Anche se – a giudizio di alcuni – la pandemia da Covid-19 è stata amplificata nel racconto pubblico, in ogni caso ha costituito un dato oggettivo nel biennio 2020-2021 (né, al momento in cui scrivo, sembra destinata a tramontare). Essa ha sottolineato anche agli occhi delle fasce benestanti dei Paesi occidentali ciò che in quasi tutto il resto del pianeta è esperienza quotidiana: l’esistenza umana è fragile, esposta a minacce di ogni genere.
La sofferenza è una buona educatrice? Nei mesi più duri lo si è ripetuto, su un registro linguistico oscillante fra la previsione e l’auspicio: “Alla fine, ne usciremo. E migliori”. Ma il trascorrere del tempo conferma l’opinione più cauta di quanti supponevano – e suppongono – che, dove è in gioco l’essere umano, non scatta nessun automatismo. I fallimenti esistenziali, le malattie psichiche, i dolori fisici…tutto è intrinsecamente ambivalente: può migliorarci o peggiorarci a seconda del nostro atteggiamento di fondo (in genere migliora i migliori e peggiora i peggiori).
È possibile individuare alcune condizioni favorevoli a una “pedagogia della sofferenza” , intendendo il genitivo sia come ‘soggettivo’ (la pedagogia esercitata su di noi dalla sofferenza) che come ‘oggettivo’ (o ‘di argomento’: la pedagogia che possiamo attivare, in noi prima che a vantaggio di altri, in rapporto alla sofferenza)? Il filosofo Orlando Franceschelli ci prova nel suo Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (con Prefazione di Telmo Pievani, Donzelli, Roma 2021):
«Sopportare la sofferenza per quanto si deve, ridurla per quanto è possibile, conoscere-apprendere quanto di più prezioso essa può insegnarci: la pedagogia della sofferenza educa a non sottovalutare nessuno di questi aspetti della nostra interazione con i pathemata senza redenzione».
Vediamo, più attentamente, di cosa si tratta.
Sopportare tutto, e solo, ciò che va sopportato
«Sopportare la sofferenza per quanto si deve»: già, infatti non tutte le sofferenze sono inevitabili e dunque da sopportare pazientemente. Molti mali vengono a noi mortali da altri mortali più forti fisicamente, più astuti, più spregiudicati, più prepotenti, più spietati, più egoisti: sono i mali che le strutture economiche, le istituzioni giuridiche, i meccanismi politici, le tradizioni culturali…cristallizzano e perpetuano nella storia. Sono quei mali a cui i grandi riformatori – dai profeti biblici a Gandhi, Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (per citare quasi a caso e comunque nel limitato orizzonte di un occidentale) – ci hanno insegnato a ribellarci, facendo leva sull’indignazione individuale e soprattutto sulla mobilitazione di più o meno ampi aggregati sociali.
Tuttavia, al netto delle sofferenze che l’uomo-lupo infligge all’altro uomo (specie se agnello), l’esistenza umana rimane marchiata da limiti ontologici insuperabili, di cui il decesso fisico è sintesi e cifra. Lo aveva notato già Agostino d’Ippona: nasciamo e di questo moriamo (anche se, abitualmente, ci diciamo che l’uno è deceduto per un incidente sul lavoro, l’altra per un male inguaribile, l’altro ancora nel corso di una rapina in banca). Eppure, oggi, alcune correnti teorico-tecnologiche sembrano voler negare l’ineluttabilità di questi limiti costitutivi dell’esistenza umana. Franceschelli denomina, complessivamente, “futurismo dei vincitori” queste varie correnti che si presentano sia nella versione «forte del controllo tecnocratico di esseri viventi e ambiente (bio- e geo-ingegneria)» sia nella versione
«gentile che comunque predilige prospettare e promettere miglioramenti futuri invece di curare le attuali ferite e contrastare efficacemente ingiustizie e privilegi che ne sono la causa. Finendo così per favorire comportamenti individuali e strategie etico-politiche che sono l’esatto opposto teso a migliorare noi stessi e la società anche mediante un serio confronto col problema della sofferenza».
Ci muoviamo, insomma, sul filo d’acciaio steso su un burrone: da una parte si può cadere nel “dolorismo” di cui non di rado le religioni monoteistiche – influenzate da certe correnti dello Stoicismo [1] – sono state agenzie educative (contribuendo alla passiva e inerte rassegnazione di intere generazioni di fedeli davanti a situazioni di sofferenza che, con blasfema narrazione, attribuivano alla volontà divina stessa); dall’altra si può precipitare nel super-omismo di chi interpreta la nietzschiana volontà di potenza come ineluttabile processo di auto-divinizzazione del mortale (meglio: di alcune minoranze elette [2]) , anche mediante gli strumenti della tecnica, al di là di ogni finitudine biologica e psicologica [3]. È interessante notare come da premesse onto-teologiche così distanti si possa convergere su esiti pratici, etico-operativi molto simili, se non identici: «preferire la sofferenza a ogni sua possibile riduzione» dal momento che «il piacere, il benessere, la felicità come sono intesi dai sostenitori della civilizzazione umana, da Epicuro a Darwin», sono “valori” meritevoli di essere perseguiti non dal santo/saggio/superuomo, bensì dalla gente mediocre inadatta a elevarsi sulle vette della vita intellettuale e spirituale.
Ridurre, per quanto possibile, le sofferenze
È proprio per evitare questo duplice, letale, pericolo che una pedagogia della sofferenza non può esimersi dall’indicare – subito dopo l’invito a sopportare le sofferenze davvero inevitabili, irredimibili – la necessità di impegnarsi a «ridurl[e] per quanto possibile». A tal fine è, innanzitutto, importante la completezza della diagnosi: i mali contro cui dovremmo schierarci non ci assediano in ordine sparso, ma in compagine compatta. In proposito Franceschelli tiene a precisare che
«quella del Covid-19, più che una pan-demia, è stata una sin-demia. Questo termine infatti richiama, opportunamente, l’attenzione sul prefisso syn-, ossia sull’insieme dei problemi (sanitari, ambientali, psicologici, sociali, economici) e sulla relazione tra le varie malattie che hanno favorito e reso ancora più devastanti gli effetti della diffusione del coronavirus nella popolazione (demos). È per queste ragioni che ‘sindemia’ esprime meglio di ‘pandemia’ non solo la sofferenza comune (la syn-patheia) causata da Covid-19, ma anche il comprensibile timore che la stessa ricerca di una soluzione puramente bio-medica potrebbe rivelarsi fallimentare. Con conseguenze più gravi, com’è agevole capire, per le fasce della popolazione maggiormente svantaggiate ed esposte a disuguaglianze socio-economiche e inospitalità ambientale».
A una diagnosi così impegnativa non può non conseguire una terapia altrettanto complessa. L’autore la incentra sulla «sinergia pensare-fare» così come è ribadita nella tradizione filosofica occidentale da Goethe («Pensare e fare, fare e pensare. Ecco la somma di ogni saggezza») sino a Wittgenstein e Williams: una sinergia che eviti la riduzione del ‘fare’ a «un attivismo incondizionato» e il ‘pensare’ a «una contemplazione di entità soprannaturali più o meno solitaria, apatica, separata dalla vita» [4]. Ovviamente l’intreccio fra teoria e prassi non avrebbe senso se avessero ragione o gli idealisti negatori di una consistenza reale della natura extra-mentale, come Hegel e Croce (perché operare su un “fantasma”?) o i materialisti negatori di una qualche trascendenza del pensiero rispetto alle sue radici biologiche e socio-economiche (e dunque votati a un pragmatismo del “fare senza pensare”) [5], tra i quali ha rischiato, salvandosi solo in extremis, di ascriversi Marx. Rettamente intesa, al di là della depistante opposizione fra “interpretare” e “trasformare” il mondo [6], la “sinergia di pensare e fare” può alimentare “il concreto perseguimento” di quel «rapporto ragionevole e lungimirante tra ambiente naturale e storia della nostra specie» che «costituisce il nostro primo bene comune». Al di là dell’illusione antropocentrica – se non antropoteistica – di poter disporre della «sovrumana storia dell’universo» come si trattasse di una delle «nostre umanissime creazioni storiche», ma anche della tentazione di «rifugiarsi in determinismi (genetico, socio-economico, geo-ambientale) o in fatalismi, spesso invocati nel tentativo di legittimare il proprio non assumersi responsabilità appellandosi a riduzionismi biologici o ad argomentazioni sostanzialmente metafisiche su necessità sovrannaturali».
Accrescere sapere e saggezza
Sopportare i mali inevitabili e impegnarsi a ridurne al minimo l’impatto doloroso, su noi e gli altri viventi, sarebbero frutti pedagogici incompleti, per quanto preziosi, se non integrati da – o forse meglio: radicati in –un accrescimento di sapere e di saggezza. Di questa evoluzione cognitivo-etica fanno parte alcune acquisizioni.
La prima: non si può vivere alla giornata, senza una propria interpretazione della vita, Senza «maturare liberamente e criticamente anche una “propria concezione del mondo” (Gramsci)» grazie, innanzitutto, a un costante «dialogare socraticamente e laicamente con gli altri con-filosofanti». Le trasformazioni storico-sociali sono sì effetto di mobilitazioni collettive, ma tali movimenti macroscopici originano nella «coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea (Gramsci)».
La seconda acquisizione è una specificazione/esplicitazione della precedente: l’attività filosofica a cui sono chiamati non solo i professionisti della storia della filosofia, ma i cittadini e le cittadine in quanto esseri pensanti, va intesa come indagine critica sui fenomeni illustrati dalle scienze empiriche e finalizzata a «vivere come si deve» (per dirla con Montaigne) o a fare degli “uomini”, non dei “libri” (per dirla con Feuerbach). Dunque una filosofia scevra da complessi di superiorità rispetto alle «scienze naturali e umane, la conoscenza storica, la cultura umanistica nel senso più ampio (arte, teologia, antropologia, diritto, economia)» e immune dalla tentazione del teoreticismo aristocratico (secondo cui si vivrebbe per filosofare, dimenticando che, invece, si filosofa per dare il proprio contributo alla «crescita individuale e civile»).
Si potrebbe aggiungere una terza acquisizione ‘sapienziale’: un simile modo di praticare la filosofia, per quanto concentrato sul presente e aperto alla progettazione del futuro, non si sottrae a
«l’inquietudine e la pena che nascono dal passato: da comportamenti e fatti su cui grava il peso dell’irrevocabilità. E talvolta del rimpianto. Il conoscere-apprendere attraverso la sofferenza – ammoniva Eschilo – è un dono che costa travaglio: fa scendere nel nostro cuore, anche durante il sonno, qualche goccia di tormentoso ricordo del male».
Una filosofia che non ripiega in una sorta di «anti-pedagogia della dimenticanza» pur di evitare il pungolo dell’interazione con «le testimonianze più significative delle sofferenze patite sulla Terra: quelle dei sommersi».
Una quarta lezione che potremmo trarre dalla “sindemia” in corso riguarda l’ampliamento del nostro orizzonte di preoccupazioni: «alle sofferenze che hanno sempre accompagnato la vita e la storia si stanno affiancando ferite ecologiche che ormai coinvolgono l’intero pianeta».
Alla globalizzazione dei mali non si può reagire frammentariamente, secondo la logica tribale, ma convertendosi – gradualmente – a «un cosmopolitismo all’altezza dell’Antropocene» consapevole del fatto che «nessuno si salva da solo»; che «le frontiere che contano ormai sono solo quelle del pianeta», tra i cui cittadini vanno inclusi gli «altri ‘agenti animati’ che vivono sulla Terra». Siamo entrati, infatti, nell’
«Antropo-cene, un’era geologica di cui è artefice l’agire umano (Anthropos) e che è del tutto nuova (come ci ricorda il suffisso -cene, dal greco kainos) rispetto ai precedenti Olocene e Pleistocene, durati rispettivamente migliaia e milioni di anni» [7].
Possiamo far finta di niente oppure – seguendo il pressante invito già di Jonas – assumerci la “responsabilità” di questa nuova condizione dell’uomo nel cosmo: attrezzarci di un’«etica dell’eco-appartenenza».
Una quinta lezione, infine, potrebbe riguardare più direttamente la consapevolezza dei rischi intrinseci alle nostre attuali risorse scientifico-tecniche:
«gli odierni rampolli di Homo sapiens dispongono di conoscenze scientifiche e capacità tecnologiche davvero formidabili, ma stentano a utilizzare con moderazione, solidarietà e lungimiranza la potenza che esse mettono nelle loro mani, e che in precedenza l’umanità non ha mai posseduto. Spesso infatti questa potenza viene finalizzata non tanto a una più giusta estensione di beni comuni quali cibo, salute, istruzione, liberazione di tempo da dedicare alla fruizione di cultura e bellezza, bensì agli interessi economici, politici, militari dei paesi e dei gruppi sociali più influenti».
E la fede biblica?
La pedagogia della sofferenza, proposta da Franceschelli, in quanto «collocata nel binomio mondo-uomo» è «certamente eterogenea e alternativa rispetto a ogni interlocuzione religiosa condotta nel trinomio Dio-uomo-mondo». Questa formulazione potrebbe dare adito ad almeno due interpretazioni.
La prima – che potremmo qualificare ‘polemica’– è esclusa dallo stesso autore:
«nel prendere congedo dall’ex malo bonum, questa pedagogia non si sente ideologicamente in polemica con la speranza dei credenti che interloquiscono con le promesse di Dio. E ancor meno con i comportamenti solidali che una simile interlocuzione può sollecitare: col precetto ebraico che esorta a riparare le ingiustizie e le ferite del mondo (tiqqun ‘olam); col soccorso samaritano insegnato da Gesù di Nazareth; con la solidarietà alimentata anche dal sentimento religioso di quanti guardano a Dio come al totalmente Altro di cui si continua a sentire nostalgia pur riconoscendo che della sua esistenza non si può avere certezza. O si è smesso di averla».
Una seconda interpretazione – che potremmo chiamare ‘alternativa’ e che mi pare la più fedele all’intentio originaria dell’autore – vedrebbe la pedagogia ‘laica’ (o decisamente ‘a-tea’ almeno nel senso che prescinde totalmente e radicalmente dall’ipotesi di un Dio, trascendente o immanente o trascendente/immanente) come il sentiero prescelto da quanti, davanti al bivio di una «opzione fondamentale» (formula cara alla teologia morale cristiana), scartano il fiducioso abbandono dell’attesa della «redenzione delle sofferenze terrene promessa dal Padre celeste a chi confida in lui».
Capisco benissimo che, leggendo la stragrande maggioranza dei testi cristiani (dalla Bibbia a oggi), questa visione basata su un aut-aut possa essere considerata, da atei e da credenti, come l’unica adottabile. Il messaggio essenziale del vangelo (il “Discorso della montagna”) è stato anestetizzato e sterilizzato sin dai primi decenni dopo la sua proclamazione da parte di Gesù: affamati e assetati, poveri e perseguitati, devono gioire non più per una liberazione (“il regno di Dio”) anche socio-economica, collettiva e soprattutto immediata, ma per una liberazione solo interiore, solo individuale e soprattutto ultra-mondana (post mortem).
Tuttavia, personalmente, propendo per una concezione ancora diversa che potrei denominare, molto approssimativamente, ‘embricante’: sperare nel riscatto-guarigione-compensazione finale delle sofferenze umane e animali, ad opera di Dio stesso (un po’, secondo l’apostolo Paolo, come il parto di una donna riscatta-guarisce-compensa i fastidi della gravidanza e le doglie conclusive), non esclude – anzi, al contrario, implica ed esige – una “pedagogia della sofferenza” quale delineata da Franceschelli. Un’idea appena appena adulta del Divino esclude ogni intervento “dall’alto” a favore dell’umanità: come evidenziato da minoranze pensanti della tradizione cristiana (da Tommaso d’Aquino a Teilhard de Chardin), Dio agisce nell’universo non estrinsecamente, ma conferendo agli esseri ‘creati’ il potere di agire autonomamente.
In fondo, è la saggezza arcaica del detto popolare “Aiutati ché Dio ti aiuta” (dove il “ché” gioca, confusamente o embrionalmente, una funzione polivalente causale e finale: aiutati poiché è questo il modo con cui Dio ti può aiutare e aiutati affinché, mediante il tuo aiuto, Dio ti possa aiutare) [8]. Attendere dalla grazia imprevedibile del Mistero divino una liberazione, attuale o escatologica, dai risvolti dolorosi del processo evolutivo cosmico, senza mobilitare tutte le proprie risorse antropologiche, sarebbe manifestazione di fideismo più che di fede. Di superstizione infantile più che di utopia ragionevole.
Franceschelli scrive: «se collochiamo le nostre vite all’interno del binomio naturalistico mondo-uomo, allora dobbiamo educarci a interagire con le nostre sofferenze senza inserirle in prospettive di redenzioni storiche o escatologiche». Non vedo come si possa contestare questa affermazione quasi tautologica (se non ammetti Dio, neppure come ipotesi, non puoi aspettarti redenzioni che non vengano dall’umanità). Ma la mia attuale convinzione è diversa (se si considera con attenzione, non esattamente contraria): se inseriamo la nostra interazione con le sofferenze in prospettive di redenzioni escatologiche, non possiamo dimenticare che le nostre vite sono – intanto e prima di tutto – inserite nel binomio mondo-uomo. Nessuna speranza religiosa può fiorire fuori dall’humus di una spiritualità antropologia, basica, naturale (di cui, a mio sommesso ma convinto avviso, è parte integrante ogni ragionevole “pedagogia della sofferenza”).
Tutto il ragionamento precedente si è snodato all’interno di un orizzonte fondato sul presupposto che la natura, plasmabile e contraddittoria, dell’animale umano [9] vada educata [10] a rapportarsi, con la mente e con le braccia, in maniera criticamente costruttiva con le sofferenze di ogni genere che da sempre l’assediano. Ma questo presupposto è abbastanza solido o ci sono delle scorciatoie alternative alla via tradizionale della faticosa e incerta azione pedagogica? Il filosofo non può dare nulla per scontato e deve esaminare seriamente le
«promesse del tecno-ottimismo che preconizza l’avvento, se non del post-umano, di uomini-cyborg: di una sorta di nuovi ‘terrestri’ che dovrebbero essere dotati di capacità etiche (empatia, senso della giustizia, solidarietà) a loro finalmente trasmesse anche mediante algoritmi predisposti grazie all’intelligenza artificiale e impiantati nei loro corpi».
Ebbene, anche a concedere per comodità dialettica che tale «fabbricazione di esseri viventi (antropopoiesi bio-ingegneristica)» sia praticabile tecnicamente e legittima moralmente, «i creatori di questi algoritmi della saggezza (o dei farmaci finalizzati al bio-enhancement) non dovremmo essere comunque noi esseri umani»? E come saremmo in grado se non già educati nel presente – attraverso un cammino pedagogico ed etico-politico «più complesso e più impegnativo del manipolare direttamente i corpi» (altrui) – alla «graduale ma concreta transizione dall’attuale cosmopolitismo dei mali comuni al cosmopolitismo dei beni comuni»?
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Si pensi alla «rigida avversione per ogni “positiva gioia di vivere […] e un disprezzo per il corpo e per la vita dei sensi” (M. Pohlenz) che rendono a dir poco problematiche non solo la benevolenza cosmopolitica e la sopportazione dei mali care agli stoici, ma anche lo stesso, concreto vivere secondo natura da essi perseguito».
[2] «È al servizio della volontà di potenza che egli [Nietzsche] ha suggerito di mettere l’umana – anzi: sovrumana – capacità di sopportazione, spingendosi perfino a chiedere ai propri discepoli di essere disponibili non solo a soffrire, ma anche a infliggere sofferenze»: «ai più deboli – al gregge degli uomini allevato dalle moderne democrazie».
[3] Ci si riferisce ovviamente all’ “uso delle biotecnologie” «volto a produrre superuomini post- o trans-umani». Alcuni passaggi di testi stoici (ad esempio l’esortazione di Seneca: «Sopportate da forti [ferte fortiter]. In questo superate anche Dio: egli è esente dalla sopportazione dei mali [patientia malorum], voi siete superiori alla sopportazione»), suggeriscono l’idea che non siamo proprio all’opposto dell’antropocentrismo nietzschiano e che l’invito di Epitteto a darsi pensiero solo di occupare il proprio posto nel mondo «con disciplina e sottomissione a Dio» non riesce a occultare del tutto l’orgoglio che sospinge a una “apatia” sovrumana, al di là del ‘bene’ e del ‘male’ (intesi, questa volta, in senso fisico e socio-economico, non morale come sarà per Nietzsche).
[4] Secondo Franceschelli, dunque, «l’attività filosofica è ben lungi dal coincidere con lo “staccarsi da tutte le cose esteriori” e con “l’abbandonarsi alla contemplazione di Lui”: con l’entrare in conversazione con Dio o indiarsi, come secondo Plotino accadrebbe sempre “a chi abbia molto contemplato”». La filosofia non coincide con la mistica, insomma (e concordo); ma neppure – noterei sommessamente – la esclude. Ovviamente, per dirimere la questione, bisognerebbe preliminarmente convenire sul significato del vocabolo ‘mistica’ che per qualcuno significherebbe, da Meister Eckhart a Hegel, «l’approfondimento spirituale, in senso assolutamente razionale» (M. Vannini, Escatologia e/o mistica in Aa.Vv., Sulle cose prime e ultime, Augustinus, Palermo 1991: 27) e, di conseguenza, addirittura il nucleo essenziale e irriducibile sia della fede cristiana che della filosofia occidentale.
[5] La circolarità dialettica pensare-fare necessita di almeno due condizioni. La prima (inficiata, come si è visto, dall’idealismo post-kantiano) è che la soggettività ‘spirituale’ non sia tutto; che si riconosca alla realtà naturale extra-umana una consistenza su cui operare. La seconda condizione è che il soggetto non sia in tutto e per tutto omologo all’oggetto; che possegga una qualche forma di trascendenza ‘critica’ verso la materia di cui pure è impastato. Franceschelli rivendica, legittimamente, la presenza in Marx della prima condizione, il realismo gnoseologico e ontologico, difendendolo (sulla scia di Lukács) dall’accusa di un pragmatismo che eliminerebbe «tanto dalla teoria che dalla prassi ogni rapporto con la realtà oggettiva». Non altrettanto forte mi è sembrata la sua preoccupazione di rivendicare, in Marx, la seconda condizione: a mio avviso, infatti, Marx supera i materialismi settecenteschi non solo perché “teorici” (poco attenti alla dimensione attiva, pratica, dell’essere umano), ma anche perché troppo unilateralmente…materialisti. Dietro la facciata del suo attivismo (non perdiamo più tempo in dispute teoretiche, filosofiche, interpretative del mondo: mi viene da sospettare che celasse il dubbio che l’uomo, pur non essendo solo ‘spirito’, fosse anche tale. Non era così ingenuo da ignorare che recepire la lezione degli idealisti sul “lato attivo” della soggettività umana significasse, inseparabilmente, mutuarne l’istanza meta-materialistica: se sono esclusivamente un aggregato di materia, perché non dovrei beatamente accontentarmi di essere trascinato nel suo flusso perenne? Lo stesso Franceschelli cita passaggi dei Grundrisse in cui Marx tratta del rapporto tra le «forze della natura e dello spirito»: egli li cita per segnalare «il rischio di sopravvalutare l’attività dell’uomo e svalutare la naturalità del mondo», ma potrebbero essere anche indici a favore del mio sospetto. Il nodo teoretico resta comunque la identificazione o meno di ‘natura’ e ‘materia’: la materia è certamente natura, ma non tutta la natura. Si potrebbe azzardare: la materia è la natura prima che attui, e manifesti, alcune delle sue numerose (forse innumerevoli) potenzialità.
[6] Engels si dichiarava «convinto che col marxismo la filosofia sarebbe stata “cacciata dalla natura e dalla storia”. Non a caso invece, per un interprete delle Tesi su Feuerbach dell’importanza di Gramsci la filosofia “in quanto filosofia della prassi non è abolita e sostituita dalla pratica, come parrebbe dalla tesi XI e dalle sue consuete interpretazioni”. Appunto: da cacciare dalle nostre visioni dei rapporti tra realtà naturale e storia umana non è la filosofia, ma la prassi senza filosofia, il fare e l’attivismo senza pensare».
[7] «Il dibattito sulle cause, sulle conseguenze e sulle potenzialità di questa nuova epoca […] è indubbiamente arricchito dal contributo degli studiosi propensi a definire non Antropo-cene ma Capitalo-cene il periodo storico in cui viviamo, visto che il “deragliamento geologico” del sistema Terra è stato causato non tanto dall’agire di un’indifferente umanità (dall’Anthropos) quanto dal saccheggio capitalistico delle risorse naturali […], anche nella versione sovietica e cinese».
[8] Per restare nell’ambito della problematica sollevata dall’attuale pandemia, alcuni ci siamo interrogati nel volumetto a più voci, curato da Paolo Scquizzato, La goccia che fa traboccare il vaso. La preghiera nella grande prova, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2020. Nel mio contributo (Focolai di preghiera, trasformazione del mondo) osservavo, tra l’altro, che «le cause prossime della pandemia coincidono con un abuso delle risorse ambientali (terra, aria, acqua, flora, fauna…) da parte delle fasce privilegiate dell’umanità: perché un Dio dovrebbe supplire alla tracotanza antropocentrica di una Modernità aggressiva che accomuna regimi formalmente liberal-capitalistici e regimi formalmente social-comunisti? Perché – riprendendo il coraggioso pastore antinazista Bonhoeffer – un Dio dovrebbe fare da tappabuchi dell’insipienza umana?». Dunque, per il cristiano teologicamente maturo, pregare è «chiedermi come posso mettere a frutto – per l’autorealizzazione e per la protezione di tutti i viventi – le potenzialità intellettuali, morali, psichiche, fisiche, economiche che, senza merito ma non senza responsabilità, mi ritrovo».
[9] «Oggi anche l’antropologia evolutiva […] ci ricorda che nella natura umana sono operanti non solo acquisizioni egoistico-acquisitive (homo oeconomicus), ma anche condotte altruistiche e solidali».
[10]«Miglioramenti graduali sono possibili proprio dal fatto – come ammoniva già Democrito – che la natura (physis) e l’attività educativa (didache) sono simili e interagiscono fino al punto che anche la seconda e i processi di civilizzazione da essa favoriti possono contribuire a dare “nuova forma all’uomo e mediante questa trasformazione a modellare la natura (physiopoiei)” (Democrito)».
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Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).
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