Il 27 Settembre 2015 si sono svolte e concluse le elezioni del Parlamento della Catalogna, le quali sono state l’effetto dell’esito della consultazione popolare che si è svolta circa un anno fa, il 9 novembre. Da più di un anno a questa parte la cronaca europea ci ha abituati a sentir parlare di referendum, scontri armati e consultazioni per cambiare l’assetto geo-politico di alcune nazioni. Anche nel nostro Paese, prima che la questione immigrazione dilagasse su ogni media, si è parlato spesso di separatismo. Quello che ho potuto costatare però, parlando con svariate persone, è che in Italia – stando attenta a non generalizzare – non si conosce molto bene la questione catalana o meglio, si tende a paragonarla, anche strumentalizzandola per fini di propaganda, a discorsi identitari separatisti con i quali pensiamo condivida le medesime pretese.
In Catalogna la scelta indipendentista è un fenomeno che ha assunto negli ultimi quattro anni dimensioni di movimento di massa, anche se dire che riguarda l’intera cittadinanza sarebbe un’invenzione. Come si può dedurre dai risultati, le elezioni sono state vinte dalla coalizione Junts pel Sì (Uniti per il Sì) composta da due partiti: Convèrgencia Democratica de Catalunya e Esquerra Republicana de Catalunya. Questa unione, esplicitamente a favore dell’indipendenza, non gode però della maggioranza assoluta dei seggi, ma l’opzione indipendentista risulta comunque maggioritaria grazie ai seggi vinti dal partito della CUP (Candidatura d’Unitat Popular). Dalla complessità di questo clima parlamentare che si è formato, non è difficile intuire che i prossimi mesi offriranno interessanti sviluppi nel panorama politico e sociale dell’intera Spagna.
Per comprendere, quindi, le evoluzioni contemporanee di tale opzione politica è fondamentale considerarla come fenomeno di lunga durata, che si è sviluppato e adattato nel corso dei secoli dialogando costantemente – con toni più o meno pacati – con il Governo centrale. Prima di condividere il risultato delle ricerche che ho condotto in questa regione su tale tematica, vorrei sottolineare che la Catalogna è una comunità autonoma con un proprio Parlamento e un proprio Governo, La Generalitat. Le sue leggi si basano sullo Statuto di autonomia, il catalano è considerato lingua ufficiale al pari del castigliano e il rapporto che la Comunità ha nei confronti dello Stato non la classificano alla stregua di una nostra regione italiana, bensì come un piccolo Stato all’interno di un altro.
Queste informazioni, anche se qui presentate in modo riassuntivo, sono essenziali per capire cosa vuol dire “essere catalano” e “sentirsi catalano”. In Italia penseremmo subito che si tratta di ciò che avviene con le nostre realtà dialettali, si tratta di qualcosa di altrettanto complesso ma differente. Facendo ricerca in Catalogna o semplicemente soggiornandoci per un po’ di tempo, si percepisce subito che tale contesto ha e vuole avere dei riferimenti con il suo passato. Passato che è percepito con orgoglio nella volontà di dimostrare le diverse fasi storiche che hanno coinciso con l’autonomia politica della Catalogna.
L’identità catalana si è costruita, rimpolpata e trasmessa durante secoli, da quando una realtà sociale ha tentato di definire dei confini territoriali (contee) che delimitassero il Regno carolingio e l’espansione musulmana (XI sec.). Quel “Noi” durante l’evolversi del contesto storico, si è caratterizzato di una lingua, costumi, abitudini e leggi proprie. Nei secoli successi i territori catalani vennero inglobati, ma mai integrati, all’interno del Regno borbonico e del suo successivo impero. Dal 1600 fino ad oggi, si può notare come le relazioni fra la monarchia ispanica e la regione catalana, siano state un costante altalenarsi di insurrezioni e rappresaglie per la istanza di maggior libertà da parte della Catalogna e la conseguente violenta repressione operata dalle diverse autorità contro le quali si è sollevata.
Passando in rassegna le varie fasi storiche, fino al Franchismo, si osserva come ogni qual volta la Catalogna si sia proclamata con maggior peso politico o addirittura come uno Stato, sia susseguita una potente inibizione sociale, politica e soprattutto culturale dell’identità catalana, in particolar modo relativamente all’uso della lingua. Ciò che ha accompagnato l’instaurazione del regime dell’assolutismo in Europa fino ai più recenti sistemi totalitari, è proprio la delimitazione – se non l’eliminazione – della diversità culturale, in vista di una generale omologazione, proprio per delegittimare ogni forma di potenziale minaccia nei confronti del potere dominante; in questa strategia un ruolo fondamentale hanno sempre avuto la censura, la propaganda e l’egemonia della lingua ufficiale. Dal 1716, anno di promulgazione del Decreto di Nova Planta da parte di Filippo V della dinastia dei Borbone, ogni qualvolta siano cambiate le formazioni di governo in Spagna la lingua catalana è stata relegata al solo uso domestico. Oltre a ciò vennero soppresse le principali istituzioni politiche e culturali catalane, come punizione per lo schieramento del Regno di Aragona (di cui la Catalogna faceva parte) a favore della candidatura del pretendente austriaco al trono, durante la Guerra di Successione (1701-1714).
Seppur sacrificata, l’identità catalana, durante l’Ottocento, si manifesta soprattutto – grazie alla proliferazione della stampa – in ambito letterario, perpetrata in particolar modo dall’emergente classe borghese. Sarà, infatti, l’irrequieta borghesia industriale a farsi portavoce del Catalanismo, inteso qui come fenomeno culturale fortemente influenzato dalla corrente del Romanticismo che stava pervadendo l’Europa. Questa fase di “rinascita”, definita in quegli anni appunto Renaixença, non implicò solo il recupero del catalano come lingua colta ma irrobustì la percezione identitaria catalana della coscienza nazionale, concretandosi in una convinzione più radicata e radicale di appartenenza a una comunità specificatamente immaginata e in una maggior attenzione verso i segni identificatori esteriori di quella collettività. E quanto più si scontrava con la negazione, il disprezzo o la proibizione dei governi spagnoli, tanto più insorse come reazione il Catalanismo politico, che si proponeva di rivendicare il riconoscimento della personalità nazionale della Catalogna.
Durante le ultime decadi dell’Ottocento si sviluppò, quindi, il nazionalismo catalano: una corrente politica contraria allo Stato centrale e favorevole alla promozione della lingua e della cultura propria. Tale fenomeno, indicato dalle diverse fonti sia come «nazionalismo catalano» sia come «catalanismo politico», si divideva in due filoni: quello progressista-rivendicativo e quello conservatore. Il primo, mentre avanzava un’ipotesi di autogoverno, intendeva migliorare le condizioni di vita dei lavoratori appartenenti alla “nuova” classe popolare. Per contro, il secondo rispondeva agli interessi dell’aristocrazia e dei grandi proprietari terrieri. Nonostante le due tendenze abbiano avuto un peso determinante nell’evolversi della società catalana, sia nel bene che nel male, furono però i progressisti a sviluppare l’ipotesi di autonomia dalla Spagna. È opportuno sottolineare che la rivendicazione di tutto ciò che fa parte della «cultura catalana» associata a una richiesta esplicita e programmatica di maggior autonomia politica, si è affermata in particolar modo solo nell’ultimo quarto del XIX secolo: organizzando movimenti, riviste specializzate e presentando mozioni al Governo centrale, ma con scarsi risultati. Non fu mai un fenomeno di massa, bensì un dibattito che era appannaggio degli intellettuali e della borghesia.
Il nazionalismo catalano, inoltre, ebbe sì come prima espressione politica la richiesta di una maggiore autonomia, ma all’interno di un sistema federale che non prevedeva, allora, la secessione dalla Spagna. Quindi, seppur il movimento sia fenomeno di lunga durata, non si può identificare con la versione indipendentista che caratterizza l’attualità, tanto più che questa diversificazione si è poi tradotta nell’eterogeneità dei voti di tale opzione esercitati lo scorso settembre.
La rivendicazione di maggior autonomia fu sicuramente incoraggiata dall’ondata di ottimismo suscitata dalla fine del primo conflitto mondiale e la Dichiarazione dei Quattordici punti di Wilson (1918), tra i quali si sosteneva il principio dell’autodeterminazione dei popoli e il rispetto delle autonomie nazionali. Ma per vedere realizzata un’esplicita istanza separatista, si dovrà aspettare la figura di Francesc Macià (1859-1933) che si rese promotore dell’organizzazione del movimento Estat Català (Stato Catalano). L’intento separatista nacque, quindi, come il risultato dell’insuccesso tanto dell’opzione federalista quanto di quella autonomista seguite fino ad allora, fallimento che fu imputato all’incapacità dei politici spagnoli di risolvere la questione della nazione catalana.
Nel 1923 la Spagna, come molti altri Paesi europei, vide l’affermarsi dell’autoritarismo: Primo de Rivera (1870-1930) nominò un regime militare, sopprimendo il funzionamento normale della vita democratica, proibendo l’aggregazione in partiti politici e limitando il ruolo dei sindacati. Per ciò che concerne l’atteggiamento del regime nei confronti della Catalogna, si assistette ancora una volta a forti restrizioni nei confronti dell’autonomia e dell’identità, a cominciare dall’interdizione all’uso del catalano in qualsiasi ambito pubblico. E come in ogni regime che si rispetti vennero eliminate o fortemente limitate molte istituzioni culturali, amministrative, ricreative; multati e censurati i giornali e perfino chiusi. Le fragilità che permisero il golpe di Primo de Rivera furono le stesse che lo fecero dimettere nel 1930. Si arrivò così alle elezioni del 12 aprile del 1931, a seguito delle quali si issò di nuovo la bandiera repubblicana.
Si apriva dunque il primo periodo democratico del Paese durante il ventesimo secolo e sull’onda di nuove riforme si proclamò l’autonomia della Catalogna. Quest’ultima dal 1931 vide iniziare una nuova fase della sua storia politica, grazie alla definizione dell’autogoverno e la restaurazione della Generalitat, il cui ruolo era stato soppresso nel 1716. Il ritorno della Generalitat de Catalunya diede vita ad una fase politica di grandi speranze: «con la promulgazione dello Statuto del 1932 si iniziò una nuova tappa per il catalanismo politico che, con tutte le limitazioni, aveva raggiunto l’autogoverno» (Masgrau, 1992: 86). I primi presidenti furono Francesc Macià e Lluis Companys, leader del nuovo partito Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), ai quali fu affidato il compito di governare una difficile fase caratterizzata dalla grave crisi economica e da violentissimi scioperi. Fase che non fece che acuirsi fino all’inevitabile scoppio della Guerra Civile nel 1936, durante la quale si contesero due Spagne fino alla vittoria di Franco nel 1940, ovvero alla instaurazione di un’altra dittatura. Ciò si tradusse per la Catalogna: nell’abolizione dello Statuto, della Generalitat e del Parlamento; oltre che nella proibizione dell’associazione in partiti politici e in sindacati. La stampa, le istituzioni, le entità catalaniste di sinistra e l’uso pubblico del catalano furono di nuovo soppresse e i dissidenti perseguitati, incarcerati, esiliati e, in molti casi, giustiziati, come accadde a Lluis Companys nel 1941.
La volontà del regime di sopprimere il separatismo, si tradusse, quindi, nella totale proibizione del catalano da tutti gli ambiti pubblici, così da mettere in atto una vera e propria “inquisizione culturale”, come la definì Jones (1976). La peculiarità di questa fase storica della Spagna si tradusse in una perpetuazione della «violenza simbolica» (Bourdieu, 2003). La costante repressione verso tutto ciò che può essere considerato una minaccia alla pace del regime ha inficiato profondamente la concezione comunitaria dei catalani.
Seguono quarant’anni densi, pesanti e tutt’ora difficili da gestire. Fino alla fine degli anni ‘50, quindi, il pilastro del catalanismo politico non fu tanto l’operato dei partiti politici clandestini duramente repressi dalla polizia di Franco, ma il ruolo che assunsero le associazioni di ogni genere che agirono sotto la luce del sole. Lo stesso movimento indipendentista attuale è stato supportato principalmente dalle associazioni senza scopo di lucro che proliferano in tutta Catalogna, la quale è caratterizzata da una loro intensa attività come fenomeno di lunga durata.
Negli anni ’60 la situazione in Catalogna era davvero confusa. Le rivendicazioni di carattere catalaniste erano proprie della borghesia, che si lamentava dell’operato del governo, oppure dei centri culturali che cercavano di ottenere più garanzie per la lingua. Anche gli esponenti politici catalani ricorrevano ad espedienti nazionalistici per fare breccia sulla cittadinanza e ottenere più voti, essendo la partecipazione politica, in questo decennio, piuttosto bassa. Sotto un regime che, nonostante il tempo, non dava nessun segno di cedimento, beneficiando addirittura degli effetti della ripresa economica, la classe operaia catalana non si mostrò interessata al conflitto di classe, né tanto meno coinvolta dalla questione catalana.
Il catalanismo proseguì, dunque, silente ma elitario, più che altro impegnato nella lotta contro il regime, il quale esercitò il suo potere dispotico fino al 1975. La promulgazione dello Statuto di Autonomia nel 1979 rappresenta in qualche modo il punto di arrivo di un lungo e difficile processo di nazionalizzazione dell’identità catalana, ma né è anche il punto di partenza. La Catalogna nel post-franchismo, infatti, ma in generale tutta la Spagna è impegnata nella definizione di una identità collettiva in un nuovo e tanto agognato contesto democratico. Con l’inizio degli anni ‘90, quando la democrazia era più che consolidata, sono nate numerose associazioni il cui intento è stato quello di recuperare la memoria storica dei fatti che accaddero durante la Guerra Civile e sotto il Franchismo. Si può dire, con le parole di Preston, che «il recupero del ricordo ha avuto un impatto profondo su una popolazione la cui memoria collettiva è stata cancellata per tanti decenni» (2006: 19), in quanto le ombre della guerra civile e della repressione franchista pesavano ancora sulla Spagna, dove per impedire la riapertura di profonde ferite i governi democratici – conservatori e socialisti – furono sempre molto cauti nel concedere fondi a ricerche e commemorazioni sul quel periodo storico.
A fronte di tale ricostruzione, l’attuale fenomeno indipendentista credo non sia solo un mero movimento politico, bensì una “cultura politica” o una subcultura nel senso più ampio del termine (Casassas, 2014). Come tale esso orienta sia i valori che le pratiche, ereditati e trasmessi da generazione in generazione.
Il catalanismo politico, nella sua accezione contemporanea indipendentista, è dunque un fenomeno che non può essere pensato se non come una somma dinamica di diversi elementi che nel corso della storia si sono mescolati fra loro. Durante le diverse fasi, infatti, si può rilevare come si siano tramandati e modificati le aspirazioni, gli obiettivi, i riferimenti e le attuazioni, in modo da mantenere viva la difesa degli ideali adattandoli alle esigenze delle varie epoche e a quelle dettate dal momento (interne, statali o internazionali). In questo senso, si riscontra non solo la sopravvivenza ininterrotta di un’azione politica plurale e intersoggettiva, che molto spesso si basa su un volontariato individuale e/o collettivo (a volte spinto fino al sacrificio) ma anche la costante volontà di creare istituzioni e di considerarle come nazionali (sia di promozione che di protezione culturale). Un altro elemento persistente e caratterizzante è la capacità di resistere e di propagarsi, nonostante (ma anche grazie) le incessanti ondate repressive, rappresentandosi talora come essenzialmente sostenuto da una sorta di “vittimismo rivendicativo”. Infine, il catalanismo, nelle sue diverse accezioni, si è sempre battuto per la partecipazione del movimento stesso nel processo di democratizzazione di fondo della società, una strategia politica senza la quale sarebbero impossibili l’estensione del sentimento identitario e la governabilità della Catalogna.
La richiesta di indipendenza attuale, credo sia la traduzione contemporanea della trasmissione culturale di questi elementi. Essere indipendentisti, quindi, è ed è stata anche una modalità di socializzazione in un determinato contesto, ma anche il tentativo di rendere “buono da pensare” un’opzione politica che ai catalani sembrerebbe sì più conveniente, ma soprattutto capace di conferire senso ad una realtà sociale in crisi. Crisi che attualmente implica più sfere: quella economica, quella politica, ma soprattutto quella generazionale.
Ascoltando le ragioni degli indipendentisti, mentre mi trovavo a condurre la mia ricerca, unitamente alle motivazioni di carattere economico o di intromissione statale sono presenti aspetti più profondi: una crisi di rappresentanza politica e soprattutto una crisi della «presenza», come direbbe De Martino (1973). Spesso, ho registrato la testimonianza dei Catalani che non si sentono “compresi” o “voluti” dal resto degli Spagnoli; oppure che non si sentono “rappresentati” da uno Stato che non ha ancora chiesto scusa per i crimini commessi durante il Franchismo. Moltissimi sono i catalani che condividono queste opinioni pur non sentendosi indipendentisti!
La crisi si esacerba nel momento in cui si è chiamati a negoziare tra la storia della propria comunità di appartenenza e la soggettività, magari in contrasto fra loro. Può manifestarsi in una delusione per le possibilità lontane dall’essere realizzate o in una frustrazione per gli avvenimenti il cui corso ha preso un’altra piega. L’indipendenza allora, oltre ad essere percepita come rimedio, riscatto o soluzione dei problemi congiunturali, diventa uno strumento simbolico per dare senso ad una realtà percepita come defraudante e defraudata. L’indipendenza è una possibilità di rendere protagonisti chi si sente tagliato fuori da un contesto che non è in grado di rappresentarlo e di conferire speranza verso un futuro che da ormai diversi anni – non solo in Spagna – è un orizzonte incerto e problematico. L’indipendenza potrà curare queste ferite oppure servirà a narcotizzare le pretese? C’è da chiedersi se l’indipendentismo sarebbe poi così pronunciato qualora tutti i fronti politici coinvolti in questo processo fossero davvero disponibili al dialogo e al confronto.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Riferimenti bibliografici
Bourdieu, P. , Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Cortina, 2003.(Esquisse d’une théorie de la pratique, 1972).
Casassas Y., J.La nació del catalans. El difìcil procés històric de la nacionalització de Catalunya, Barcelona, Editorials Afers, 2014.
De Martino, E., Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo, Torino, Einaudi, 1948; n. ed. Torino Boringhieri, 1973.
Masgrau R., Els Orìgens del catalanisme politic (1870-1931), Barcelona, Barcanova, 1992.
Jones, N. L., La questione catalana della guerra civile ai giorni nostri in Preston, P. (a cura di), Le basi autoritarie della spagna democratica, Torino, Rosenberg & Seller, 1978 (Spain in crisis the evolution and decline of the Franco Regime, 1976): 378-427.
Preston, P., La Guerra civile spagnola: 1936-1939, Milano, Mondadori, 2006 (A concise history of the Spanish Civil War, 1996).
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Elsa Franza Cavallini, antropologa culturale formatasi tra l’Alma Mater Studiorum di Bologna e l’Universitat de Barcelona. Ha condotto ricerche nell’ambito dell’antropologia dell’educazione, in particolare sull’adozione della prospettiva interculturale negli istituti italiani e sui processi politici internazionali. Dal 2011 svolge ricerca di campo in Catalogna, concentrandosi sul fenomeno dell’Indipendentismo. Attualmente lavora come HR Assistant per una società di consulenza aziendale, applicando l’antropologia culturale al mondo del lavoro.
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