di Antonio Ricci
Introduzione
Non tutti ricordano che numerose comunità italiane, stabilitesi in vari Paesi dell’Europa Centrale e Orientale [1], vantano radici profonde che risalgono fino al Medioevo e all’età moderna. A quei tempi, l’Italia era suddivisa in una moltitudine di principati indipendenti e città-stato, ognuno caratterizzato da istituzioni proprie e culture e tradizioni distintive. Queste comunità hanno portato con sé un ricco patrimonio culturale, contribuendo a plasmare le società locali con le loro influenze artistiche, linguistiche e commerciali, e mantenendo nel tempo un legame forte con le loro origini italiane.
Le radici medievali e moderne dell’influenza italiana: tra commercio, cultura e politica
Ci ricorda Rita Mazzei [2] che, durante il Basso Medioevo e l’età moderna, furono probabilmente i mercanti dell’Italia centro-settentrionale a svolgere una funzione chiave nell’espansione della presenza italiana in questa parte d’Europa. Lungo i cosiddetti itinera mercatorum (cioè le rotte commerciali dell’epoca), città-stato come Venezia, Genova e Firenze si impegnarono attivamente nel commercio transalpino e transadriatico, contribuendo nel corso dei secoli alla crescita economica, sociale e culturale della regione. Questi mercanti, specializzati in particolar modo nel commercio di prodotti di lusso, come sete, metalli preziosi e spezie, ben presto svilupparono anche un sistema bancario moderno, funzionale ad agevolare i loro commerci a lunga distanza.
Nel caso specifico della Romania, un’attenta ricostruzione del commercio italiano nel Paese danubiano in epoca medioevale si trova in uno dei più solidi lavori giovanili di Nicolae Iorga [3] (1871-1940). In questo libro, l’insigne storico e patriota romeno esplorò in profondità la storia di due città chiave nel Mar Nero, Chilia [4] e Cetatea Albă [5], evidenziando come le loro vicende fossero intrecciate con la storia economica, culturale e politica dell’Italia. Chilia e Cetatea Albă furono centri importanti per le colonie mercantili italiane, soprattutto per Genova e Venezia. I mercanti italiani stabilirono insediamenti commerciali in queste città, contribuendo significativamente alla loro prosperità economica e alla diffusione della cultura italiana. L’architettura, le arti, e persino alcuni aspetti della vita quotidiana di queste città riflettevano l’influenza dei mercanti italiani. Nella sua analisi storica, Iorga utilizzò giocoforza numerose fonti italiane, come cronache, lettere commerciali e documenti diplomatici, utili per ricostruire la storia delle due città, evidenziando l’importante livello raggiunto dai rapporti italo-romeni nel contesto del Mar Nero. Anche nell’ambito delle relazioni politiche e diplomatiche, osservò Iorga, furono fondamentali i rapporti tra i Principati moldavi e le potenze italiane, in particolare Genova e Venezia, per preservare la sicurezza e la stabilità della regione. In breve, l’influenza italiana su queste città rappresenta un esempio significativo di come le rotte commerciali e i contatti culturali abbiano plasmato la storia europea e contribuito a sviluppare un sistema efficace di interconnessioni che facilitò il flusso di informazioni, tecnologie e culture, partecipando alla formazione di un’identità europea comune.
L’eredità di questi scambi commerciali e culturali è ancora visibile oggi. Le tracce dell’influenza italiana sono presenti nelle tradizioni, nella cucina, e nei dialetti locali delle città costiere del Mar Nero. Questi elementi culturali sono testimonianze viventi di un passato in cui le rotte commerciali non solo trasportavano beni materiali, ma anche idee e valori. La presenza italiana nell’Europa Centro-Orientale non si limitò al commercio, ma si estese anche alla sfera politica e culturale di alto livello. Gli italiani lasciarono un’impronta significativa nella storia locale, contribuendo come segretari di corte, maestri di lingua, medici, artisti e artigiani. Inoltre, figure di spicco come architetti, ingegneri e costruttori italiani giocarono un ruolo cruciale nello sviluppo dell’edilizia, sia civile che religiosa, e in particolare in quella militare. La loro opera influenzò profondamente le strutture e le infrastrutture delle regioni ospitanti, dimostrando l’importanza e la versatilità delle competenze italiane in vari ambiti professionali.
Nel Cinquecento, l’arrivo in massa di italiani coincise con l’affermazione del Rinascimento in Polonia, soppiantando lo stile gotico tedesco. I nobili polacchi studiavano in Italia, tornando con una formazione culturale e linguistica italiana, influenzando la produzione letteraria polacca. Alcuni diventarono professori all’Università Jagellonica, rafforzando i rapporti accademici tra Polonia e Italia. L’italiano, lingua prestigiosa associata al Rinascimento e al commercio, penetrò in settori specifici come architettura, cucina, abbigliamento, musica e vita di corte. Il suo apprendimento rimase prerogativa dei nobili, dell’intellighenzia e del clero, con docenti italiani presenti fin dal Quattrocento. Di grande rilevanza furono i rapporti dinastici, specialmente grazie alla figura di Bona Sforza (1494-1557). Questa nobile italiana, sposando nel 1518 il re polacco Sigismondo il Vecchio (1467-1548), introdusse in Polonia un nutrito seguito di italiani di varie professioni. La sua corte divenne un centro di influenza culturale e professionale, accogliendo architetti, artisti, medici, artigiani e altri esperti che contribuirono significativamente allo sviluppo politico, culturale e sociale della regione. La presenza di Bona Sforza e dei suoi compatrioti arricchì notevolmente la corte polacca, lasciando un’impronta duratura nella storia locale.
Anche in Romania nel Cinquecento, l’influsso culturale italiano assunse un’importanza particolarmente significativa. Durante questo periodo, il Rinascimento, con il suo innovativo approccio all’arte, all’architettura e alla scienza, si affermò e penetrò nei territori romeni. L’arrivo di artisti, architetti e artigiani italiani introdusse un’ondata di innovazioni che gradualmente soppiantò lo stile gotico dominante, favorendo l’adozione dello stile rinascimentale. Questo scambio culturale arricchì profondamente la Romania, portando nuove idee e tecniche che influenzarono l’evoluzione artistica e architettonica locale, e contribuendo a un significativo rinnovamento culturale nel Paese.
Nel 1541, furono chiamati architetti italiani per costruire fortezze per difendersi dalla minaccia dell’espansionismo ottomano [6]. Il principe di Moldavia Stefano il Grande (1433-1504) utilizzò architetti militari italiani per erigere mura lungo il confine orientale della Moldavia, proteggendola dagli attacchi tartari e ottomani. Architetti italiani lavorarono alle corti dei Principi transilvani, sotto il controllo della corona di Ungheria per lunghi tratti di tempo tra il 1570 e il 1711, quando la Transilvania entrò a far parte del Regno di Ungheria. Qui, durante il principato di Bethlen (1613-1629), Giovanni Landi e Agostino Serena rafforzarono le fortificazioni di Oradea, dove Giacomo Resti costruì il famoso palazzo pentagonale in puro stile rinascimentale italiano. Agostino Serena costruì anche il castello Bánffy di Bonţida, villaggio nei pressi di Cluj-Napoca. L’architetto Giovanni Morando Visconti contribuì all’aspetto odierno di Alba Iulia (1715-1735), avviando i lavori per la realizzazione della imponente fortezza ettagonale detta “Fortezza carolina”.
Tra i pittori italiani attivi in Romania vi furono dapprima Masolino da Panicale, e altri artisti fiorentini ingaggiati a Timișoara dal valoroso condottiero Filippo Scolari, detto Pippo Spano (1369-1426). Questi furono seguiti da altri artisti chiamati alla corte di Michele il Bravo (1558-1601), il sovrano che riuscì per alcuni anni a riunire sotto il proprio scettro i tre “Principati danubiani” (Valacchia, Moldavia e Transilvania). Tuttavia, il maggiore riconoscimento lo ottenne Giorgio Venier, che nel 1787 venne nominato primo pittore di corte dal principe di Valacchia Nicolae Mavrogheni (1735-1790).
Come approfonditamente sottolineato dallo storico dell’arte Nicolae Sabău [7], la diffusione dell’arte barocca accompagnò l’affermazione della Controriforma e, proprio in quest’epoca, si ebbero significativi trasferimenti di architetti, ingegneri e altre maestranze dall’Italia ai cantieri romeni, in modo particolare in Transilvania. Accompagnati dalle proprie famiglie, si formarono vere e proprie colonie itineranti, di cui ancora oggi si rinvengono testimonianze, come nell’antichissima cattedrale cattolica di Alba Iulia (XIII secolo), dove si conserva, accanto peraltro a quella per Giovanni Morando Visconti, la lapide monumentale per il maestro ticinese Francesco Brilli che l’ha restaurata a metà del XVIII secolo [8].
Inoltre, tra Seicento e Settecento i rapporti tra le corti romene e quelle italiane si rafforzarono ulteriormente. La presenza di dinastie come quella dei Cantacuzino, con legami matrimoniali con nobili italiani, facilitò lo scambio culturale. Durante questo periodo, molte opere letterarie e filosofiche italiane furono tradotte in romeno, arricchendo il panorama culturale locale. Al contempo, intellettuali e nobili romeni viaggiarono in Italia per completare la loro formazione, studiando anche la lingua italiana. L’Università di Padova era la meta prediletta per questi studi, accogliendo sia laici che clerici. Questa interazione accademica non solo elevò il livello di istruzione romeno, ma favorì anche un proficuo scambio di idee e conoscenze tra i due Paesi.
Su questa scia, merita menzione il fiorentino Antonio Maria del Chiaro (1669-1727?), segretario del principe di Valacchia Constantin Brâncoveanu (1654-1714) e autore di una preziosa Istoria delle moderne rivoluzioni della Valachia con la descrizione del paese, natura, costumi, riti e religione degli abitanti (Venezia, 1718). Quest’opera, unica nel suo genere, è una fonte inestimabile per la conoscenza della storia romena e viene utilizzata ininterrottamente ancora oggi. Particolarmente rilevante è l’appendice finale sulla lingua valacca, che rivela sorprendenti somiglianze con l’italiano, specialmente nei verbi e nei tempi perfetti. Questa intuizione è significativa per gli studi successivi di filologia romanza e linguistica comparata, assicurando all’opera una duratura importanza.
La diffusione della cultura italiana nell’Europa Centro-Orientale fu notevolmente influenzata anche dai missionari inviati dalla Curia papale e dal Collegio di Propaganda Fide sin dai tempi di Innocenzo III (1161-1216). Per esempio, in Romania, nel XIII secolo furono istituite le prime sedi episcopali in Transilvania, Valacchia e Moldavia, come Milcov (1232), Severin, Argeș, Seret, Baia e Bacovia. Tuttavia, molte di queste diocesi ebbero vita breve. Spesso i vescovi titolari erano tedeschi o ungheresi, con poche eccezioni come le figure italiane di Vitus de Monteferreo e Franciscus de Sancto Leonardo.
Numerosi missionari italiani, tra cui molti domenicani e frati minori, giocarono un ruolo cruciale non solo per la diffusione del Cattolicesimo in Romania, ma creando importanti collegamenti tra l’Italia e la Romania. In particolare, padre Antonio da Spalato fu il primo italiano a imparare la lingua dei Valacchi e intorno al 1350 riferì alla Curia romana della conversione di molti di loro al Cattolicesimo. Nonostante i suoi sforzi, la sua richiesta di elevare la nuova comunità cattolica alla dignità vescovile rimase senza successo.
Nell’era moderna, l’Europa Centrale e Orientale si trasformò in una destinazione di esilio religioso per numerosi protestanti italiani che subivano persecuzioni nel loro Paese d’origine. Diversi storici, prima Cantimori e Firpo e poi altri ancora [9], hanno ricostruito l’impatto sulla società e la cultura locale: notevoli figure di eretici dell’anti-trinitarianismo, perseguitati dalla Chiesa Cattolica, trovarono rifugio in Europa Centro-Orientale, dove poterono continuare a diffondere le loro idee.
Tra i più noti, i senesi Lelio Socini (1525-1562) e suo nipote Fausto Socini (1539-1604), che animarono a Cracovia il dibattito sulla purezza cristiana tra i rappresentanti della Chiesa Riformata Polacca, dando vita alla Chiesa dei Fratelli Polacchi, conosciuta anche con il nome di Ecclesia minor antitrinitaria polacca. Fausto, in particolare, seppe sviluppare un sistema teologico coerente, che avrebbe avuto un impatto duraturo. I seguaci del Socinianesimo, dalla Polonia, si spostarono quindi in Transilvania, Moravia, Ungheria, Germania, Francia, Paesi Bassi, Inghilterra e Nord-America, influenzando gli arminiani, i mennoniti, i deisti inglesi, gli illuministi tedeschi nonché Ugo Grozio e Baruch Spinoza, predicando un’applicazione dello spirito critico ai fatti religiosi e sostenendo un ideale di Cristianesimo antidogmatico, cioè basato sull’etica, pacifista e umanitario.
In Romania, in particolare, si ricorda la figura del nobile saluzzese Giorgio Biandrata (1515-1588) che fu medico di corte, prima, della regina Bona Sforza (1494-1557) in Polonia e, poi, del principe di Transilvania Giovanni Sigismondo Zápolya (1540-1571), passato alla storia – quest’ultimo – per aver emanato nel 1568 l’editto di Turda, con cui – partendo dall’assunto che “la fede è un dono di Dio” – venne proibita per la prima volta la persecuzione delle persone per motivi religiosi. Qui, gli antitrinitariani poterono organizzarsi formalmente nella Chiesa Unitariana di Transilvania, che esiste tutt’oggi e rappresenta la più antica Chiesa Unitariana del mondo.
La Chiesa Romana, preoccupata dai successi del Calvinismo in Ungheria, Transilvania e Valacchia, intensificò le sue attività, con l’istituzione dei gesuiti in Transilvania (1578) e in Polonia (1595), moltiplicando le missioni cattoliche e la costruzione di nuove chiese. Pochi anni dopo la morte di Fausto Socini, nel 1610, i gesuiti arrivarono in Polonia e si impegnarono a sopprimere l’eresia unitariana. I sociniani, a causa delle persecuzioni religiose, furono forzatamente convertiti al Cattolicesimo o costretti ad autoesiliarsi. Molti di loro si unirono alla Chiesa Arminiana dei rimostranti, attiva nei Paesi Bassi; mentre altri si trasferirono in Germania, dove si integrarono con le comunità unitariane locali. In Transilvania il movimento sociniano si estinse nel 1793, mentre la piccola comunità sociniana sopravvissuta in Polonia riuscì a resistere fino al 1811. Questi eventi segnarono la dispersione dei sociniani, ma anche il loro adattamento in contesti diversi, dove seppero mantenere vive le proprie credenze.
Espansione, integrazione e trasformazioni tra il XIX e il XX Secolo
Nel XIX e XX secolo, le comunità italiane continuarono a stabilirsi e consolidarsi nella regione, assurta a valida alternativa per i “migranti economici” anche rispetto alle mete più tradizionali come gli Stati Uniti e la Germania. L’orientamento dell’emigrazione italiana verso l’Europa Centrale e Orientale fu influenzato da fattori socio-economici, come la depressione internazionale del 1873-79, la caduta dei prezzi agricoli e, non ultimo, le politiche restrittive esercitate dagli Stati Uniti nei confronti degli emigranti italiani [10].
La Relazione finale dell’“Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola”, promossa dal Parlamento italiano e avviata nel 1877 dall’onorevole Stefano Jacini (1826-1891), fu chiara riguardo alle cause dell’emigrazione: di fronte alla insufficienza delle risorse agricole, non era possibile promuovere alcun considerevole sviluppo industriale o commerciale. Jacini affermò che: «l’emigrazione di una parte della popolazione in contrade tuttora spopolate e ricche di risorse […] è una legge di natura» [11]. Neppure l’avvio dell’industrializzazione durante l’epoca giolittiana riuscì ad assorbire il surplus di manodopera disponibile. La combinazione di risorse agricole inadeguate e una popolazione in crescita rese inevitabile l’emigrazione di massa, con molti italiani costretti a cercare migliori opportunità all’estero per sfuggire alla povertà e alla mancanza di lavoro.
Tra i fattori di attrazione vanno considerati i massicci investimenti nell’ambito di quella che venne definita “l’età delle infrastrutture”. Un significativo numero di italiani si trasferì all’estero per partecipare alla costruzione di ferrovie o per lavorare nel settore dell’edilizia civile. Inoltre, non mancarono esperienze di emigrazione imprenditoriale o di colonizzazione agricola, come in Oltenia, Dobrugia e altri territori dell’odierna Romania. Questi progetti offrivano nuove opportunità di lavoro e miglioramento economico, attirando italiani che cercavano di sfuggire alla stagnazione economica e agricola del proprio Paese. Secondo il Commissariato generale dell’Emigrazione, tra 1878 e 1915 ben 195.855 connazionali sono emigrati in uno dei Paesi dei Balcani dell’epoca (Montenegro, Serbia, Romania, Bulgaria, Grecia e Turchia occidentale) [12].
Particolarmente intensi furono i flussi migratori provenienti dall’Italia che si determinarono, a partire dalla fine dell’Ottocento, in direzione dell’odierna Romania. Questi flussi, provenienti in particolar modo dal Nord-Est italiano e dalle regioni adriatiche, si orientarono sia verso il nuovo Stato di Romania, dal 1878 resosi indipendente e particolarmente bisognoso di manodopera specializzata, sia verso la Transilvania e il Banato, rimasti sotto il dominio degli Asburgo fino alla Prima Guerra mondiale. Erano flussi inizialmente promossi e sostenuti dallo stesso Impero austro-ungarico, interessato – come riferisce il giornalista e storico italiano Luigi Albertini (1871-1941) nel suo libro Le origini della guerra del 1914 – a favorire le migrazioni dalle regioni più povere o di confine [13]. Questa politica mirava a ridurre la pressione demografica interna, a equilibrare economicamente le aree meno sviluppate e a stabilizzare politicamente i territori maggiormente interessati da movimenti indipendentisti o irredentisti. Questa strategia migratoria continuò anche dopo che parti di questi territori furono integrati nel Regno d’Italia e venne meno lo stesso Impero asburgico, prendendo ora le mosse dalle antiche consuetudini di prossimità che generazioni di migranti avevano consolidato e riflettendo esigenze di miglioramento economico e sociale che solo l’emigrazione avrebbe potuto assicurare.
Per entrambi i Paesi, dalla seconda metà dell’Ottocento, si aprì un periodo particolarmente intenso di cambiamenti, anche da un punto di vista delle delimitazioni territoriali. Da una parte, Alexandru Ioan Cuza (1820-1973) venne eletto nel 1859 principe sia della Valacchia che della Moldavia, unificando i due Principati e dando di fatto avvio alla storia della Romania moderna; nel 1866 Cuza venne poi deposto e il trono offerto a Carlo di Hohenzollern-Sigmaringen, che divenne re con il nome di Carol I di Romania (1839-1914), consolidando l’indipendenza del Paese, che venne formalmente riconosciuta nel 1878 dopo la guerra russo-turca; nel 1918, dopo la Prima Guerra mondiale, la Romania si espanse ulteriormente, unendosi con la Transilvania, la Bucovina e la Bessarabia in quella che è nota come la Grande Unione, sebbene nel 1940 abbia poi perduto temporaneamente alcuni di questi territori. Dall’altra parte, anche il giovane Regno d’Italia si trovava in una fase di espansione territoriale, riuscendo progressivamente a incorporare le cosiddette “terre irredente”: il Veneto e quasi tutto il Friuli nel 1866; il Lazio nel 1870; la parte rimanente del Friuli, il Trentino e l’Alto Adige nel 1919; la Venezia Giulia Orientale nel 1920; e, infine, Trieste, Istria, Zara, diverse isole della Dalmazia e gran parte dello Stato libero di Fiume nel 1924. Per entrambi i Paesi, questo periodo di espansione non solo consolidò l’unità nazionale, ma anche rafforzò il senso di identità e orgoglio nazionale, stimolando ulteriori sviluppi economici e infrastrutturali all’interno dei nuovi confini.
Proprio durante la Prima Guerra mondiale, i trentini [14] si divisero tra coloro che servirono come soldati per l’Impero austro-ungarico e una minoranza di irredentisti che disertò per unirsi all’esercito italiano, formando dal 1917 la Legione Trentina. Fino al 1917, per tenerli lontani dall’Italia, i soldati trentini e italiani delle province adriatiche furono destinati principalmente ai fronti orientali (soprattutto in Galizia, una regione che oggi si trova tra la Polonia e l’Ucraina) per combattere contro l’esercito russo. Tra loro, circa 11.000 perirono e 15-20.000 disertarono o furono catturati dai russi e finirono per essere impiegati nell’ambito dell’economia di guerra. Nel 1916, grazie alla collaborazione militare tra il Regno d’Italia e l’Impero russo, circa 4.000 prigionieri trentini con sentimenti nazionali italiani furono trasferiti in Italia. Alla fine del 1917, caduto l’Impero zarista, altri 2.500 furono trasferiti in Cina: alcuni si unirono ai Battaglioni Neri del Corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente per combattere contro i bolscevichi, mentre altri si unirono all’Armata Rossa. Un ultimo gruppo fu trasferito negli Stati Uniti, per poi tornare in Europa. A prescindere da quale parte del campo si schierarono i soldati trentini, le loro famiglie furono generalmente evacuate a causa delle devastazioni belliche e “concentrate” nelle cosiddette “città di legno” delle province centrali dell’Impero asburgico, dove soffrirono fame e miseria che contribuirono alla loro decimazione [15].
Negli anni ‘20 e ‘30, molte famiglie italiane che avevano scelto di emigrare fecero fortuna in Europa Centro-Orientale. Questi emigranti si integrarono sempre più nella società locale, contribuendo al tessuto economico, culturale e sociale delle comunità in cui si stabilirono. Attraverso il duro lavoro e la determinazione, molti di loro riuscirono a costruire imprese prosperose, diventando imprenditori rispettati e influenti nella regione. Esemplare delle possibilità di ascesa sociale offerte dall’emigrazione è la vicenda di Teodoro Olivotto, ex mugnaio friulano diventato viceconsole onorifico a Bucarest sul finire dell’Ottocento. Negli anni ‘30, la presenza degli italiani in Romania poteva raggiungere le 20-25.000 unità. Considerando i flussi temporanei, tra le due guerre l’emigrazione in Romania coinvolse almeno 60.000 italiani [16]. Il traffico commerciale di Galați, porto sul Danubio, crebbe economicamente, sostenuto da commercianti italiani. La Camera di Commercio e Industria offrì una sede stabile alla comunità italiana, la “Casa d’Italia”, ancora esistente.
Nel 1940, la comunità di cento famiglie polesane provenienti da Trecenta, insediatasi in Romania dal 1879 prima a Corneşti e poi a Cataloi, fu rimpatriata nell’Agro Pontino, da poco bonificato, dove venne dispersa in lotti di terra isolati tra loro. Questa comunità, che aveva migrato più volte, rappresenta un caso unico per il suo percorso di adattamento e integrazione nelle terre romene [17].
Con l’ascesa del comunismo e la formazione della cortina di ferro in Europa, l’emigrazione italiana verso la regione subì una drastica battuta d’arresto, sebbene con alcune eccezioni significative, come l’emigrazione postbellica degli ex partigiani italiani, le cui storie di resilienza, coraggio e determinazione meritano di essere ricordate. Già durante la dittatura, gruppi di “profughi comunisti”, composti da intellettuali e operai italiani, avevano cercato rifugio a Mosca per sfuggire alla persecuzione fascista. Caduto il fascismo, l’Italia si trovò ad affrontare una fase di ricostruzione nazionale e di riassestamento sociale ed economico. Tra coloro che ebbero difficoltà a reintegrarsi nella vita normale vi furono molti comunisti e partigiani, che rifiutarono di vivere in un Paese che non aveva abbracciato il modello sovietico, ma che anzi stava amnistiando i protagonisti di un regime che avevano combattuto con le armi. Taluni di questi dovettero andare via anche perché accusati di crimini commessi durante la guerra. Per tutti, l’emigrazione divenne una via per cercare nuove opportunità e un ambiente più accogliente. Molti emigrarono verso Paesi come la Francia, dove trovarono lavoro nei settori industriali in rapida crescita. Altri scelsero la Svizzera, dove le opportunità di impiego nel settore finanziario e nel campo dell’edilizia erano più promettenti. Alcuni partigiani e comunisti italiani cercarono rifugio nei Paesi dell’Europa dell’Est, dove le ideologie socialiste e comuniste erano più diffuse e accettate. Paesi come la Jugoslavia e l’Unione Sovietica offrivano un ambiente politico più favorevole e opportunità di lavoro per coloro che condividevano ideali simili. Tuttavia, l’emigrazione non fu priva di sfide. Molti ex partigiani dovettero affrontare la difficoltà di adattarsi a nuove culture e lingue, mentre altri si trovarono a lottare con il trauma e le ferite emotive causate dalla guerra. Nonostante ciò, molti di loro fecero del loro meglio per costruire una nuova vita all’estero, contribuendo alla crescita e allo sviluppo delle società che li ospitavano.
Nei primi anni ‘90, il giornalista e uomo politico Giuseppe Fiori [18] (1923-2003) documentò l’esilio in Cecoslovacchia di un gruppo di 446 partigiani comunisti italiani. Il suo pregevole lavoro di ricerca mise in luce il sacrificio di queste persone disposte a trascorrere l’intera vita in esilio pur di rimanere fedeli a un ideale. Fiori descrisse le sfide incontrate da questi esuli nel trovare un posto in una società e in un sistema politico così diversi da quelli italiani, tanto che molti di loro finirono per essere cacciati dal Partito Comunista ceco. Allo stesso modo, altre esperienze, come la “migrazione al contrario” degli operai di Monfalcone che scelsero di trasferirsi in Jugoslavia nel 1946-1948 [19] o l’emigrazione in Unione Sovietica durante le purghe staliniane [20], si conclusero in modo negativo con un drastico annientamento.
In genere, però, le rigide politiche dei regimi comunisti e la chiusura dei confini resero difficili nuovi arrivi e determinarono profonde trasformazioni all’interno delle comunità italiane esistenti. Molti italiani che già vivevano in queste regioni decisero di restare, adattandosi alle nuove realtà politiche e sociali. Si consideri, però, che quasi mezzo secolo di cortina di ferro sotto il socialismo reale farà delle famiglie italiane di antica emigrazione delle vere e proprie “comunità dimenticate” [21]. Per la maggior parte, questa scelta comportò un immediato isolamento sociale e culturale, poiché le interazioni con l’esterno erano ridotte a zero e le reti di supporto sviluppate nel corso degli anni drasticamente interrotte. Le pressioni politiche e la necessità di conformarsi alle nuove ideologie portarono molti ad assimilarsi nella cultura dominante, spesso a scapito della propria identità italiana. Tuttavia, alcuni di loro riuscirono a preservare la propria identità socio-culturale attraverso la cura delle tradizioni familiari, la celebrazione di festività italiane e la conservazione della lingua.
In parallelo, altri italiani scelsero di tornare in patria, attratti dalle opportunità offerte dal boom economico post-bellico in Italia, o di emigrare verso nuove destinazioni, come le Americhe o l’Australia, alla ricerca di condizioni migliori di vita e di lavoro. Questo esodo contribuì a ridurre ulteriormente la presenza italiana nell’Europa Centro-Orientale. Nella maggioranza dei casi significò anche rinunciare al proprio patrimonio personale, lasciando dietro di sé proprietà, attività economiche e beni culturali accumulati nel corso di generazioni. La scelta di partire rappresentava non solo una ricerca di nuove opportunità, ma anche un distacco doloroso dalle proprie radici e dalle comunità che avevano contribuito a costruire nel tempo. Questo movimento demografico alterò significativamente il tessuto sociale delle aree interessate, privandole del contributo di una comunità che aveva giocato un ruolo cruciale nella loro storia e sviluppo economico.
Le comunità che riuscirono a mantenere la loro identità culturale lo fecero spesso attraverso reti informali e clandestine di supporto, che includevano scuole domestiche, gruppi di preghiera e associazioni culturali segrete. Nonostante le difficoltà, queste comunità mantennero vivo un legame con l’Italia, rafforzando i sentimenti di appartenenza e continuità. In definitiva, l’epoca della cortina di ferro rappresentò un periodo di sfide e trasformazioni per gli Italiani nell’Europa Centrale e Orientale, ma la resilienza di queste comunità dimostrò la forza delle tradizioni culturali italiane e la capacità di adattamento alle avversità storiche, mentre il fenomeno migratorio assunse nuove forme e direzioni in risposta ai cambiamenti geopolitici.
Le nuove rotte dell’emigrazione italiana: tra tradizione e globalizzazione nell’Europa Centro-Orientale Post-1989
Dopo la caduta del muro di Berlino, le comunità di emigrati italiani si integrarono nei flussi migratori globali, continuando a preservare e trasmettere le tradizioni e la cultura italiane attraverso le generazioni. Oggi, molte di queste comunità italiane storiche persistono nell’Europa Centrale e Orientale, mantenendo vivi i legami con l’Italia e intrecciando relazioni inedite con la nuova diaspora, che – sempre più globalizzata – dopo il fatidico 1989 ha associato alle destinazioni tradizionali dell’emigrazione (come Germania, Francia e Regno Unito) anche destinazioni più eterogenee rispetto al passato, come la Polonia, la Romania, la Repubblica Ceca, ecc.
Per capire meglio le caratteristiche della “nuova emigrazione” italiana, merita di essere segnalato il volume intitolato Italiani dell’Est [22], pubblicato nel 2019 nell’ambito della serie Italiani d’Europa promossa dal Ministero degli Affari Esteri italiano. Italiani dell’Est rappresenta un lungo racconto testuale e fotografico che esplora le storie e le esperienze delle comunità italiane stabilitesi negli ultimi tre decenni nell’Europa Centro-Orientale. Questo libro è un’inchiesta giornalistica che, a partire dalla ricca eredità delle comunità italiane nell’area, raccoglie testimonianze, storie di vita e analisi socio-culturali, offrendo un quadro dettagliato della presenza italiana odierna in questa vasta regione. Queste storie individuali offrono uno sguardo intimo sulle esperienze quotidiane, le sfide e i successi di queste comunità. Le interviste e i racconti personali aggiungono una dimensione umana alla narrazione, rendendo il libro non solo un documento storico, ma anche una raccolta di testimonianze vivide e toccanti.
Nel 2022 gli Italiani iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) in quanto residenti in uno dei Paesi membri dell’UE appartenenti all’Europa Centro-Orientale (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Slovenia, Romania, Bulgaria e Paesi baltici) erano 59.819. Questo numero aumenta a 72.440 includendo, oltre ai Paesi non comunitari dei Balcani Occidentali, anche l’Albania, la Moldavia, l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia. Questi dati sono, tuttavia, ampiamente sottostimati a causa della mancata iscrizione tempestiva all’AIRE da parte di molti emigrati. La legge italiana non prevede sanzioni per il ritardo nell’iscrizione, il che porta molti italiani all’estero a registrarsi solo dopo aver raggiunto un livello di stabilità e soddisfazione nel loro nuovo Paese. Questo ritardo può essere dovuto a vari motivi, tra cui l’incertezza iniziale riguardo alla durata della permanenza all’estero, il desiderio di stabilirsi prima di formalizzare la propria situazione burocratica, o semplicemente la mancanza di consapevolezza sull’importanza dell’iscrizione all’AIRE. Di conseguenza, le statistiche ufficiali non riflettono accuratamente il numero effettivo di italiani residenti all’estero, poiché molti di loro vengono conteggiati solo dopo anni di permanenza. Questo fenomeno complica la pianificazione e l’implementazione di politiche adeguate per supportare la comunità italiana all’estero, sottolineando la necessità di un sistema di registrazione più efficace e tempestivo al fine di ottenere dati più accurati e rappresentativi.
Questa prassi causa una significativa sottostima dei flussi emigratori ufficiali, rendendo necessaria una rivalutazione al rialzo dei dati disponibili. Secondo IDOS [23], i numeri effettivi degli emigrati italiani potrebbero essere mediamente 2,5/3 volte superiori rispetto alle statistiche ufficiali. Questa stima si basa su evidenze narrative e sul confronto con i dati raccolti direttamente dalle autorità dei Paesi europei di destinazione, che forniscono un quadro più accurato della presenza dei giovani italiani all’estero.
Conclusioni: le comunità italiane custodi di tradizioni e ponti culturali in un mondo in evoluzione
Tutte le comunità italiane che, per una molteplicità di ragioni storiche, economiche e sociali, si sono insediate nell’Europa Centrale e Orientale nel corso dei secoli, hanno costantemente diffuso la propria cultura e il proprio linguaggio. Queste comunità hanno contribuito in modo significativo a mantenere vive e in costante evoluzione le tradizioni italiane. Frequentemente, queste comunità si sono strutturate in gruppi etnici, religiosi o linguistici al fine di conservare la propria identità culturale. Di conseguenza, sono nate comunità italiane dotate di proprie scuole, chiese, associazioni culturali e sportive. Queste strutture hanno permesso di creare un tessuto sociale vivace e coeso, dove la cultura italiana è stata non solo mantenuta ma anche arricchita attraverso le interazioni con le culture locali. Le scuole italiane all’estero hanno educato le nuove generazioni, trasmettendo la lingua e instillando in loro un profondo rispetto per la cultura e la storia italiane, mentre le chiese hanno svolto un ruolo centrale nella vita spirituale e sociale, proponendosi sia come luoghi di culto che come centri di aggregazione comunitaria. Le associazioni culturali e sportive hanno favorito la coesione della comunità, offrendo spazi di incontro e condivisione, organizzando eventi, mostre e manifestazioni. Così, le comunità italiane all’estero hanno continuato a essere un importante punto di riferimento per la cultura italiana, adattandosi e integrandosi nei nuovi contesti senza perdere la propria identità.
Queste comunità italiane hanno vissuto storie diverse, evolvendo di generazione in generazione in sintonia con i cambiamenti delle istituzioni e dei confini degli Stati italiani e dell’Europa Centro-Orientale. Ogni gruppo ha contribuito in modo unico alla ricchezza culturale della regione, dimostrando una straordinaria capacità di adattamento ai cambiamenti politici e sociali, pur mantenendo un forte legame con le proprie radici italiane. Sono passati indenni da quasi mezzo secolo di socialismo reale che ha caratterizzato la regione, preservando la propria identità e coesione interna nonostante le sfide e le pressioni esterne.
Nello stesso tempo, come ha ben argomentato lo storico Gioacchino Volpe (1876-1971) [24] nel suo celebre saggio Momenti di storia d’Italia (1925), gli italiani all’estero hanno svolto un ruolo cruciale nella formazione e nello sviluppo dell’identità nazionale italiana, preservando un profondo legame con la loro terra d’origine. Lungo tutto il saggio, Volpe, concentrandosi sul periodo conclusivo del Medioevo, esplora le esperienze degli Italiani vissuti al di fuori dei confini nazionali, analizzando i loro legami con la patria.
Volpe esamina le motivazioni che hanno spinto molti italiani a emigrare, tra cui la ricerca di fortuna, l’avventura e la realizzazione di obiettivi politici e religiosi, indagando come queste comunità italiane all’estero abbiano mantenuto vivi i legami con l’Italia attraverso il commercio, la cultura e la politica. L’indagine di Volpe conferma, quindi, l’intersezione tra questioni politiche, culturali e religiose e il mantenimento di questi legami e come le comunità italiane all’estero abbiano contribuito a rafforzare l’identità nazionale italiana.
In un contesto di cambiamenti politici e sociali spesso turbolenti, queste comunità sono rimaste un esempio di resilienza e adattabilità, preservando la propria identità italiana e, allo stesso tempo, contribuendo in maniera significativa alla vita culturale, sociale ed economica delle regioni in cui si stabilirono. Le loro tradizioni culinarie, artistiche e linguistiche si sono integrate con quelle locali, creando un mosaico culturale variegato, fondato sul dialogo interculturale e la convivenza pacifica. Dimostrando di poter essere un ponte tra diverse culture, le comunità italiane non solo sono sopravvissute, ma hanno prosperato, lasciando un’impronta indelebile nel cuore dell’Europa Centrale e Orientale.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Generalmente sono inclusi nell’Europa Centro-Orientale i Paesi comunitari situati tra l’Europa Occidentale e la Russia, come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Paesi Baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia). Questa interpretazione si basa sulla posizione geografica e su una storia condivisa, influenzata sia dalla cultura occidentale che da quella orientale. Esistono altre interpretazioni dell’Europa Centro-Orientale, che arrivano ad includere o escludere determinati Paesi a seconda del contesto. Ad esempio, alcuni studiosi includono nella definizione anche i Paesi non comunitari dei Balcani Occidentali (Albania) e della ex-Jugoslavia (Serbia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro e Kosovo), così come quelli comunitari (Croazia e Slovenia), mentre altri considerano questi Paesi parte dell’Europa Meridionale. Altre definizioni si basano su criteri socio-economici e politici, interpretando l’Europa Centro-Orientale come una regione post-comunista in transizione verso l’economia di mercato, includendo Moldavia, Ucraina, Bielorussia e talvolta la Russia stessa. In sintesi, la definizione di Europa Centro-Orientale varia in base al contesto e all’obiettivo dell’analisi. In questo caso, trattandosi di un’analisi che si svolge attraverso il tempo, sarà quindi opportuno adottare un approccio prettamente geografico.
[2] Mazzei R., Itinera mercatorum. Circolazione di uomini e beni nell’Europa centro-orientale (1550-1650), Pacini Fazzi, Lucca, 1999.
[3] Iorga N., Studii istorice asupra Chiliei și Cetăței Albe, C. Göbl, București, 1899.
[4] La città di Chilia, situata sulla sponda del ramo omonimo dell’estuario del Danubio, ha vissuto periodi di dominazione ottomana, russa e romena, riflettendo la sua posizione strategica e la sua importanza commerciale nel corso dei secoli. Oggi se ne distinguono due parti: Chilia Veche o “Vecchia Chilia”, situata in Romania, e Chilia Nouă o “Nuova Chilia”, costruita sull’altra sponda del Danubio da Stefano il Grande come avamposto contro gli Ottomani, che oggi corrisponde alla moderna cittadina ucraina di Kiliia.
[5] La “città bianca” (Cetatea Albă) si trova nella storica regione della Bessarabia, nei pressi dell’estuario del fiume Dnestr, nell’odierna Ucraina. Oggi conosciuta come Bilhorod-Dnistrovsk’yi, fu rinominata Akkerman durante i tre secoli di dominazione ottomana.
[6] In realtà, già all’inizio del XIV secolo, architetti e maestranze italiani furono incaricati di costruire fortificazioni in Romania. Un esempio significativo fu la costruzione, tra il 1307 e il 1315, di un castello a Timişoara, su commissione del re di Ungheria Carlo Roberto d’Angiò (1288-1342).
[7] Sabău N., Maestri italiani nell’architettura religiosa barocca della Transilvania, Editura Ararat, Bucureşti, 2001 (edizione aggiornata: Editura Mega, Cluj-Napoca, 2019).
[8] Sabău N., Cit., 2001: 21-22.
[9] Cantimori D., Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Sansoni, Firenze, 1939; Firpo M., Antitrinitari nell’Europa orientale del ‘500. Nuovi testi di Szymon Budny, Niccolò Paruta e Iacopo Paleologo, La Nuova Italia, Firenze, 1977; Caccamo D., Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Le Lettere, Firenze, 1999.
[10] I Quota Act del 1921 e del 1924 limitarono drasticamente il numero di ingressi a favore di cittadini italiani.
[11] Jacini S., I risultati dell’inchiesta agraria (1884), Einaudi, Torino, 1976²: 134-135.
[12] CGE – Commissariato Generale dell’Emigrazione, Annuario statistico dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925, CGE, Roma, 1926.
[13] Albertini L., Le origini della guerra del 1914, Bocca, Milano, 1943.
[14] Sardi L., Il Trentino nella Grande Guerra, Curcu & Genovese Ass, Trento, 2014.
[15] Luzzatto S., “Il popolo scomparso nella Grande Guerra”, in Corriere della Sera, 15 dicembre 2003: 33.
[16] Ricci A., “Quando a partire eravamo noi: l’emigrazione italiana in Romania tra il XIX e il XX secolo”, in Pittau F., Ricci A., Silj A. (a cura di), Romania. Immigrazione e lavoro in Italia. Statistiche, problemi e prospettive, IDOS, Roma, 2008: 59-70.
[17] Gaspari O., “Una comunità veneta tra Romania e Italia (1879-1940)”, in Studi Emigrazione, 89, XXV, 1988: 2-26.
[18] Fiori G., Uomini ex. Lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani, Einaudi, Torino, 1993.
[19] Lusenti L., Una storia silenziosa. Gli italiani che scelsero Tito, ComEdit 2000, Bergamo, 2010.
[20] Dundovich E., Gori F., Guercetti E., “L’emigrazione italiana in URSS: storia di una repressione”, in Dundovich E., Gori F., Guercetti E. (a cura di), Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano, 2004: 177-232; Lussana F., In Russia prima del Gulag. Emigrati italiani a scuola di comunismo, Carocci, Roma, 2007.
[21] Pizzorusso G., Sanfilippo M., “Prime approssimazioni per lo studio dell’emigrazione italiana nell’Europa centro-orientale, secc. XVI-XVII”, in Platania G. (a cura di), La cultura latina, italiana, francese nell’Europa centro-orientale, Sette Città, Viterbo, 2004: 259-297; Ricci A., “Emigranti italiani in Romania: documenti e testimonianze di una comunità dimenticata”, in Studi Emigrazione, XLII, 159, 2005: 661-680; Prencipe L., Sanfilippo M., “Emigrati italiani dimenticati: un progetto per l’Europa centro-orientale”, in Studi Emigrazione, LIX, 225, 2022: 139-151.
[22] Colantoni L., Venturi R., Italiani dell’Est, Peliti Associati-Maeci, Roma, 2019.
[23] In un recente studio organico abbiamo elaborato le stime sull’effettiva entità dei flussi degli Italiani verso l’estero, facendo ricorso alla metafora del mito di Saturno, il dio che distrugge la cosa più preziosa che ha, i propri figli, e con essi il proprio futuro. Saturno teme infatti che uno di essi lo priverà del potere, detronizzandolo, e cerca quindi di opporsi invano al normale corso del tempo. Senza voler estremizzare troppo, l’immagine evoca anche quel soffitto di cristallo contro il quale le ambizioni professionali delle generazioni più giovani (caso tipico: il mondo universitario) spesso vanno ad infrangersi, spingendoli di fatto ad emigrare. Cfr. Attanasio P., Ricci A., “Come Saturno, l’Italia divora i propri figli? Le dimensioni reali, le motivazioni a partire e le narrazioni delle nuove migrazioni italiane in Europa”, in Coccia B., Ricci A. (a cura di), L’Europa dei talenti. Le migrazioni qualificate dentro e fuori l’Unione europea, Centro Studi e Ricerche IDOS-Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Edizioni IDOS, Roma, 2019: 46-69.
[24] Volpe G., Momenti di storia d’Italia, Vallecchi, Firenze, 1925.
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Antonio Ricci, è vicepresidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, specializzato in migrazione e politiche migratorie italiane. Personalmente ha condotto studi approfonditi sull’immigrazione in Italia e l’emigrazione italiana. Collabora con vari esperti del settore, contribuendo a ricerche e pubblicazioni che offrono una prospettiva nuova sulle dinamiche sociali e culturali dei fenomeni migratori in Italia e in Europa.
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