di Lella Di Marco
Crediamo sia giusto e utile, nella presente fase storico-sociale, raccontare la nostra esperienza, lunga quindici anni, con donne immigrate a Bologna. Piena di entusiasmi, passione, scoperte, spinte culturali e politiche, sorellanza, reciprocità, ansia di ricerca, ma anche delusioni, rinunce e abbandoni. Utile e giusto perché la confusione e la mistificazione sono davvero molteplici, come le numerose pubblicazioni sul fenomeno dell’ immigrazione e i goffi tentativi di dare la parola ai migranti.
In un momento di grande difficoltà collettiva e globale, senza punti validi di riferimento culturali e politici, riteniamo che raccontare storie vere, non manipolate, rimaneggiate o censurate, possa aiutare a capire di più come stanno davvero le cose.
La nostra esperienza-azione è iniziata nel 2000 per una serie di circostanze favorevoli: l’avere conosciuto nel reparto maternità in ospedale tante donne straniere i cui figli appena nati erano collocati in cullette vicino ai nostri figli o nipoti; l’averle poi incontrate per strada nel nostro quartiere con il neonato al collo in sacche tipo marsupio; nell’averle ritrovate al parco con i piccoli che si univano ai nostri per giocare; nell’averle infine viste pronte ad accettare un nostro saluto, a raccogliere un nostro invito, per uscire dal loro isolamento. In quegli anni la situazione era più mite, pacata e relativamente serena. Niente espressioni di odio razziale, niente rifiuto per le donne velate, niente diffidenze etniche, nessun sintomo di islamofobia.
Premetto che molte di noi donne native provenivano da pratiche politiche di femminismo, movimenti non violenti contro la guerra, azioni per la liberazione della Palestina, sicchè accarezzare il progetto di un volontariato di aggregazione di donne native e migrate è stata una scelta spontanea, partecipata, sentita ed entusiasta. Abbiamo parlato con le donne migranti, spiegato il nostro atteggiamento e soprattutto chiarito che non avremmo agito per conto loro o parlato al posto loro, ma sarebbe stato significativo e politicamente corretto costruire insieme un percorso condiviso, partendo dalla realtà contestuale comune e valorizzando competenze e saperi di ciascuna senza distinzione. L’obiettivo era quello di sperimentare un percorso nuovo, senza gerarchie e senza pregiudiziali, in piena autonomia intellettuale e di decisione.
Il fulcro delle donne immigrate proveniva dal nord Africa: Egitto, Marocco e Tunisia, con alcune palestinesi, turche, irachene, iraniane, con formazione culturale diversa e diverse consapevolezze sulla esperienza migratoria e sui loro progetti di vita. Anche la loro estrazione di ceto sociale era diversa e questo è emerso subito.
Fondammo una associazione per essere una figura giuridica e potere interloquire con le istituzioni locali, alle quali avremmo chiesto, come prima cosa, una sede per non continuare a riunirci al parco. Sotto gli alberi. Tra native e migranti il gruppo iniziale contava già una trentina di persone, alfabetizzate e non, laureate e donne che non sapevano scrivere neppure nella loro lingua madre. Preparato lo statuto, il nome è stato proposto con entusiasmo e determinazione da una donna marocchina Fatiha, Annassim che in arabo significa brezza del mattino, come a indicare l’inizio di un nuovo giorno, metaforicamente di una nuova vita, fresca, piena di speranze come l’alba. Così diventammo Annassim, donne native e migranti delle due sponde del Mediterraneo. Con una evidente attenzione politica alle origini di ciascuna di noi, nate in Paesi bagnati da quel Mare nostrum, una volta, culla di civiltà ed ora tristemente noto come Mare Mostrum, cimitero di morti e naufragi.
Comunicare all’inizio era difficile. Ci si esprimeva con la gestualità, bisognava trovare una lingua comune. Frequentatissimi i nostri laboratori di lingua e cultura italiana. Le donne arabe circa 120, regolarmente in ritardo, arrivavano con piatti pieni di ogni prelibatezza, come fossimo digiune da un mese. Così tra il the marocchino alla menta ensemennn e il gaharir al miele o al burro, baci abbracci e salam, la lezione cominciava con almeno un’ora e mezza di ritardo. Ma il clima era di grande accoglienza e reciproca comprensione.
Ecco sulla puntualità la sfida, con loro, è stata molto dura. Con le più acculturate abbiamo realizzato laboratori di scrittura creativa. Anche in un contesto più impegnativo culturalmente la relazione era intensa, aperta alla reciprocità e alla conoscenza, aiutava nel dialogo. La messa in gioco era di tutte. Un modo per acquistare fiducia reciproca. Riportiamo la sintesi collettiva di scrittura individuale, nella quale le corsiste si sono riconosciute
L’Identità in transito: percorso di scrittura creativa su sollecitazione muta di oggetti
a cura di Fatiha, Claudia, Virginia, Maria, Paola, Cadigja, Karima, Fatima
«Evoco ricordi, sensazioni: la mia adolescenza e la mia giovinezza, la mia casa con i suoi odori, il senso di sicurezza che mi infondeva. La mia nonna e la mia mamma. Bellissime. La loro femminilità nella loro bellezza. Senza artifizi. Spontanea. La ricerca della luminosità, della morbidezza. L’henne la pianta del paradiso, come alimentare la bellezza delle donne in modo naturale e poi i preparativi sul mio corpo per il mio matrimonio … Il giorno più bello della mia vita.
La mia giovinezza: nostalgia e tenerezza, mancanza di libertà e divieti. Rimproveri, regole rigide e poi morbidezza luminosità, pelle liscia, gambe depilate, dolore fino alle lacrime, mani decorate con l’henne, amiche, amore, affetti e spensieratezza …
Sono una ragazza che vuole correre, divertirsi, ho la mente libera, non ho pensieri. Divieti sì. Come vestirmi, come camminare, cosa non fare. Cerco il ritmo per la mia vita. Non so ancora come possa trovarlo. Devo stare attenta a non lasciarmi schiacciare, a non fare indigestione di sollecitazioni . Rischio di vivere nel turbine. Devo trovare il ritmo
Voglio essere bella come la mia mamma, non ci riuscirò mai, lei è bellissima, elegantissima, raffinatissima. Sento che non potrò mai eguagliarla. Ma le mie figlie no, a loro non voglio proibire cose innocenti – devono avere il potere sul loro corpo. Non negarsi la bellezza Se lo smalto colorato è un loro desiderio a loro comprerò smalti di dieci colori diversi, uno per ogni unghia delle mani. I divieti che ho avuto io non devono ricadere anche su di loro.
Sento che alcune parole ormai mi appartengono: libertà, amicizia, amore, felicità, possibilità di scegliere. Le mie radici sono anche quelle delle mie figlie ma le loro si intrecciano con la mia trasformazione. Io sono tutto quello che ho vissuto e lo porgo loro perché siano più consapevoli, più ricche, come persone e più felici di me. Anche a loro appartengono: la morbidezza, la tenerezza, delle mamme, delle nonne, delle amiche, il piacere dell’hammam, l’hennè naturale. Strumento della tradizione. E lo smalto per unghie, ritrovato moderno.
I canti, i suoni, i sapori della mia terra sono stati miei e prima ancora di me, della mia mamma e ancora prima di lei della mia nonna. Le radici non si recidono, sono il nostro passato e senza passato non ci potrà essere futuro. Cerco il ritmo, il senso di appartenenza …posso non avere la mamma vicina, la nonna o le sorelle e i fratelli, posso ricollocarmi, trovare un altro senso di appartenenza, altri scopi nella vita, ma forte rimane sempre in me il bisogno di “comunità includente” di cui essere parte attiva.
Il tempo è passato …io cerco il ritmo».
Noi sorelle accoglienti e intellettuali
Ovviamente, nonostante i buoni propositi, l’atteggiamento di noi native acculturate e politicizzate è stato forse troppo intellettualistico. Siamo state “sorelle accoglienti e solidali” e le migranti si fidavano di noi e a noi si affidavano. Con naturalezza. Ci hanno raccontato le loro storie e le loro aspirazioni, mettendoci al corrente di questioni anche molto delicate sul loro rapporto coniugale, sulla famiglia di appartenenza, sul loro corpo, sulla loro attività sessuale… che neppure sotto tortura avrebbero rivelato ad operatrici dei servizi. In un freddo e repellente luogo d’ascolto per immigrati.
Così abbiamo appreso tante cose: che per esempio in Marocco la condizione delle donne è molto diversa a seconda della collocazione sociale della famiglia, come l’istruzione, l’accesso all’università ed anche la possibilità di esercitare una libera professione. Il Marocco fra i Paesi del Nord Africa è forse quello più stabile e più ricco, con un regime monarchico non proprio chiuso, con leggi forse anche moderne come il nuovo diritto di famiglia, ma con un notevole ritardo nella sua attuazione. E poi al suo interno lo sviluppo è a macchia di leopardo: zone vicine alle grandi città e zone lontane nella sperduta montagna, lontane dai mezzi di trasporto e comunicazione. Zone ancora prive anche di un presidio sanitario, di ospedali, di servizi, villaggi dove i venditori di merci arrivano soltanto una volta alla settimana per il mercatino locale. Nelle zone montuose risiedono ancora famiglie di berberi la cui lingua non è l’arabo ma l’amazing: essi non hanno rapporti assidui con gli abitanti della pianura e con il governo centrale. Ci sono zone dove si può morire per un morso di scorpione o di parto e un arto è frequentemente amputato perché andato in cancrena a causa di una infezione non curata.
Abbiamo appreso che in alcune zone in Egitto viene ancora praticata l’infibulazione, che alcuni ceti sociali sono assai poveri e disagiati economicamente, che per le ragazze il matrimonio è l’unica speranza di “benessere”, che molti egiziani sono privi di case e continuano a vivere al cimitero dentro sepolcri abbandonati
Abbiamo imparato che in Iraq e in Iran la condizione femminile, dopo anni di apparente emancipazione, è ancora largamente arretrata. Che in Palestina la crisi ha aumentato la repressione e la violenza sulle donne, anche dentro la famiglia.
Qualche storia emblematica
Samira B.
«Sono arrivata da un paesino della zona agricola di Casablanca da circa dieci anni. La decisione di venire è stata dettata dalla disperazione e il mio viaggio è stato quasi una avventura. Oltre ai miei genitori in famiglia siamo 4 figlie e un maschio. In Marocco lavoravo soltanto io, in una fabbrica tessile, mio padre faceva l’ambulante di vestiti ma di colpo ha perso il lavoro. Prima è venuto lui in Italia e si è collocato subito come operatore ecologico. Poi ha vinto anche il concorso di necroforo al cimitero comunale di Bologna, però ha preferito pulire la città perché facendo i turni di notte riesce a guadagnare di più. Una volta avuta la casa dal Comune ha fatto venire mia madre e le figlie minorenni. Dopo qualche anno sono arrivata io, senza documenti, clandestina sulla nave, con una paura tremenda. Temevo di essere scoperta e arrestata da un momento all’altro, quasi quasi rimpiangevo di avere lasciato le nove ore giornaliere di lavoro in fabbrica. Comunque inschalla, è andata bene. Ho ritrovato la mia famiglia ad accogliermi. E così in Marocco è rimasto soltanto un fratello maggiorenne.
Arrivata in Italia, ho potuto verificare che la situazione non era facile, eppure mi potevo considerare fortunata con un tetto e il pane sicuri. Ma il problema della lingua era fondamentale, come la ricerca di un lavoro. Non potevo accettare di pesare sui miei. Volevo studiare, parlare bene italiano, conoscere la città, andare in moschea, avvicinare i miei connazionali. Grazie al loro aiuto ho cominciato a frequentare il centro Zonarelli e conosciuto le donne di Annassim che mi hanno fatto sentire meno “straniera” in Italia, ma anche utile. Loro hanno un metodo nell’insegnamento della lingua italiana che mi ha aiutato molto. Intanto eravamo un gruppo di sole donne e in maggioranza arabe. L’ambiente era organizzato in modo da richiamare con oggetti, tappeti, utensili l’ambiente familiare, con scritte arabe di benvenuto, tappeti e ricami del Marocco, tamburelli di pelle di capra con decorazioni hennè che richiamavano simboli augurali e poi l’accoglienza appena arrivate con teiere per il te marocchino alla menta. Ricordo che abbiamo cominciato a tradurre in italiano nomi arabi e poi simulavamo situazioni di incontro: visita medica ginecologica, esperienza in farmacia o al supermercato. Alcuni giorni trovavamo come dei banchetti con la merce tipo pasticceria, erboristeria, cosmesi. Riconoscevamo e nominavamo gli oggetti. Le amiche italiane che facevano scuola erano molto entusiaste e allegre. Ricordo quando abbiamo cominciato a scrivere, ci hanno fatto comporre bigliettini d’amore. Così mia madre, che anche in Marocco non è mai andata a scuola, era con noi e molto felice ha scritto un bigliettino rivolto a mio padre; così quando siamo tornate a casa, a tavola si è avvicinata a lui e gli ha dato un bacio, cosa strana per lei, perché in Marocco per questi gesti di intimità c’è molto pudore, gli ha offerto il bigliettino e mio padre sorpreso ma divertito, dopo aver letto M .TI AMO, le disse: “ma chi ti insegna queste cose?”
Io avevo sempre paura a girare per le strade, se mi fermavano senza documenti mi avrebbero spedita in Marocco. Poi ti senti come mutilata, se muore un parente al tuo paese non puoi andare al funerale, hai perduto parte della tua libertà. Non sapevo come fare per avere i documenti: contratto di lavoro neppure a parlarne. Tramite conoscenze realizzate al Centro Zonarelli, un signore molto anziano si era innamorato di me e, pur di sposarmi, mi aveva promesso un mare di cose. Veniva a casa mia, e piangeva di fronte ai miei genitori. Io soffrivo a sentirlo… ma non potevo rovinare la mia vita. Il mio sogno è stato sempre quello di formarmi una famiglia mia e di avere dei figli. I miei genitori gli hanno spiegato la verità e vedendolo solo gli sono stati molto vicini. Poi lui non appena ha saputo che mi dovevo sposare è morto. Una brutta storia! È morto da solo in casa ed è stato ritrovato dopo sette giorni.
La mia vita adesso: ho sposato un mio connazionale marocchino ma di un paese diverso dal mio. Lui è molto bravo, mi rispetta, mi vuole bene, lavora ed abbiamo tre figli. Vivo vicino Ferrara e la famiglia dei miei genitori è a Bologna. Questa lontananza mi pesa, ma quando ho bisogno o i bambini sono ammalati mia madre o le mie sorelle vengono a casa mia
Ho amiche italiane sincere e buone, ma in giro sento ostilità. Siccome io sono un po’ scura di pelle, una volta al supermercato mi hanno scambiata per una nigeriana, tanto che una volta mi trovavo in fila alla cassa e un uomo visibilmente marocchino, disse in arabo alla moglie che gli aveva chiesto di sbrigarsi: “…. Sì arrivo non appena questa negra di m… se ne va ”. Io mi volto e gli dico in arabo e poi in italiano “… ti hanno fatto qualcosa i marocchini?” E lui “scusa scusa non lo sapevo, vado subito in moschea a fare penitenza…”
Come vedo il futuro? Lo vedo incerto come tutti. Se nei prossimi anni le cose dovessero andare peggio, pensiamo di spostarci in Francia o in Belgio dove abbiamo dei parenti. Ma non vogliamo dimenticare il nostro paese, dove con il contributo di tutti stiamo costruendo una grande casa per tutta la famiglia, genitori figli e nipoti. Una stanza per ciascuno e cucina bagno e salotto in comune. Per noi l’unità della famiglia è sacra e fondamentale. Nelle feste siamo sempre assieme. Comunque mio padre ogni anno costruisce una stanza. È già a buon punto».
F. B. da Casablanca
«Sono in Italia soltanto da un anno. Sono arrivata per raggiungere la mia famiglia: i miei genitori e le mie tre sorelle. In Marocco lavoravo da undici anni in una fabbrica tessile: nove ore al giorno alla macchina da cucire. Stessi ritmi, stessi tempi per cinque giorni della settimana, al sabato smettevamo alle 13 e la domenica ero libera. Di quel periodo ricordo volentieri il rapporto con le mie compagne di lavoro. Sono loro che ricordo con nostalgia e mi mancano.
In questo anno di soggiorno in Italia, anche se sono in famiglia, se ho l’affetto dei miei familiari, la mia vita non è semplicissima. Devo sistemare tante cose anche rispetto al mio soggiorno in questo paese, alla ricerca di un lavoro, al mio futuro. Qui non vivo male, sto vedendo molte cose nuove e interessanti ma devo superare tanti ostacoli. Quello più grosso è la lingua ed anche la diffidenza di molte persone nei confronti dei marocchini.
Sto frequentando molti corsi per l’apprendimento della lingua italiana, ma quelli aperti a tutti per me non sono di massimo rendimento. Siamo in tanti: maschi e femmine. Cinesi, polacchi moldavi, cingalesi, indiani, arabi. La spiegazione è uguale per tutti ma non tutti capiscono con gli stessi tempi.
Ho scoperto, grazie ad amici marocchini, l’esistenza del centro interculturale Massimo Zonarelli a Bologna, e lì oltre a seguire delle iniziative per stranieri ho cominciato a frequentare corsi di italiano per sole donne. Mi sono trovata molto bene , mi sono sentita accolta e proprio a mio agio anche perché la maggioranza delle donne che frequentano sono marocchine e tunisine. Impariamo la lingua riflettendo sulla nostra condizione di donne. Ci sono altre mie connazionali che non sono mai andate a scuola in Marocco e così io che conosco un po’ meglio l’italiano mi offro per fare la mediazione. Mi piace essere utile anche a queste donne che sono già sposate, con figli ed hanno magari problemi diversi dai miei. Mi piace conoscere gente diversa, e ogni giorno che passa mi esalta la mia padronanza dell’italiano. Non è che parli benissimo ma capisco e mi faccio capire, leggo velocemente e correttamente indovinando anche gli accenti.
Mi affascina la lettura letteraria. Ho scoperto la bellezza dei racconti, delle piccole storie, delle fiabe in italiano. Vorrei riuscire a scrivere bene. Conoscere la lingua mi consente di allacciare meglio delle relazioni con donne italiane».
Songul H
Nata a Kirkuk, Iraq, da madre turca e padre iracheno, giovanissima ha sposato un giovane curdo iracheno conosciuto durante gli studi universitari in Iraq. Laureati entrambi in ingegneria all’epoca di Saddam, conseguita la laurea sono stati subito assunti in una fabbrica di armi. Appena si sono resi conto del tipo di lavoro, hanno cominciato ad “obiettare” e, per non cadere vittime del rais, fra incredibili peripezie sono fuggiti in Italia, dove sono stati accolti con la status di rifugiati politici.
La loro terza figlia è nata in Italia, così nella sua casa si incontrano cinque culture: araba, turca, irachena, curda, italiana. Lei stessa e i suoi figli parlano cinque lingue.
Dell’Italia apprezza la scuola, l’arte, la democrazia, le organizzazioni femminili e di volontariato, l’accoglienza, gli amici e le amiche, la solidarietà. Lei stessa si mette subito a disposizione come mediatrice linguistica e per lezioni di arabo. Apprezzata da chi la conosce, vive una vita apparentemente serena. Ma in realtà soffre molto. Le mancano la sua terra, la sua casa, i suoi familiari. I sapori, i colori, il rumore della sua terra.
Studia e scrive. La scrittura è il suo modo di comunicare, di conoscere, di parlare del suo paese, della sua terra. Non resiste alla lontananza, all’assenza di ciò che le appartiene. Non tollera che anche ai figli venga imposto un esilio forzato.
Nel 2008 è tornata in Iraq per capire la situazione. E così racconta:
«Ritornare al proprio paese e non ritrovarlo più è più doloroso di quando si parte la prima volta. È cambiata la connotazione urbanistica , ma sono cambiate anche le persone. Gli Iracheni non ci sono più. Con la guerra è come fosse esplosa una grossa bomba fra gli iracheni catapultandoli oltre i confini in altri Paesi: in Germania, negli Stati Uniti, in Australia , in Inghilterra, in Turchia… altrove. Se voglio incontrare iracheni devo andare ad mercato di Istanbul, nei centri commerciali di Londra, nel metro di Parigi, lungo le strade di Monaco. In Iraq no. Nel periodo peggiore della guerra hanno cercato rifugio all’estero gli iracheni più forti, i più attrezzati culturalmente e politicamente. Gli oppositori del regime. I più deboli, i più poveri, quelli che non avevano neppure la forza e la possibilità di emigrare, sono rimasti in Iraq e con loro i fiancheggiatori del regime.
Adesso mi sono chiare tante cose. È come se i miei occhi di colpo avessero svelato la cruda verità. La mia Kirkuc è irriconoscibile, non esiste più. Nella sua campagna, lontano lontano, ho rivisto un albero ancora integro e non contaminato , l’albero che quando ero piccola vedevo ogni giorno quando andavo a scuola e stimolava la mia fantasia. Nel mio immaginario di bambina c’era posto per gli alberi e la terra: con loro sono cresciuta , con tali elementi ho costruito la mia identità. Io sono legata a quella Terra, e sotto quell’albero voglio tornare quando non sarò più in vita. È l’unico pensiero che ho nell’immaginare il mio futuro. Il mio corpo dovrà decomporsi nel profondo della terra per dare forza agli alberi, alle piante. Rinvigorendo un albero potrò essere ancora utile alla mia Terra.
Questo è il mio testamento spirituale. Lo esprimo con molta lucidità e con molto dolore, avendo perduto “il mio luogo”, il mio popolo , i miei legami, una collocazione. Non vivo “ in esilio “ con la speranza di tornare al mio Paese. Non c’è più il “luogo” che mi appartiene . Sento vicina soltanto la terra dove giacciono i resti mortali di mio padre per il profondo legame che avevo con lui. Per il resto l’unico insegnamento, ed anche speranza, mi viene dai miei figli che non si considerano né italiani, né curdi, né turchi ma “esseri umani”. Pensano di studiare, acquisire competenze, abilità, saperi, da mettere al servizio di chi ha bisogno. Convinti come sono che qualunque terra è destinata a trasformarsi, ad essere perduta e che il vero luogo “da abitare” è dentro di noi».
Nel 2010 Songul è ritornata definiti- vamente in Iraq. Da allora non abbiamo avuto più sue notizie. Songul è una donna di grande spessore umano e intellettuale. Lei ci fa sapere di sè e del suo mondo con la scrittura poetica. La poesia è in lei. Lei stessa è poesia. Con il suo gusto nel disporre i mobili e i fiori nella sua casa, dell’accostare colori e forme, nel gioire delle piccole cose della vita e della scoperta di altri saperi. Infinita è stata la sua commozione, quando ha “scoperto” poesie di Nazim Hikmet, fino ad allora ancora vietato anche in Turchia. Nei versi del poeta turco si ritrova, vi riconosce il suo dolore, la sua infelicità, le sue privazioni.
E lei continua a scrivere, come bisogno di fare sapere e di contrastare la sua solitudine. Scrive in arabo. La traduzione in italiano è un atto d’amore verso chi non conosce la lingua araba, ma ha capito lei, e ascolta i suoi racconti e comprende la sua poetica, usando parole italiane.
Abbiamo tradotto assieme versi che si muovono fra la tradizione orale dei cantori iracheni e il verso libero della poesia femminile contemporanea del Medio Oriente. Qui di seguito un esempio.
PAROLE PER LA MIA BAGDAD
Dove sei ?
Dov’è quello che cerco?
Eri la mia amica fidata in ogni difficoltà
Colei che mi indicava sempre la strada da percorrere
Dov’è l’albero le cui foglie scosse dal vento accarezzavano il mio volto
Adesso dico
Meglio morire
Prima di sapere che la mia Bagdad è stata distrutta
E il monumento a Mausur suo fondatore abbattuto
Adesso dico
Meglio morire
Che vedere straripare il Tigri e l’Eufrate ingrossati dal sangue del suo popolo
Adesso dico
Meglio morire
Che vedere la mia patria affondata nel sangue dei suoi figli
Adesso dico
Meglio morire
Che vedere le case dei miei fratelli e delle mie sorelle
Ridotte a cumuli di macerie ai bordi delle strade
Adesso dico
Meglio morire
Che assistere ad ulteriori avanzate dei soldati americani
Pronti a cambiare l’aspetto del tuo TRONO e a
Saccheggiare il tuo forziere carico di pietre preziose
Quello che in passato ti ha dato fama e riconoscimento fra tutti i popoli.
Come stanno oggi le cose
Se è vero che i flussi migratori cambiano ogni cinque anni, la nostra osservazione sul gruppo stabile di donne arabe migranti dura da oltre un decennio, un tempo consistente per poter azzardare delle analisi di conoscenza non certo di giudizio. Lo stesso nucleo che all’inizio della nostra aggregazione aveva espresso positività, speranza, coinvolgimento, partecipazione alla vita sociale, via via si è andato trasformando. In mutazioni non sempre di evoluzione, integrazione. Quasi tutte partite dal loro Paese per ricongiungimento familiare, per un benessere economico o per sfuggire ai pregiudizi e al controllo della famiglia, non hanno resistito. Le più coraggiose, e magari con una specializzazione professionale, hanno lasciato l’Italia dove non vedevano un futuro migliore per loro e i loro figli, trasferendosi in Paesi francofoni, come il Belgio o la Francia. Chi ha risparmiato per comprare un appartamento non avendo fiducia nel governo italiano lo ha comprato nel suo Paese, anche per dimostrare a parenti e amici che il percorso migratorio non era stato un fallimento.
Quelle rimaste in Italia, si sono trovate a vivere la crisi dei nostri anni peggiori, economica, di cultura e democrazia. Sembra paradossale notare, in molte di loro, ostilità verso altre connazionali e diffidenza nei confronti degli italiani, esprimere rifiuto nei confronti dei nuovi immigrati e simpatia per la Lega. Lo scatenarsi di fenomeni islamofobici, di discriminazione e di razzismo ha provocato in loro atteggiamenti di chiusura in se stessi e nelle loro comunità e perfino in gruppi di integralismo religioso che si riuniscono in appartamenti nei condomini, come fossero delle sette segrete. E questo sfugge ad ogni censimento e ad ogni analisi demosociologica
Quello che per loro doveva essere un distacco “liberatorio”, spesso anche uno sfuggire a matrimoni forzati, diventa un ripiegarsi nell’angusto perimetro della propria famiglia di appartenenza. Con un legame sempre più forte, come una ricerca di sicurezza, di protezione. Azzerando i tentativi di emancipazione. Del resto, la stessa religione musulmana punta sulle donne, per trasmettere i valori, le tradizioni, il senso della gerarchia, del limite, l’accettazione dell’ordine costituito, che è un ordine politico e non religioso. Il controllo della volontà della donna e del suo corpo, nella religione musulmana, è un’ossessione su cui insistono imam e famiglie e, per chi “non osserva” o trasgredisce, il controllo sociale è fortissimo. Tutta la comunità insorge, allontanando la donna in quanto giudicata di facili costumi. Deprecabile perché troppo occidentalizzata, spesso anche degna solo di essere uccisa. Provengono per lo più da Paesi dove la laicità non è un valore ed è utopistico pensare che si possano avere dei diritti.
Le scelte di rottura e di autonomia hanno un prezzo molto alto: solitudine, miseria, isolamento, depressioni, violenza domestica. Esclusione. Tanto c’è ma non appare. Invisibile come le donne che esprimono il disagio.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim
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