di Sonia Salsi
Il dibattito sull’emigrazione italiana sembra spesso escludere l’importanza del contributo lavorativo ed economico delle donne all’interno dei contesti familiari.Vari studi hanno invece testimoniato dell’attiva partecipazione della figura femminile agli spostamenti geografici, spesso mascherati dietro la logica familiare al maschile in cui gli uomini partivano soli e le donne rimanevano in Italia assumendosi la responsabilità di gestire oltre all’accudimento dei figli e degli anziani anche gli interessi economici della famiglia (Corti, 2003; Pinna, 2009; Tosi, 1988). I più significativi studi storiografici sull’emigrazione hanno contribuito a tratteggiare un quadro complessivo sulle diverse situazioni di vita e di lavoro delle donne in varie aree geografiche della Francia.
Le svariate forme di vicende esistenziali delle donne immigrate dipendevano dalle differenze temporali e socioculturali fra chi emigrò dal nord e dal sud dell’Italia a partire dagli inizi dell’Ottocento. Erano soprattutto le donne appartenenti a ceti sociali bassi e di estrazione contadina a scegliere di partire, più che altro per la necessità di contribuire all’economia domestica. Arrivate sul suolo francese, esse mettevano in moto un nuovo modo di rapportarsi con i mariti, dimostrandosi collaborative soprattutto in ambito economico. In Francia, le mogli – contadine e casalinghe – diventano segretarie, contabili, ragioniere, in questo modo trasformandosi da donne relegate in casa a mediatrici rispetto al mondo esterno. In terra straniera, si muovevano verso banche e uffici, maneggiavano soldi, inviavano rimesse ai parenti rimasti in Italia: in altre parole, si modernizzarono culturalmente senza trascurare la cultura d’origine (De Clementi, 2008: 121). Nel nuovo contesto sociale e abitativo le donne miravano ad una riuscita economica, non più sole ma insieme ai loro mariti, fratelli e padri, creando spazi d’azione con l’obiettivo di un rinnovamento esistenziale (Miranda, 2001).
Oggi, il successo della presenza italiana in Francia è dovuta soprattutto al desiderio di riscatto sociale da parte di interi nuclei familiari. La volontà di risultare vincenti ha dato così senso all’esodo migratorio (Palidda, 2003; Corti, 2003).Il cambiamento di vita, sia per i maschi che per le femmine, ha cambiato l’immagine dell’immigrato italiano: quella di operaio è stata ad esempio progressivamente sostituita da quella del piccolo imprenditore (Galloro, 2001: 321).Le donne invece da mamme, casalinghe e contadine poco istruite in Italia hanno potuto emanciparsi a individui indipendenti, collaboratrici e alleate dei mariti. Alcune sono tornate nel luogo d’origine, altre hanno deciso consapevolmente di rimanere per sempre e senza rimpianti, proprio perché la nuova vita le aveva rese visibili.
Il presente contributo si propone di evidenziare il ruolo svolto dalle donne nel rapporto tra continuità e mutamento culturale, sia attraverso un’analisi dei principali studi storiografici sull’argomento, sia mediante le immagini e le rappresentazioni che la letteratura non scientifica fornisce in merito. Una particolare attenzione viene rivolta al lavoro baliatico, esercitato all’estero e ancor oggi poco approfondito. Nonostante la netta prevalenza numerica di uomini provenienti da differenti zone agricole italiane, fin dall’ancien régime hanno ugualmente avuto luogo consistenti migrazioni di manodopera femminile. Nel corso dell’Ottocento, le aree settentrionali dell’Italia come il Piemonte, la Lombardia e il Veneto, conobbero movimenti di migrazioni stagionali, transfrontalieri, di breve durata, e per giunta illegale. Sandro Rinauro fornisce un’accurata descrizione dell’atteggiamento emigratorio irregolare e clandestino delle donne italiane verso la Francia, da cui emerge che la principale ragione di tale mobilità consisteva nel fatto che spesso i loro mariti, fratelli, padri fossero già presenti oltralpe illegalmente (Rinauro, 2013: 34). Generalmente le donne partivano clandestine insieme alla componente maschile, a volte sole ma spesso accompagnate dai propri figli, in piccole comitive. La ragione dell’espatrio era dunque il ricongiungimento familiare. Michele Colucci configura un quadro dei provvedimenti legislativi francesi sulla migrazione legata soprattutto al lavoro tessile. Molte proposte di ingaggio venivano rifiutate, perché poco convenienti alle fabbriche francesi. Le donne erano presenti nelle grandi campagne stagionali nell’agricoltura, come ad esempio la bieticoltura.
Il reclutamento francese sulla base dell’accordo con l’Italia del 1947 prevedeva la presenza di funzionari dell’Office National d’Immigration (Oni). La città di Torino ebbe un ruolo di primo piano come punto di snodo per l’emigrazione verso i Paesi europei. In particolare fino al 1947 ospitò il centro di smistamento per l’emigrazione verso la Francia, successivamente spostato a Milano, non senza polemiche, anche perché comunque gli emigranti continuarono a transitare da Torino, ma senza un’adeguata struttura di accoglienza (Colucci, 2013: 29). Per essere ammesse sul suolo francese le donne, come gli uomini, dovevano recarsi al centro di emigrazione di Milano, dove venivano selezionate coloro che avevano già passato le visite mediche preliminari nelle province di residenza. Una volta partite, non di rado si rivolgevano alle istituzioni che avevano gestito la loro emigrazione per descrivere le condizioni di vita e di lavoro, che non sempre coincidevano con quelle promesse (ibidem).
L’emigrazione iniziò in seguito a toccare il centro Italia (Umbria, Toscana, Emilia Romagna) e infine anche il sud, prevalentemente le regioni Calabria e Sicilia. Gli emigranti maschi esercitavano diverse tipologie di lavoro: muratori, artigiani, contadini che insieme avevano intrapreso il cammino verso la Francia. Spesso si spostavano in gruppo e in alcuni casi soli, appoggiandosi a catene migratorie di richiamo da parte di chi li aveva preceduti. Se si confrontano i dati censuari tra 1901 e 1999, appare chiaro che, nonostante la più alta presenza maschile, le donne sono sempre state presenti sul territorio francese. Dal Piemonte e dalla Lombardia la componente femminile partiva come personale di servizio, braccianti agricole stagionali duranta la stagione delle raccolte, venditrici ambulanti, oppure, nel caso di giovani donne, come governanti. Dal Piemonte attraversavano le Alpi per offrirsi come stiratrici, lavandaie, cameriere (Bianchi, 2002: 363) o per dedicarsi alla raccolta delle olive e dei fiori. Lavoravano in gruppo in autunno e in inverno e tornavano a casa in primavera. Ma le occupazioni più diffuse e qualificate, che rendevano le italiane molto ricercate all’estero, erano legate alla lavorazione tessile. Venivano reclutate da connazionali nel Veneto, in Emilia, nel bergamasco e nel bresciano, risalivano dalla Calabria e dalla Sicilia sino in Francia dove andavano a rimpiazzare le native dirottate verso l’obbligo scolastico. Vivevano ammucchiate in grandi camerate. Le fabbriche di tessuti francesi Lionese ingaggiavano in particolare ragazze da Aosta, Ivrea, Saluzzo, dove le maestranze italiane erano molto apprezzate per i lavori di ricamo (De Clementi, 2008: 115-116).
Tra il 1901 e il 1926, l’andamento delle migrazioni femminile seguì quello maschile ma fra le due guerre le migrazioni segnarono una battuta d’arresto. Dopo la Seconda guerra mondiale, le partenze ripresero in modo consistente per poi rallentare nel corso degli anni Sessanta, quando la presenza italiana inizia a diminuire rispetto ad altri gruppi di immigrati (Miranda, 2008: 317). In ogni modo, comprendere l’effettiva portata della mobilità femminile è molto difficile perché la maggior parte delle lavoratrici non venivano registrate ufficialmente. Nell’Ottocento non esistevano statistiche attendibili e ciò dimostra una scarsa attenzione verso i mestieri svolti da parte delle donne. Esse erano quasi sempre indicate come soggetti passivi: madri, mogli, sorelle di operai. Vi sono però una serie di testimonianze indirette di interessante valore documentario sulla presenza delle operaie, che emerge ad esempio dai libri paga e da numerosi provvedimenti di ordine pubblico.Da una ricerca condotta da Luciano Tosi (Tosi, 1988) risulta che le prime notizie della presenza di umbri a Nizza e in altre località della Francia meridionale risalgono al 1871. A favorire l’insediamento definitivo fu soprattutto la crescente richiesta di manodopera agricola dovuta alla massiccia diffusione resa possibile dallo sviluppo delle comunicazioni, delle coltivazioni orticole e frutticole, nonché all’incremento delle colture floreali da taglio e da esportazione accanto a quelle destinate alla fabbricazione dei profumi.
All’inizio del Novecento il flusso emigratorio umbro per la Francia si fece massiccio, attestandosi intorno ai 2 mila-3mila espatri all’anno fino alla vigilia della Prima guerra mondiale. La Francia con circa 37.000 espatri dall’Umbria tra il 1900 e il 1914, fu la meta preferita degli emigranti della regione. Gli emigranti, soprattutto quelli per cui l’emigrazione stagionale all’estero divenne un’abitudine, tornavano dopo un periodo trascorso all’estero presso le imprese in cui avevano lavorato in precedenza. Con il passare degli anni, tuttavia, la mobilità aumentò notevolmente: ci si spostava alla ricerca di un lavoro più remunerativo grazie anche all’estrema libertà di movimento vigente in Europa sino allo scoppio della guerra. Una meta privilegiata era il sud-est francese dove, ad esempio in Costa Azzurra, cominciò a manifestarsi col tempo una notevole richiesta di manodopera maschile nel settore industriale. Se gli uomini lavoravano nelle fabbriche e nell’agricoltura, anche le donne avevano il loro mercato: molte umbre si dedicarono a lavori che conservavano numerosi caratteri delle antiche emigrazioni di mestieri come quelli di domestiche, cuoche e cameriere. Un censimento del 1900 indica la presenza di 14mila domestiche occupate nelle case e negli alberghi della Savoia e della Costa Azzurra, ma erano richieste soprattutto le balie che spesso esercitavano il mestiere già nei luoghi di origine, praticandolo in casa propria o presso ospedali che accoglievano neonati abbandonati (Miranda, 1997). Erano donne umbre, toscane, piemontesi, venete, laziali e calabre che sempre più numerose giungevano in Costa Azzurra, da sole o in gruppo, prediligendo in seguito il definitivo stabilimento nel luogo di approdo.
Stando al burocratico resoconto di un console italiano, per quel che riguardava il baliatico, «dopo alcuni mesi chiamano il marito, per poter un’altra volta far la balia; e dopo qualche anno fanno venire la famiglia» (Tosi, 2007). Tale mestiere femminile itinerante, se così può essere definito, fu quello maggiormente oggetto di critica nel corso di tutta l’età contemporanea: un lavoro spesso denunciato dalle fonti coeve per i negativi effetti sulla condotta femminile e sulla morale delle famiglie (Corti, 1996: 34). In Francia le balie erano ben pagate e una volta esaurito il ciclo lattifero non esitavano a richiamare presso di sé il marito per farsi ingravidare e avviare un nuovo ciclo baliatico. Questa circostanza di richiamo dei mariti testimonia come il distacco dal luogo natio fosse sentito come irreversibile soprattutto da chi, anche a causa del proprio sesso, si trovava ad occupare uno degli ultimi gradini nella scala degli oppressi della società rurale.Originarie del mondo rurale italiano, esse allattavano i figli di signori e notabili locali, si impegnavano presso istituzioni caritative, specialmente negli asili per i bambini abbandonati, gli esposti, con la prospettiva di un buon compenso. Una balia, in generale, guadagnava molto più di un operaio e godeva di notevoli benefici: un guardaroba fornito e con pretese di eleganza, numerosa biancheria personale e da casa, ornamenti definiti “gioielli da balia”, che comprendevano collane, spille e orecchini, spesso di corallo rosso, e la certezza che per molti mesi non avrebbero sofferto la fame, vivendo in case belle e confortevoli, curate e rispettate dalla famiglia di accoglienza (De Clementi, 2008: 115).
Nel Dipartimento delle Alpi Marittime a inizio Novecento risulta che, per esempio, a Grasse erano proprio le umbre ad alimentare la più consistente corrente migratoria italiana svolgendo lavori stagionali, seguite dal Piemonte e da un flusso meno consistente di donne liguri (Allio, 1984; Corti, 1999: 30). Le foto selezionate in questa serie disegnano alcuni aspetti dei lavori più comunemente esercitati dalle donne italiane nelle Alpi Marittime: il baliatico, il lavoro stagionale nell’agricoltura, l’occupazione nelle fabbriche e nei servizi domestici (Tosi, 1989; Corti, 1999: 33).
Dall’interessante ricerca condotta da Francesca Sirna emerge che, per esempio, a Marsiglia la presenza femminile era assai significativa. I percorsi da lei analizzati si concentrano sulla vita di migranti di origine piemontese e siciliana arrivate in Provenza a partire dal secondo dopoguerra, sino al 1974. Inizialmente esse lavoravano come serve domestiche e venivano reclutate tramite le reti parentali e di conoscenze. Questa fitta trama di contatti familiari ha avuto un’importanza rilevante nel reclutamento della manodopera femminile. L’esistenza di reti sociali informali, specializzate ed estese, permetteva quindi l’assunzione di alcune categorie professionali, come le donne di servizio, in condizioni favorevoli e di maggior guadagno. Nel lasso di tempo preso in considerazione le relazioni familiari, i legami di solidarietà e di cooperazione, gli scambi di servizi e di informazioni intessuti dalle migranti con individui e gruppi non appartenenti alla loro parentela hanno costituito il contesto nel quale la scelta di partire è stata elaborata. Tramite le interviste da lei condotte, Sirna mette in luce elementi che hanno spinto le migranti a lasciare il proprio paese, fornendo preziose informazioni sui loro percorsi professionali e sociali nei luoghi d’immigrazione (Sirna, 2013: 113). Le tappe dei loro percorsi sono multiple e accompagnate da numerosi ritorni. Inoltre queste donne non seguono obbligatoriamente i membri delle loro famiglie, ma delle reti professionali autonome e tipicamente femminili in cui Marsiglia ha rappresentato un possibile luogo di riscatto sociale (Sirna, 2013: 118-119).
La studiosa sottolinea che le donne siciliane che emigravano in Francia non avevano precedentemente mai lavorato nel settore agricolo, riservato ai soli uomini, a differenza delle piemontesi che invece per la maggior parte avevano effettivamente esperienze nel settore agricolo. L’obiettivo delle siciliane era quello di lavorare per un determinato periodo in Francia, accumulando il denaro necessario per poi poter riavviare un progetto di vita in Sicilia. L’espatrio per loro faceva parte sì di un progetto migratorio, ma finalizzato al ritorno. Quindi, emigrare per loro diventava una scelta e non una necessità: le donne partecipavano liberamente al progetto migratorio teso a realizzare un ambizioso progetto di famiglia.
Il loro inserimento professionale in Francia determinò un cambiamento ed una ricomposizione del loro ruolo nell’ambito della coppia e della famiglia di origine. Esse assunsero il ruolo di intermediarie tra i datori di lavoro e le donne che volevano migrare. Le intermediarie non erano sconosciute ma spesso vicine o parenti strette di coloro che si trovavano ancora in Italia. Si trattava di donne socialmente prossime a chi voleva emigrare, inizialmente avviate al lavoro di servizio, che le hanno precedute in questa esperienza (Sirna, 2013: 121). In alcuni casi ciò portò a qualificare le donne tramite le competenze professionalmente acquisite, facendo di loro successivamente una sorta di agente di collocamento di giovani provenienti dai loro stessi luoghi di origine e dirette a Marsiglia (Sirna, 2013: 120). Claire Courtecuisse pone l’attenzione sulla vita quotidiana e sociale delle donne italiane immigrate dal sud dell’Italia e su come esse si organizzarono nel costruire reti sociali tra di loro e con il luogo di origine. Per quanto riguarda lo Stato francese, le motivazioni che lo spingevano a favorire l’immigrazione italiana erano legate primariamente al desiderio di rinforzo demografico; in particolare a Grenoble e Isèrei flussi migratori non venivano visti tanto come fonte di potenziale manodopera ma come un incremento della popolazione (Courtecuisse, 2013: 44-45).
Conclusioni
Le donne nell’emigrazione non hanno avuto un cammino facile né indolore. L’emigrazione al femminile è legata all’immagine di donne con uno scarso livello culturale, di bassa estrazione sociale e per giunta analfabete. Dalla letteratura dell’immigrazione al femminile traspare come le donne, a prescindere dalla provenienza, abbiano spesso dovuto subìre un cammino di sofferenza e difficoltà. Grazie alle folte corrispondenze familiari, alle numerose testimonianze autobiografiche e fotografiche – raccolte in varie aree di emigrazione e immigrazione e conservate in differenti sedi del territorio regionale – altri studi hanno esaminato la vita quotidiana e collettiva delle donne piemontesi all’estero a partire non solo dalle più consuete rappresentazioni delle società d’arrivo ma anche dalle autopercezioni delle stesse emigranti. Sono affiorati così, accanto alle esperienze familiari e matrimoniali più comuni, e alla loro trasformazione nel corso della sequenza generazionale, anche i mutamenti del ciclo della vita domestica, dei riti privati e delle cerimonie collettive (Corti, 2006).
Le italiane hanno condiviso con gli uomini le difficoltà della migrazione, caricando sulle proprie spalle responsabilità e stereotipi sia negativi che positivi. Il fenomeno dell’emigrazione al femminile va letto come una sorta di riscatto culturale, protagoniste com’erano del passaggio da un contesto culturale ad un altro, da un modo di relazionarsi ad un altro più aperto e pragmatico, sia nel privato che nel pubblico. Le donne nel nuovo paese, portatrici di proprie storie personali, diventavano le traghettatrici ufficiose della vecchia alla nuova appartenenza sociale e culturale (Ferrante, 2011: 89-90).
Se nel passato erano stigmatizzati come ritals, maccaronis o cristos, oggi gli italiani si rappresentano come completamente integrati nel sistema socio-economico francese e fanno parte ormai della lunga storia emigratoria in Francia. Le persone anziane, soprattutto le voci femminili delle prime generazioni descrivono la vita di alcuni quartieri situati attorno alle città, come Marsiglia o Parigi, fortemente italianizzata. I loro racconti si àncorano intorno a dei luoghi identitari che valorizzano la solidarietà e il sostegno tra compaesani. Coloro che si riconoscono come italiani vivono tuttora in reti di appartenenza molto italianizzate e rientrano regolarmente in Italia e continuano a mobilizzare i legami familiari e paesani. Dall’analisi dei racconti biografici condotti da Francesca Sirna risulta che i migranti rientrano più o meno regolarmente nei paesi di origine sottolineando l’importanza della famiglia, celebrandovi cerimonie importanti come matrimoni e battesimi e partecipando alle numerose festività locali. Le nuove generazioni si uniscono a quelle anziane trasformando i luoghi di origine in luoghi simbolo dei percorsi migratori. Durante le vacanze si riattivano le reti paesane, si consolidano i legami intergenerazionali, si trasmettono le memorie e le relazioni della comunità (Corti, 2003; Miranda, 1997). Si tratta di un costante aggiustamento del passato a partire dal presente, di un processo che dà senso ad una astratta categoria di italianità, che passa innanzitutto attraverso la propria storia individuale e quella familiare. Il riconoscimento della continuità con le proprie origini regge la creazione di una memoria collettiva condivisa da persone inserite in reti di appartenenza, in cui la famiglia è un valore fondamentale che facilita il processo d’integrazione – reti non sempre visibili nello spazio francese, in cui coesistono più realtà e riferimenti sociali e culturali (Catani, 1986).
Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
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