di Giancarlo Bruschi e Giuseppe Sorce [*]
Le immagini colorate di Gramsci che si racconta bambino
È in distribuzione da qualche mese una raccolta di lettere di Gramsci, prefate da Noemi Ghetti, con illustrazioni di Francesco Del Casino e postfazione di Pietro Clemente, Ti racconterei altre storie, sempre più meravigliose (L’asino d’oro editore). Le mie note arrivano in ritardo rispetto alle numerose presentazioni a Siena, Milano, Cagliari, Firenze e Roma, tutte caratterizzate da un vivo interesse dei partecipanti, molti dei quali giovani, stimolati emotivamente dall’inattesa presenza di pregnanti immagini e di testi sapientemente scelti, sorretti da una profonda e stimolante postfazione.
I testi riguardano eminentemente la sfera degli affetti, ma alcuni di essi riportano alle vicende politiche di cui Gramsci fu protagonista e anche vittima. La singolarità di questo lavoro a più mani sta proprio nel rapporto quantitativo tra testo e illustrazioni, che Pietro Clemente evidenzia così: «L’immagine ha una forte predominanza sul testo. Essa ha il compito di dare orientamento immaginativo al racconto e viceversa mostrarsi fondata su di esso». In questo libro dominano le immagini e specialmente quelle del narratore bambino, del suo doppio adulto carcerato e della moglie lontana. «Ma di fondo il disegno racconta relazioni reali e desiderate ben più di quanto possa dire il testo. Ed è questa la ragione profonda dell’espressione artistica e della sua capacità di produrre immaginazione ed emozione».
«C’è dietro una teoria del ‘fare’ artistico – precisa Clemente – lontana mille miglia dall’idealismo che ha fondato la storia dell’arte italiana». Un atteggiamento che dura ancora nella cultura italiana, spesso in maniera inconsapevole, e che Gramsci ha combattuto con la durissima critica svolta nei Quaderni su Benedetto Croce. Perché l’idealismo, come una Circe, riesce a fornirci una sua immagine della realtà del tutto diversa da quella vera. Un occhio sul passato e uno sul presente.
Francesco Del Casino spiega così il suo lavoro: «nel tentativo di trasformarlo da icona (politico, prigioniero, martire) in un uomo vero che riappropriatosi del suo corpo malandato è però capace di amare, scherzare e criticare anche duramente le persone». Ogni testo gramsciano è accompagnato dalle immagini elaborate da Del Casino, nello stile che gli è proprio. Questa elaborazione è durata nel tempo a partire da un primo incontro on line con Pietro Clemente nella rete virtuale dei circoli sardi Distanti ma uniti. Casa Sardegna on line. Poi una mostra di pitture e ceramiche sempre sul tema di Gramsci. Quindi temi e figure elaborati lungamente. Continua Pietro Clemente: «Mi aveva sempre incuriosito e affascinato il Francesco dei murales, ma anche quello della grafica, la sua capacità di attualizzare una ispirazione pittorica legata sia al neorealismo che alle avanguardie impegnata come arte pubblica…quello dell’illustrazione è stato davvero una sorpresa».
Quando si tratta di grandi personalità, poco rappresentate in immagini reali, ciascuno se ne forma un’immagine mentale che non necessariamente coincide con quella di altri. Del Casino ci offre la sua proposta come stimolo e come occasione di riflessione. Clemente ci propone tre immagini particolarmente interessanti. «L’ultima immagine del racconto del topo e della montagna, dove vi è una ricchezza di vegetazione tornata alla terra…e una forte rappresentazione della natura non ordinata e selvatica. L’altra immagine è quella di Gramsci russo davanti al Cremlino. Infine la rappresentazione della famiglia Gramsci (…). Nella rappresentazione di questa famiglia vedo gli stilemi propri del racconto per immagini, in cui – mi sembra – ci si misura con il disegno per l’infanzia, ma soprattutto con il disegno infantile, una dimensione importante nell’arte de Novecento, e un dialogo artistico alla luce del quale possiamo anche provare a rivedere tutte le illustrazioni».
Dal mio punto di vista sono attratto dalle illustrazioni del racconto dell’uomo caduto nel fosso e dal ritratto di una capra della storia del topo e la montagna. Forse perché vi è più esplicito il movimento, penso alla vivezza degli occhi della capra o forse perché Francesco non vincolato dall’esigenza di immaginare una realtà riferita a personaggi certi, ha potuto dare fiato alla sua profonda ironia, slegato da sentimentalismi veri o presunti. Mi diverte l’aria saccente del professore, mi piacciono i colori notturni della scena dell’uomo di chiesa inutilmente esorcizzante. Qui l’artista è completamente libero da vincoli e può dare pieno sfogo alla sua creatività. Come nel caso della capra che ha fatto parte del vissuto quotidiano di Del Casino a Orgosolo.
Da inguaribile stendhaliano immagino un Gramsci – almeno prima della carcerazione – più dinamico, capace di percorrere a piedi i 18 chilometri che separavano il collegio dal luogo di abitazione, o in movimento per l’Europa o impegnato nelle occupazioni delle fabbriche. Resta il fatto che le tavole che illustrano il libro sono capaci di destare emozioni e provocare motivazioni di ricerca.
Una osservazione finale, come nei quadri di grandi autori, non ci si deve fermare all’immagine principale ma andare a cercare i tanti dettagli, ciascuno portatore di un significato. Le illustrazioni si rapportano a dei testi oculatamente scelti, non solo le Lettere dal carcere. La lettera da cui prende titolo il libro fu scritta a Vienna nel 1924, indirizzata a Giulia Schucht, da lui sposata e madre di due figli. I rapporti tra i due peggiorano per la cagionevole salute di lei ma anche per ragioni culturali e per il disagio di una impegnativa militanza politica che porterà, alla fine, Gramsci a lasciare la Russia per tornare a Roma, dove sarà arrestato e condannato. Nella lettera emerge il Gramsci che io definisco ’dinamico’. Attiva un fuoco pirotecnico di trovate verbali per rievocare momenti felici, quindi immagina di fare per lei oggetti costruiti nella sua ‘infanzia selvaggia’, di cui evidentemente hanno parlato in passato. Ma «siccome sono ormai istupidito e incretinito, sarà cosa seria e terribile andare avanti…insieme faremo cose belle e buone, pur diventando ogni tanto come bambini che giocano (…). Mi pare di vederti invece sempre seria, abbuiata»
In un’altra lettera emergono pure divergenze con Tatiana, la sorella di Julca rimasta in Italia. Il titolo nel libro è: “Io non ho nessuna razza”. Gramsci parla di una diceria secondo la quale gli ebrei avrebbero avuto la coda, e spiega che era una barzelletta etnocentrica spiegatagli da un commissario russo. Nell’illustrazione appare un Gramsci in abiti invernali, piuttosto piccolo, dinnanzi ad un commissario politico ebreo, grosso, con un berretto di pelo fregiato di stella. Vale la pena di citare la parte finale della lettera: «Io stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente …mia nonna era una Gonzales e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola…mia madre è sarda per il padre e per la madre …. E la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel1847, dopo essere stata feudo personale dei principi piemontesi…Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo». Evidentemente erano nate discussioni su questo tema dell’identità e della razza, tema destinato a diventare bandiera pretestuosa per alcuni agitatori sardi o siciliani o di altrove. E Gramsci pur rivendicando la sua italianità non rinnegava la sua origine sarda e mostrava di vivere nella sua cultura infiniti momenti della vita sarda. Importante momento di riflessione per tanti.
Ancora una volta nel pretesto della ‘nazione’ sarda o siciliana vi è una radice di cultura idealista. E un poco di opportunismo politico. Mi viene però da osservare che questa felice operazione editoriale è, in fondo, il frutto degli scritti di Gramsci che rivendica il suo sangue misto, di Pietro Clemente che può rivendicare complesse radici multiregionali, di Francesco Del Casino e di Noemi Ghetti, quantomeno migranti economico-culturali, per non dire di me discendente di Siciliani migrati in Sardegna al momento della presa della Sicilia da parte di Garibaldi, di avi toscani arrivati in Sardegna su di una barca di pescatori, passando per una terribile tempesta, e di un padre lombardo pure lui migrante economico. Quindi le lettere di Gramsci, sono lettura ancora attualissima anche in questa prospettiva.
Altre lettere dedicate ai figli, con il ricordo di imprese della sua infanzia, sono qualche volta un poco pedantesche. In altre (sempre indirizzate a Tatiana) ricorda il suo pessimo stato di salute. Sintetizza Pietro Clemente: «In alcune sue lettere dice che non riesce a dormire, che ha smemoratezza, che ha attacchi di emotisi. A pochi giorni dalla scrittura del testo sul topo e la montagna, in una lettera parla di un nuovo attacco di emotisi, di un dolore al cervelletto e alla scatola cranica per cui gli sembra di diventare ’mezzo pazzo’… I disagi della detenzione (rumori e ostilità) si sommano con tisi, arteriosclerosi, perdita di denti e scrive perfino: “Mi interessa di essere tolto da questo inferno in cui muoio lentamente”». Con la sua famiglia non ci fu un incontro totale, fu sgretolata dal fascismo, lacerata anche nel rapporto con l’URSS (Julca, il PCUS).
Pochi ma interessanti i testi riferiti alla vita politica, in relazione ai quali bisogna fare riferimento principalmente all’introduzione di Noemi Ghetti. A lei si deve anche il libro dedicato a Gramsci e ai suoi rapporti con le donne: madre, sorella, la moglie e la cognata Schucht. L’intera bibliografia è reperibile nel testo. Nella prefazione è anche ricostruito il destino delle ’Lettere’ nel corso degli anni e sono prese in esame le diverse interpretazioni che ne furono date. L’autrice spiega poi come sia maturato il progetto di questo libro, a partire da una visita alla mostra di lavori di Francesco del Casino dedicata a Gramsci in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Gramsci. La mostra era stata allestita a Siena, nelle Stanze della Memoria – luogo di tortura durante la Resistenza – con la collaborazione di Pietro Clemente, su iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza di Siena. Noemi Ghetti ricorda ancora la sua visita ad Orgosolo dove per la prima volta vide i murales di Del Casino e ne fu fortemente colpita. Da questo lavoro a tre nasce Ti racconterei. Racconta come ebbe modo di occuparsi di una cartolina inviata da Mosca da Gramsci e Julia Schucht alla sorella Eugenia, da cui prese vita l’idea del titolo del suo libro La cartolina di Gramsci. A Mosca tra politica e amori. 1922-1924 (Donzelli, Roma 2016).
A questa cartolina sono dedicate le due ultime tavole del libro. Esse sono gli unici testi che riguardano l’attività politica di Gramsci, riprodotti in questo volume. Sono però un indizio significativo e un invito ad approfondire la sua condizione e l’attività da lui svolta a Mosca, che poi – è ormai provato – ebbe per lui conseguenze negative in Italia. Non è più contestato infatti il suo opporsi ai metodi di Stalin, come sono evidenti i contraccolpi in Italia, sia per una compromettente lettera a lui indirizzata che indicandolo come capo del partito rese più agevole la sua condanna penale, sia poi per l’atteggiamento di sospetto e poi di aperta ostilità nei suoi confronti tenuti in carcere da molti compagni.
Molti anni fa ebbi modo di interpellare uno dei militanti comunisti che a Roma organizzavano il partito comunista e con Gramsci fu condannato nel ‘processone’, scontando poi lunghi anni di carcere. Alla domanda tesa a sapere di cosa parlasse Gramsci e quali fossero le sue idee non rispose, non ricordava ed era reticente. Poi con un sorriso un poco imbarazzato disse che a Gramsci puzzavano terribilmente i piedi e che alle rimostranze dei compagni si levava le calze e le metteva in tasca. Mi è stato detto da fonte assolutamente attendibile che anche Emilio Lussu rimproverava spesso Gramsci per il suo modo di vestire trasandato, non adeguato alla dignità che avrebbe dovuto avere un parlamentare; lo rimproverava anche perché si lavava poco. Quindi c’è la conferma dell’ipotesi che diversi militanti non prendessero in adeguata considerazione le sue affermazioni, a seguito dell’attività di discredito messa in atto nei suoi confronti da quelli che possiamo chiamare gli ‘stalinisti’.
Dall’altra parte emerge la figura del dirigente talmente impegnato da trascurare igiene e abbigliamento. In fondo era lo stesso Nino che nell’infanzia si pestava le mani con un sasso per correggersi o quello che nelle pene del carcere correggeva la grammatica italiana della cognata russa che lo assisteva. Il libro incomincia ad assolvere alla sua funzione di provocazione stimolando un contributo al quale certamente altri faranno seguito. Il ritratto incomincia a diventare a tutto tondo. La Ghetti spiega come la cartolina sia stata scritta e disegnata da Gramsci che aggiungerà anche dei versi. Essa fu composta nella notte del 16 ottobre 1922 e inviata a Eugenia Schucht con un messaggio firmato dalla sorella Julia. Eugenia era ricoverata in una casa di cura, a Soci, dove Gramsci la conobbe. Gramsci si rappresenta stretto tra le due sorelle scrive: «Sulle rive dell’ampia Moscova/ vidi Gramsci soletto e pensoso/A un’anguilla che a secco si trova/ Domandai a che pensa il meschin?», nell’altro verso disegna un letto con diciannove gambe in fuga e un volto umano. Una donna scarmigliata e con le braccia alzate urla di prenderlo poiché è un controrivoluzionario. In altre immagini la firma Grillus pinxit et scripsit. Inconfutabile la scritta: “prendetelo è un controrivoluzionario!”. Facile accusa a centinaia di migliaia di persone fatta nel corso degli anni nella Russia sovietica. E poi il Gramsci pensoso davanti al Cremlino, quasi presago delle future sventure.
In chiusura rinviamo alle parole di Noemi Ghetti che credo riassumano anche il pensiero di Pietro Clemente e Francesco del Casino: «Questo libro sarebbe piaciuto a Gramsci. Ispirate alle sue lettere, le illustrazioni sono la migliore conferma dell’idea, coltivata da Antonio Gramsci fin da ragazzo, dell’assoluta necessità di una nuova cultura, lontana da ogni sussiego intellettualistico, aperta anche agli esclusi dalla storia: bambini, donne, operai, immigrati. Una nuova egemonia culturale, una rivoluzione dal basso, senza armi, solo del pensiero e della parola, che sappia rispondere, insieme, sia ai bisogni che alle esigenze umane. Accessibile a tutti, fin dai banchi di scuola».
Ci sarà lasciato il tempo di vedere il lupo assieme all’agnello?
Di carcere e sogni
Non tutti gli esseri umani sono individui di grandi passioni. C’è chi spende la propria vita adagiandosi sulla propria vita stessa, ricercando upgrade sul lavoro, sulla casa, sugli affetti magari, sulla mondanità, sul consumo. C’è chi si accontenta di poco invece o chi non si accontenta mai. Chi non ha la fortuna di potersi accontentare di niente perché non ha niente e allora ciò che gli interessa è sopravvivere, ovviamente.
Ma, salvo eccezioni, nella fortuna o nella sfortuna, lo stile di vita occidentale, qualsiasi cosa voglia dire nello specifico, in linee generali, fino ad ora quantomeno, ha offerto e offre la possibilità a una buona fetta di persone di poter così vivere una vita ‘piana’. Certo, per il protagonista ipotetico di questo esempio un po’ grossolano, la sua sarà una vita epica, divertentissima, piena. Dal punto di vista della storia sicuramente no. E, salvo la riproduzione e conseguente propagazione dei propri geni e relativa (in tutti i sensi) memoria genetica, la sua esistenza si confonderà con quella della massa di tutti gli altri. Ci piaccia o no è così.
E allora che fare? Realizzare l’inevitabilità di tutto questo oppure crearsi delle illusioni in senso leopardiano ossia tutto ciò che fa sì che un individuo possa concentrare i suoi sforzi in qualcosa, una credenza che lo stimoli o lo ispiri, un’idea, un’attività, una missione, di qualsiasi tipo, al fine di, sempre parafrasando il poeta di Recanati, sentire meno la vita, cioè: distrarsi dalla sofferenza propria dell’essere umani. Sentire meno la vita, in quanto esperienza dolorosa, per sentirla di più, in quanto esperienza che può dare dei brevi momenti di felicità.
Ci sono quindi individui che per natura hanno la propensione verso qualcosa, hanno passione per qualcosa, diremmo oggi, a tal punto da dedicare la loro traiettoria esistenziale in seno a quella passione, che poi può realizzarsi in una professione, un hobby, un interesse, una missione parallela al lavoro ecc. ecc. Ci sono anche le cose che uno si sceglie, magari scopre col tempo. E ci sono poi le cose che ci scelgono, in qualche modo. Vocazioni, destini, casualità, inclinazioni, scelte, non-scelte, fughe e rincorse, scalate e pianure, desideri e paure, spettri, idoli ed eroi.
È così che ho incontrato alcuni temi e personaggi che negli ultimi mesi sembrano essersi condensati senza che io li andassi a cercare in un grumo di riflessioni e azioni necessarie. Antonio Gramsci è uno di questi, lui che invece era un individuo di grandi passioni, di grandi idee, politiche, intellettuali, esistenziali, civili. Dapprima la sua esperienza a Ustica, mia scorsa meta di lavoro e di vita, adesso il prezioso volume Ti racconterei altre storie, sempre più meravigliose (L’Asino d’oro edizioni 2022), è una piccola gemma che raccoglie alcune lettere del filosofo italiano scelte da Noemi Ghetti, alle quali si accompagnano i disegni di Francesco Del Casino e un contributo finale di Pietro Clemente. È nel saggio introduttivo al volume che Ghetti ci racconta la storia editoriale di questo lavoro, l’intersecarsi di vite, ricerche, interessi appunto, e incontri.
Scopro così della passione di Gramsci per il disegno, l’interesse per i racconti popolari, la tensione continua verso il “fuori” durante la sua carcerazione. Novelle per bambini, lettere alla cognata, alla moglie, ai figli e alla sorella, ricordi della sarda terra natia, racconti di autori amati. Troviamo questo nelle epistole che compongono questo volume. Le illustrazioni e i disegni danno leggerezza alle parole, sullo sfondo bianco come quello di tutte le pagine del mondo, alla voce dello studioso italiano. È questo un libro denso ma allo stesso tempo disteso. Forme e colori accompagnano i testi, a volte li abbracciano. Ed è unico l’effetto dello stile di Del Casino nell’associarsi a queste lettere che con ancora più efficacia ci vengono restituite come quello che in realtà sono e cioè piccole finestre, affacci, talvolta spioncini, talvolta verande, sull’esperienza del carcere, del confino, dell’esilio politico, sociale, morale e umano di uno dei più lucidi intellettuali italiani in uno dei periodi più bui nella storia del nostro Paese.
È qui che il volume si intreccia con uno dei temi che più ho frequentato ultimamente, anche qui, volente e nolente, ossia la capacità di alcuni individui di fare dell’immaginario e delle storie un’arma di sopravvivenza. Come Reclus, Mosè Bertoni, Kropotkin, di cui ci parla Matteo Meschiari in Landness (Meltemi, 2022), Gramsci ha dovuto affrontare qualcosa che resta difficile da pensare e sentire sulla propria pelle: il confino prima e il carcere poi (dal 1926 fino alla sua morte nel 1937). E allora le lettere scelte per questo volume ci offrono molteplici sguardi sull’uomo Gramsci oltre che sull’intellettuale.
«Oggi sono sicuro che noi saremo molto felici, che insieme faremo molte cose belle e buone, pur diventando ogni tanto come dei bambini che giocano» scrive alla moglie in una lettera del 1924.
«E così è passato anche il santo natale, che immagino quanto sia stato laborioso per te. In verità, io ho pensato alla sua straordinarietà solo da questo punto di vista, l’unico che mi interessasse. Di notevole non c’è stato che il fatto di una generale tensione degli spiriti vitali in tutto l’ambiente carcerario; il fenomeno poteva essere osservato già in svolgimento da tutta una settimana. Ognuno aspettava qualcosa di eccezionale e l’attesa determinava tutta una serie di piccole manifestazioni tipiche, che nell’insieme davano questa impressione di uno slancio di vitalità. Per molti l’eccezione era una porzione di pasta asciutta e un quarto di vino che l’amministrazione passa tre volte all’anno invece della solita minestra: ma che avvenimento importante è questo, tuttavia. Non credere che io me ne diverta o ne rida. L’avrei fatto, forse, prima di aver fatto l’esperienza del carcere».
Così invece scriveva a Tania, restituendo un racconto sommesso, quasi delicato, profondamente realista, della vita del carcere, un mondo, voci, spazi, figure, che sarebbe stato il suo, unico e solo, fino alla morte. I racconti e le novelle poi al figlio Delio e alla sorella Teresina, ricordi della sua infanzia e della sua Sardegna che risplende come un sogno che si è vissuto per poco, lontano, ma radicato negli orizzonti del tempo. La pratica del disegno e dell’immaginario, la tensione verso la didattica come solo mezzo per fare comunità e per fare sapere, già protagonisti della sua esperienza di confino a Ustica, animano alcune delle corrispondenze scelte.
«Carissima Teresina, ho ricevuto la tua lettera del 14, con la lettera di Franco, i suoi disegni a colori e la letterina di Diddi e Mima. Ringrazio tutti i tuoi bambini e non so proprio immaginare che cosa possa fare per dimostrare il mio affetto per loro. Ci penserò e vedrò di inventare qualche cosa che venga da me per loro, perché altrimenti non ci sarebbe gusto e non avrebbe nessun significato. Farò forse così. Ho tradotto dal tedesco, per esercizio, una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini e che anzi in parte rassomigliano loro, perché l’origine è la stessa. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera ecc. non è ancora penetrata abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro d’allora».
Alla quasi cruda dolcezza di queste e altre parole e pensieri del filosofo che troviamo in questo volume, si accompagnano disegni e illustrazioni di Del Casino, che Pietro Clemente descrive così:
«Francesco lavora con spirito sperimentale, talora si lascia guidare dalle forme che nascono dalla manipolazione della materia o dall’esecuzione delle pitture, progetta ma resta aperto al procedere dell’opera. Alle spalle delle illustrazioni di questo volume ci sono dunque anni di costante pratica con la figura di Antonio Gramsci, così come con quelle della moglie e dei figli. Nelle sue opere, più volte, Francesco ha ricomposto quella famiglia che la storia dell’Europa così dolorosamente lacerò. Come se l’arte avesse anche il compito di rimarginare le ferite della storia. Gramsci entra dunque nelle opere di Francesco in molteplici forme: nei murales realizzati in Sardegna, nelle ceramiche senesi e infine nell’esperienza dell’illustrazione di pagine di corrispondenza, quelle in cui, più che altrove, ‘Nino’ si racconta bambino, libero».
Un connubio che pare quindi perfetto ma che in realtà lo è proprio in quanto legame, collegamento, ricerca e incontro fra il pittore e il filosofo. Incontro metaforico, della memoria, del tempo e del sapere, e poi reale, con la famiglia, i luoghi e i lavori, come raccontato da Clemente. Se le opere di Del Casino funzionano così genuinamente è per tali ragioni e riescono a svolgere un compito per nulla semplice, ossia lasciare i colori della pagina alle parole, tracciare le forme evocate dalle parole quasi come un gesto immaginato da sé e poi percorso di chi le legge. Non si impongono, acquarelli, pastelli e disegni, sul lettore bensì lo assecondano nell’immedesimazione, lo cullano nell’immaginazione, lo guidano senza vincolarlo, lo ispirano, lo consolano quasi con una carezza variopinta ma mai invadente.
I tratti e i colori restituiscono un senso di ampiezza e pienezza proprio fondati su quella libertà di pensiero che costava la pena a Gramsci, e quel senso di libertà che l’intellettuale italiano riusciva a trovare nello studio, nelle ricerche, nella letteratura e nel suo immaginario proprio mentre trascorreva le giornate in cella, costretto ma mai taciuto. «La sua forza narrativa e la sua capacità di immaginare e costruire relazioni a distanza, anche quando erano impossibili, si collocavano in spazi speciali e luminosi del suo dolore quotidiano» scrive Clemente a tale proposito.
Questo piccolo libro vuole forse dirci qualcosa, che si può sperare anche quando tutto sembra perduto, che ciò che sembra irrimediabilmente lontano lo possiamo trovare vicino, che la pratica dell’immaginario delle narrazioni e dei saperi può riscattarci da un’esistenza senza pace. Nelle parole di Gramsci, in queste lettere, affiora una genuina umanità, una propensione continua all’altro da sé, alle giovani generazioni, agli affetti più cari che diventano metonimia di un mondo, fuori, in tumulto parallelo con un mondo interiore fatto di costrizioni e malattia. Fra tutto, fra tutto ciò che lo porterà alla morte, germoglia invece ciò che lo consacrerà alla storia, i suoi quaderni, le sue riflessioni, scritte proprio durante la prigionia, che ispireranno le lotte e la resistenza di tutti, nel mondo fuori e oltre la sua storia stessa. Che poi è diventata la nostra. Forse questo libro vuole dirci anche questo.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
[*] Giancarlo Bruschi è l’autore di Le immagini colorate di Gramsci che si racconta bambino; Giuseppe Sorce ha scritto Di carcere e sogni.
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Giancarlo Bruschi, laureato in Giurisprudenza, convertito per necessità all’insegnamento del Francese, ha studiato a fondo lingua, pedagogia e psicolinguistica per mettersi al livello del compito, attiva movimenti di rinnovamento della scuola. Assieme alla moglie ha gestito una libreria assai dinamica, ceduta la quale ha fatto una nutrita esperienza umana come magistrato onorario nel campo penale e specialmente in quello tributario, impegnandosi nel rendere spediti e credibili i processi. Vive attualmente a Bologna.
Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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