tradizionale musulmana che si basa su calcoli a partire dal valore numerico delle lettere che compongono i nomi (cfr. ad es. Scarabel 1996: 85-86), costoro riconobbero nella denominazione ṣūfī  una cifra simbolica equivalente a quella propria del sintagma al-ḥikma al-ilāhiyya, “la Saggezza divina” (cfr. Guénon 1935).

 Saio persiano di derviscio a toppe.sec.XIX Berlin,Ethnologisches Museum

Saio persiano di derviscio a toppe, sec.XIX, Berlin, Ethnologisches Museum

Al fine di trovare una ragione a questa avversione ostentata nei confronti della derivazione etimologica connessa alla lana, è utile notare che nella lingua araba moderna il termine taṣawwuf, che indica l’insieme delle pratiche e delle concezioni dei sufi, è applicabile anche alle correnti mistiche sviluppatesi in seno alle altre religioni monoteiste: troviamo così, oltre a taṣawwuf islāmī (mistica islamica), le denominazioni di taṣawwuf masīḥī (mistica cristiana) e taṣawwuf yahūdī (mistica ebraica). Ciò potrebbe indurci ad ipotizzare che – anche durante i primi secoli successivi all’Egira – con il termine ṣūfī non risultasse inusitato designare, per lo meno presso alcune comunità arabofone, non soltanto gli asceti musulmani, ma anche gli anacoreti della tradizione gnostica giudaico-cristiana che trascorrevano l’esistenza in meditazione perpetua nei deserti del Medio Oriente: pare che molti tra costoro si abbigliassero con tuniche di lana grezza, simbolo della loro povertà – intesa come rinuncia all’esistenza terrena (cfr. Nicholson 1914: 10). Basandosi su solide testimonianze storico-filologiche, nel corso del secolo XX, R. A. Nicholson e A. J. Arberry annoverarono il Cristianesimo, il Neoplatonismo e lo Gnosticismo tra le dottrine religiose, filosofiche e mistiche che influenzarono, pur in misura relativa, il primordiale taṣawwuf (cfr. Nicholson 1914: 8-16, Arberry 2008: 11).

Alla luce di tali considerazioni, potrebbe dimostrarsi degna di ulteriori indagini l’eventualità che esista un’attinenza tra l’uso del vocabolo ṣūfī e l’arcaica accezione di “distogliere [lo sguardo]” riportata da Ibn Manẓūr e ripresa da Kazimirski, presupponendo che esso alludesse – oltre che all’abbigliamento in lana – alla constatazione del fatto che lo stornare l’attenzione dal proprio ego mondano, durante i secoli in cui si propagò la fede musulmana, rappresentava un obiettivo comune a tutte le tradizioni spirituali diffuse nell’area siro-mesopotamica.  Notiamo inoltre che nel gergo dei sufi il sostantivo arabo fanā’ (derivato dal verbo faniya e traducibile con “scomparsa”, “cessazione d’essere”, “inesistenza”) (cfr. ad es. Wehr 1976: 729) indica una delle fasi fondamentali nel loro percorso spirituale, ovvero l’estinzione della soggettività, via obbligatoria per trascendere l’illusoria molteplicità del mondo terreno. Secondo Abū Bakr aš-Šiblī (m. 946), sufi iracheno discepolo del grande šayḫ al-Ǧunayd e sovente associato al più celebre al-Ḥallāǧ, la ḫirqa dei mistici rappresenta semplicemente tutto ciò che della loro individualità sussiste in seguito all’annientamento dell’ego da essi realizzato, permettendo così ai non iniziati di distinguerli, o perlomeno di denominarli. Ancora una volta è al-Qušayrī a riportare la replica di aš-Šiblī ad un quesito riguardante l’origine dell’appellativo ṣūfī: «[Si chiamano così] per ciò che di essi ancora permane; non fosse per quello, non sarebbe ad essi connesso alcun nome» (al-Qušayrī 1990: 282-283). Il vocabolo, rivelandosi agli occhi del mistico –  proprio in quanto denominazione –  null’altro che esteriorità, non può dunque essere associato che al saio di lana che copre il suo corpo, ovvero all’unico segno distintivo rimasto ad un individuo che non può nemmeno più essere definito tale, poiché la sua individualità è stata dispersa negli sfolgoranti abissi dell’Identità suprema.

L’eventuale attestazione della diffusione di una simile prospettiva nel considerare la questione, così come viene ermeticamente delineata da Abū Bakr aš-Šiblī, presso i circoli mistici sorti tra Siria e Iraq a partire dal secolo IX, confermerebbe implicitamente la validità dell’interpretazione etimologica più semplice e immediata del termine ṣūfī, connessa all’abbigliamento dei mistici in ragione del fatto che questi ultimi sono consapevoli della propria effettiva inesistenza (fanā’) in quanto individui. Un primo riscontro di tale ipotesi è ravvisabile – a titolo esemplificativo – in una delle definizioni di taṣawwuf attribuite da al-Qušayrī, nello stesso capitolo analizzato più sopra, allo šayḫ al-Ǧunayd: esso, a suo avviso, si realizza nel momento in cui «il Vero ti fa morire a te stesso e ti fa vivere in Lui» (al-Qušayrī 1990: 280).

Sarebbe affascinante investigare in merito all’evenienza che esista una pur remota relazione tra il primitivo utilizzo del sostantivo arabo che definiva i mistici – forse non solo islamici –  ed il verbo aramaico siriaco sūf (“aver fine”, “perire”, “scomparire”; cfr. Payne Smith 1903: 369), raffrontabile, dal punto di vista semantico, con l’arabo faniya (“svanire”, “essere caduco o perituro”); tuttavia tale ipotesi presenterebbe una palese incongruenza sul piano filologico, dato che la prima lettera della radice siriaca è semkaṯ e non ṣāḏē – corrispondente, quest’ultima, alla ṣād dell’arabo ṣūfī.  In Ebraico questo stesso verbo, che ritroviamo in diversi passi dell’Antico Testamento, esprime un significato analogo (“finire”, “cessare d’essere”, “perire”), ed il nome deverbale sūf, in Ebraico come in Aramaico giudaico e siriaco, significa “fine”, “estremità”, “bordo” (cfr. Sander / Trenel 1987: 484-485, Payne Smith 1903: 369). In lingua aramaica esso è stato peraltro utilizzato nell’ambito della tradizione cabalistica (Sèfer-ha Zohàr, sec. XIII) nel composto Eyn sōf (“l’Infinito”), uno stato di esistenza astratto che precede la Creazione divina (cfr. Scholem 1941: 209-220).

Sufi Baye Fall del Senegal

Sufi Baye Fall del Senegal

Senza travalicare i confini della lingua araba, il nesso semantico tra ṣūf(a) e fanā’ potrebbe essere confermato da una delle notizie – riportata da Ibn Manẓūr, malgrado non ne sia menzionata la fonte – concernenti la composizione del clan preislamico di Ṣūfa (cfr. supra), secondo la quale quest’ultimo si sarebbe costituito conseguentemente alla congregazione di individui in precedenza appartenenti a tribù che erano state decimate – verosimilmente a causa di guerre o avversità (cfr. Ibn Manẓūr 1884, voll. XI-XII: 103). Il vocabolo utilizzato per alludere ai sopravvissuti provenienti da tali gruppi tribali è afnā’ (“uomini oscuri, di cui s’ignora l’origine o la famiglia”, cfr. Kazimirski de Biberstein 1860, vol. II: 640), nominale plurale derivato del verbo faniya.

Le elucubrazioni etimologiche fin qui presentate, qualora fossero state concepite e divulgate allo scorcio del I millennio d.C., avrebbero evidentemente favorito la formulazione di illazioni sulla genesi del taṣawwuf che potevano assumere una valenza destabilizzante per l’ortodossia musulmana, la quale non era disposta ad ammettere che si congetturassero contaminazioni religiose inopportune. Questa potenzialità eversiva potrebbe quindi essere alla base delle motivazioni per cui gli autori dei trattati mistici iniziarono a screditare la connessione tra la parola ṣūfī e l’abbigliamento degli iniziati, depistando i lettori con soluzioni interpretative pietistiche o dal carattere artificiosamente esoterico e ricollegando il taṣawwuf ad origini esclusivamente endogene all’Islam.

La loro prudenza, in tal caso, non sarebbe stata ingiustificata. Il teologo Ibn Širīn (m. 728) condannava le vesti in lana indossate dal già citato Ḥasan al-Baṣrī, considerandole un sintomo palese della sua volontà di imitare Gesù (cfr. Arberry 2008: 35). Nel secolo successivo, lo šayḫ persiano Abū Yazīd al-Bisṭamī (m. 875) suscitava scandalo con le sue ebbre esternazioni estatiche (šaṭḥiyyāt), le quali – secondo gli ‘ulamā’ – sfioravano la blasfemia e il panteismo, tanto che al-Ǧunayd sentì la necessità di commentarle, tentandone una lettura riconducibile ai postulati teologici ortodossi. Furono ben pochi i maestri sufi, nel periodo a cavallo tra i secoli IX e X, che sfuggirono alle accuse di zandaqa (“eresia”) (cfr. Arberry 2008: 54, 66); ed è senz’altro da annoverare, tra le numerose cause che portarono all’atroce martirio di al-Ḥallāǧ, il sospetto che quest’ultimo fosse prossimo a concezioni gnostico-cristiane o manichee.

Forse è dunque lecito ritenere che, consci della possibilità di teorizzare – a partire dall’analisi etimologica del vocabolo ṣūfī – una pur relativa influenza sul taṣawwuf dei secoli VIII e IX da parte di correnti mistiche esterne all’Islam, la maggior parte degli šayḫ vissuti durante le epoche successive non giudicò conveniente accettare apertamente un’interpretazione che avrebbe ulteriormente esposto le confraternite alle documentate accuse di eterodossia da parte di teologi, giurisperiti e governanti, nonché ad altrettanto plausibili persecuzioni.

Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
(*) Il presente contributo costituisce una rielaborazione di un intervento presentato in occasione del convegno «Vêtir et habiller le corps : du besoin vital au symbole social», tenutosi presso la Faculté des Lettres, des Arts et des Humanités dell’Università de La Manouba, a Tunisi, dal 15 al 16 Aprile 2008.
Riferimenti bibliografici
Arberry, A. J., (2008), Sufism. An Account of the Mystics of Islam, New York: Routledge (ed. or. 1950)
Corbin, H., (1986), Histoire de la philosophie islamique, Paris: Gallimard (ed. or. 1964)
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Kazimirski de Biberstein, A., (1860), Dictionnaire arabe-français, contenant toutes les racines de la langue arabe, leurs dérivés, tant dans l’idiome vulgaire que dans l’idiome littéral, ainsi que les dialectes d’Alger et de Maroc, Paris: Maisonneuve et Cie
Mansouri, M. T., (2007), Du Voile et du Zunnâr, Tunis: l’Or du Temps
Molé, M., (1992), I mistici musulmani, Milano: Adelphi (ed. or. Les mystiques musulmans, Paris: PUF, 1965)
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Scarabel, A., (1996), Preghiera sui Nomi più belli, Genova: Marietti
Scholem, G. G., (1941), Major Trends in Jewish Mysticism, Jerusalem: Shocken Publishing House
Wehr, H., (1976), A dictionary of modern written Arabic, New York: Milton Cowan – Spoken Language Services, Inc., 3rd ed.

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Michele Marangon, laureato con lode alla Ca’ Foscari in Lingua e Letteratura Araba, è docente di Arabo presso l’Istituto Scolastico Italiano «G. B. Hodierna» di Tunisi. Specializzato anche in Didattica dell’Italiano LS, ha insegnato Lingua e Civiltà Italiana presso l’Università de «La Manouba», a Tunisi, e ha collaborato con la locale sede della Società Dante Alighieri.

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