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L’industria turistica tra realtà e finzione

copertinadi Alessandro Morello

Il turismo è considerato uno dei settori economici più importanti del nostro secolo, avendo ripercussioni in diverse attività sociali, e per questo motivo ritenuto da diversi studiosi come un fatto sociale totale [1] in grado di condizionare i diversi aspetti della società e le azioni degli individui.

La nozione di “fatto sociale totale” riassume bene un modo di concepire il metodo etnografico che individua una chiave di volta per costituire il sociale e da ciò poterne ricomporre le sue parti. Il turismo rientra entro questa categoria in quanto coinvolge economia, politica, relazioni sociali, aspetti culturali e simbolici ecc. Da qui la necessità di studiare il turismo e l’impatto che ha sui luoghi e sulle persone. Da qui l’affermazione di Marco D’Eramo, autore di Il selfie del mondo  (Feltrinelli 2017), che la  assimila alla più importante industria del nostro secolo proprio perché ha avuto delle forti ripercussioni sulle pratiche dei soggetti e sugli stessi luoghi che si sono dovuti re-inventare per offrirsi allo sguardo dei turisti.

«[…]l’industria più pesante, più importante, più generatrice di cash-flow del XXI secolo è proprio il turismo che ci mostra quanto assurda è la contrapposizione tra moderno e postmoderno, perché, in quanto “superfluo”, il turismo rientra di diritto nel postmoderno, ma la sua materialità di acciaio, auto, aerei, navi, cementifici, lo situa tutto dentro la pesantezza industriale del moderno» (D’Eramo 2017:12)

 L’antropologia ha letto il fenomeno turistico in modi diversi nel corso del tempo. Inizialmente è stato definito come una minaccia per i luoghi e le culture ospitanti. In seguito sono state meglio indagate le due categorie di attori sociali che ruotano intorno al complesso fattore turistico e che hanno pertinenze e ruoli precisi: gli abitanti della comunità visitata (hosts) e i turisti (guests). Introdotta dall’antropologo Smith (1977), la suddetta dicotomia è la conseguenza di questo modus operandi che interpreta il turismo e l’impatto tra due orizzonti di senso diversi come un incontro o uno scontro. Questa dicotomizzazione della realtà turistica implica una divaricazione del luogo   suddiviso sulla base di un rapporto tra il sacro (viaggio) e il profano (quotidiano). Una prospettiva che, in consonanza con quanto ha affermato dal sociologo MacCannell, sulla scia delle teorie di Goffman (1997) sulla rappresentazione drammaturgica della realtà, riproduce una dicotomia tra front regions e back regions, nella quale la prima è la ribalta e la messa in scena della realtà offerta al turista, mentre la seconda assolve una funzione protettiva.

Nell’analisi di D’Eramo non sembra, in verità, sufficientemente sviluppata un’attenzione verso le strategie di difesa messe in atto dagli hosts per proteggersi dallo sguardo dei turisti. Questo aspetto è, invece, messo in evidenza da Silvia Barberani, secondo la quale si viene a delineare una tensione tra queste due categorie che da una parte cercano di superare il velo della rappresentazione e dall’altra parte ribadiscono i confini della propria intimità culturale [2].

«l’incontro tra host-guest si configura in termine di opposizione tra desiderio dei visitatori di penetrare nell’intimità delle back regions e desiderio dei locali di tutelare la loro sfera privata, tentando di circoscrivere lo sguardo dei turisti sulla superficie delle front regions» (Barberani, 2010: 90).

1Da ciò emerge un’attitudine degli hosts a delimitare i loro spazi domestici, sottraendoli allo sguardo e alle attività turistiche viste come delle vere e proprie invasioni. Le strategie di difesa messe in atto dagli hosts sono finalizzate alla difesa dell’intimità culturale, preclusa allo sguardo degli estranei e proprio per questo concepita dai turisti come qualcosa di più autentico. Il luogo, diventando d’interesse turistico, assumerà diversi significati e alcune aree al suo interno verranno circoscritte e offerte all’attenzione e all’attrazione turistica. Si viene così a delineare una zona abilitata alla rappresentazione della cultura mercificata da veicolare, unitamente ad un’altra zona, privata e riservata, sottratta allo sguardo invasivo dei turisti.

I luoghi vengono pertanto investiti di significati in linea con gli immaginari turistici dominanti [3]. Ogni località, e nel caso dello studio di D’Eramo, la città, è oggetto di tecniche di zoning con l’obbiettivo di circoscrivere lo spazio della rappresentazione turistica da selezionare e veicolare. La pratica turistica ha delle implicazioni decisive non solo sugli individui che vestono la maschera del turista ma anche e soprattutto sui luoghi destinati a teatro privilegiato di questa rappresentazione. I luoghi possono subire le conseguenze di quel turismo selvaggio che distrugge gli ecosistemi o che destabilizza gli equilibri delle comunità locali, pur assicurante una fonte economica non indifferente per il benessere materiale degli abitanti.

Nella sua analisi sull’età del turismo che viviamo D’Eramo individua un’esperienza fuori dalla realtà ordinaria, una terza dimensione che si viene ad aggiungere a quella privata e pubblica. Ne ripercorre storicamente la genesi, a partire dagli esordi dei viaggi compiuti dai letterati dell’Ottocento. Il turismo ha infatti origine nel Gran Tour, il viaggio che compivano i giovani aristocratici per ritrovare i luoghi della cultura classica greco-romana, per scoprire le radici della civiltà europea, guidati dal desiderio di esotico o dalla seduzione dell’avventura o dal fascino delle rovine archeologiche. I primi viaggiatori inaugurarono così una pratica che con il passare del tempo è diventata un rituale di educazione alla società del tempo, «il progresso dei nuovi pellegrini», per usare le parole di Mark Twain. Questo tipo di viaggio si ritrova, per esempio, nel romanzo di Dumas, Il conte di Montecristo, quando Albert de Morcerf si reca in viaggio a Roma dove verrà rapito e poi salvato dal conte di Montecristo che, nel frattempo, ordisce la sua tremenda vendetta.

Anche dai viaggi raccontati da Flaubert, nel suo diario egiziano, si percepisce il desiderio di raggiungere l’Oriente quale meta di avventura esotica, salvo poi scoprire di ritrovare anche in Egitto «quel sentimento di noia che pensava di aver lasciato in Francia» (De Botton, 2010: 92). A guardar bene, il protagonista di questa pratica di viaggio non è poi molto lontano dalla figura del turista di massa, prigioniero di circuiti prestabiliti, condannato a frequentare solo i propri simili e a cui il contatto con i locali è del tutto precluso.

Nella contemporaneità il viaggio non è più una pratica elitaria riservata a una fascia ristretta di persone ma tutti siamo dei potenziali turisti. Questo aspetto è la conseguenza della mercificazione dei luoghi e delle sue attrattive, spazi geografici convertiti in feticci che danno vita a ciò che MacCannell indica con la sociologia del tempo libero [4]. Il turista è il soggetto che di volta in volta decide di compiere un viaggio in cerca di qualcosa sulla spinta di diverse motivazioni: fuga dall’ordinario, mero edonismo, richiamo esotico ecc. Ai fini della costruzione dell’immagine del turista e della sua reificazione Marco D’Eramo, prendendo spunto dalla teoria di Bourdieu, osserva come attraverso il meccanismo sociologico della svalutazione dei titoli si venga a delineare il soggetto inedito del turista in opposizione a quella del viaggiatore.

«La dialettica del declassamento e del riclassamento, che è all’origine di tutti i tipi di processi sociali, implica e impone che tutti i gruppi in questione corrano nella stessa direzione, verso le stesse mete, le stesse caratteristiche, cioè quelle che vengono indicate loro dal gruppo che occupa la posizione di testa nella corsa, e che sono per definizione inaccessibili agli inseguitori; perché, quali che siano in sé e per sé gli stessi obiettivi, le stesse proprietà, quelle che sono loro designate dal gruppo che occupa la prima posizione nella corsa e che, per definizione, sono inaccessibili agli inseguitori, poiché, quali che esse siano in sé e per sé, sono modificate e qualificate dalla loro rarità distintiva, sicché non potranno più essere quello che sono, una volta che, moltiplicate e diffuse, diventino accessibili a gruppi di rango inferiore» (Bourdieu, 2001: 168)

2Applicando il meccanismo sociologico alla pratica del viaggio si mette in evidenza come il fenomeno turistico e la nascita del turista siano in linea con un cambiamento del ceto medio che, nel tentativo di avvicinarsi a quello dominante, si approccia al tempo libero e alle attività ad esso collegate. Da qui la distinzione tra turista e viaggiatore visto che, una volta che il proletariato ha cominciato a viaggiare, è stato via via identificato attraverso la categoria di turista contrapposta al viaggiatore un soggetto che non è visto come un consumatore di luoghi e di esperienze fittizie.

Nel dibattito sul fenomeno turistico la riflessione sui luoghi che diventano simboli e marcatori territoriali e sul loro valore “autentico” assume un’importanza decisiva. D’Eramo riflette sulla città turistica e su come il cambiamento dei gusti e dello sguardo del turista abbia influito sulla percezione dei luoghi e sulle attrattive turistiche. Secondo MacCannell un’«attrazione turistica [è] una relazione empirica tra un turista, una veduta-sight e un indicatore marker cioè un frammento informativo riguardante una veduta» (MacCannell, 2009: 45). Nelle parole del sociologo americano una veduta diventa un’attrattiva turistica dopo che è stata caricata di determinati significati in linea con la narrazione da offrire al destinatario. L’attrazione gioca un ruolo fondamentale nel processo di costruzione dell’immagine da veicolare della realtà turistica, avrà il valore di marcatore territoriale in grado di conferire identità e riconoscibilità nel fronte indifferenziato dei luoghi. La località turistica di conseguenza si autodefinisce attraverso il ricorso a precisi marker in grado di rappresentare la complessità delle sue caratteristiche materiali e simboliche. Resta vero tuttavia che il turista, man mano che visita quel territorio, andrà alla ricerca dei suoi tratti più autentici o presunti tali, provocando a volte la reazione negativa delle comunità locali.

Con la diffusione del turismo gli spazi geografici vengono re-interpretati in base agli immaginari e alle narrazioni da veicolare. «Le città turistiche che, per attrarre i turisti e per esaltare la propria irripetibile unicità, si ridisegnano, si ripensano, si riprogettano tutte uguali tra loro, nella lotta per sottrarsi turisti. Non bisogna più pensare alla singola città turistica, quanto alla rete, al sistema delle città turistiche». Riflettere sulle politiche di sviluppo turistico può servire per mettere in luce la capacità o l’assenza di agency dei soggetti in queste politiche di “sviluppo” turistico. L’antropologo Noel Salazar parla infatti di processi di tourismification del quotidiano trasformato in spettacolo. Lo sviluppo turistico può avere degli esiti ambigui, da un lato può causare la perdita di orgoglio culturale e la completa dipendenza dall’indotto, dall’altro, diventa un modo potenzialmente facile per guadagnare risorse assolutamente necessarie. Il processo di tourismification ha ripercussioni all’interno della società dal momento che modifica profondamente il modo in cui abitanti e cittadini si vedono (Salazar, 2009).

La conversione delle comunità in oggetti turistici implica che i valori sociali e culturali tradizionali assumano una funzione commerciale – per soddisfare le aspettative dei turisti – perdendo di fatto quelle connotazioni simboliche che prima caratterizzavano quei determinati oggetti. Guardare alla città e alle sue rappresentazioni offerte allo sguardo del turista permette di riflettere sulla nozione di autentico, un nodo che è sempre presente e difficile da sciogliere. Riflettere sulla categoria dell’autentico significa ripensare i concetti di vero e di falso e la relazione tra questi e l’esperienza umana. Ogni narrazione turistica e quindi ogni località si costruisce intorno ad una visione stereotipata di un oggetto che, nell’accezione proposta da MacCannell, diventa marker turistico.

Nel saggio di D’Eramo emergono delle critiche molto interessanti alla città turistica come luogo della falsificazione. Secondo lo studioso

«il turismo stravolge non solo il paesaggio fisico, ma anche quello umano: proprio perché il nucleo della città turistica tende ad essere dominato dal commercio al dettaglio e da locali di svago piuttosto che da uffici, i quartieri residenziali di classe lavoratrice situati al centro diventano appannaggio di visitatori agiati, conducendo un’esclusione della classe lavoratrice dal centro» (D’Eramo, 2017: 73).

3 La città di conseguenza si trasforma e offrendosi allo sguardo del turista assiste al tramonto di importanti attività sociali. È il caso della città cinese di Lijiang, un esempio di quanto la decisione di uno sviluppo turistico possa arrivare a creare una realtà talmente falsa al punto da diventare vera. Spesso capita di vedere delle aree riqualificate per il turismo che agli occhi delle comunità locali si presentano come delle falsificazioni. In antropologia la riflessione sulla categoria dell’autentico ha preso diverse posizioni. Esistono tre punti di vista che guardano a questa categoria in maniera diversa. La prima, quella oggettivista, si concentra intorno al binomio vero/falso con l’obbiettivo di determinare un carattere intrinseco dell’oggetto in questione. La secondo prospettiva, quella costruttivista, considera l’autenticità come il risultato di una costruzione sociale attraverso diversi punti di vista. Secondo questo approccio, abbiamo «un’autenticità calda generata all’interno del sito da parte dei residenti; un’autenticità fredda, tipica dei costruttori di immagini inseriti nelle strutture organizzate dalle agenzie formative o della produzione culturale» (Simonicca, 2004: 90).

Un ultimo approccio, che vuole leggere l’autentico, è quello proposto dall’antropologo cinese Wang, il quale si concentra sul livello esperienziale e liminale della vacanza turistica. In questo livello di analisi, il piano degli oggetti e la loro presunta originalità sono irrilevanti secondo l’antropologo. «Quello che stanno cercando, tuttavia, non è una storia autentica o culturale ma se stessi autentici, scoperti nello spazio liminale che il viaggio turistico offre» (Wang, 1999: 9-10). L’antropologo cinese, andando oltre il rapporto vero/falso, si concentra sulle esperienze turistiche che danno luogo a delle occasioni per ritrovare quella dimensione domestica contrapposta a quella pubblica dell’esperienza moderna. Questo approccio non riguarda più gli oggetti turistici, ma i referenti del turismo, i turisti, il loro tempo libero e le loro aspettative. I luoghi portano con sé la traccia di una pianificazione prodotta da una politica turistica impegnata a fornire al turista immagini stereotipate di una determinata cultura.

«Non è un’esagerazione dire che lo zoning opera una violenza simbolica, intendendo con questo termine qualcosa di niente affatto immateriale o irreale, ma un dominio che agisce convincendo della propria legittimità coloro su cui si esercita [...] Sottoposti alla violenza simbolica, i dominanti applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti ai rapporti di dominio, facendoli apparire naturali» (D’Eramo, 2017: 133).
In questo suo discorrere sugli esiti di omologazione più distruttivi del fenomeno turistico nella sua pervasiva e distorsiva ricerca del cosiddetto autentico, Marco D’Eramo muove una severa critica all’Unesco e alla sua attività patrimonializzatrice, volta ad «imbalsamare, o surgelare, risparmiare dall’usura e dalle cicatrici del tempo: vuol dire letteralmente fermare il tempo, fissarlo come in un’istantanea fotografica, sottrarlo quindi al cambiamento e al divenire» (D’Eramo, 2017: 85). Occorre invece, pur nella necessità di fissare dei vincoli e dei limiti, inaugurare una politica di gestione del bene che tenga in considerazione il carattere multivocale di un luogo e le diverse attività sociali che vi ruotano attorno, evitando di dar vita ad una città morta nella quale il turista si muova in un deserto di rovine e musei.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Questo concetto è stato messo a punto da Marcel Mauss nel Saggio sul dono. Con esso voleva indicare, come afferma Clifford: «l’insieme totale dei rapporti che costituiscono la società in esame, allora questo assunto può valere anche come incoraggiamento ad afferrare l’insieme mettendo a fuoco una delle sue parti» (Clifford, 2010: 82).
[2] Secondo Herzfeld (1998: 71), l’intimità culturale è la «condivisione di tratti conosciuti e riconoscibili che non solo definiscono l’interiorità, ma sono anche percepiti come oggetto di disapprovazione da parte di potenti estranei ».
[3]  «L’immaginario turistico è quell’energia poietica che s’instaura in un processo interattivo, tra i soggetti, i luoghi e le narrazioni e che fa si che i turisti pensino a dei luoghi qualificandoli come turistici»(Morello, 2016).
[4] «Il tempo libero sta prendendo il posto del lavoro al centro dei moderni ordinamenti sociali. […] Stanno emergendo nuove forme di organizzazione da un ampio contesto di attività legate al tempo libero. […] Lo stile di vita, un termine generico per definire particolari combinazioni di lavoro e tempo libero, sta prendendo il posto della occupazione come base per la formazione di relazioni sociali, dello status sociale e dell’azione sociale» (MacCannell, 2009: 10). Il sociologo afferma che nella società moderna il lavoro si sia trasformato in un oggetto di curiosità turistica: «è solo trasformando in feticcio il lavoro degli altri, mutandolo in un divertimento […] che i moderni lavoratori, in vacanza, possono recepire il lavoro come parte di una totalità dotata di senso» (ibidem). Sulla base di quanto afferma MacCannell nella modernità si è andata affermando un’altra dimensione oltre a quella pubblica e privata, quella del tempo libero che ha un ruolo fondamentale nelle vite e nei luoghi destinatari.
Riferimenti bibliografici 
Barberani, S. (2010), Antropologia e turismo, Milano: Guerini editore.
Bourdieu, P. (2001), La distinzione, Bologna: Il Mulino.
Clifford, J. (2010), I frutti puri impazziscono, Torino: Bollati Boringhieri.
De Botton, A. (2010), L’arte di viaggiare, Parma: Le Fenici.
Herzfeld, M. (1998), L’intimità culturale, Firenze: La Nuova Italia.
Mac Cannell, D. (2009), Il turista, Torino: UTET.
Morello, A. (2016), L’immaginario turistico di Favignana e la produzione dell’habitus del turista, in  “Dialoghi Mediterranei”, n.20, luglio.
Morello, A. (2017), Il paesaggio come concetto multivocale: il caso del Parco lombard del Ticino, inDialoghi Mediterranei”, n.26, luglio.
Salazar, N. (2009),  Imaged or Imagined? Cultural representations and “tourismification” of peoples and places, in “Cahers d’étude africaines”, XLIX (1-2).
Simonicca, A. (2004), Turismo e società complesse, Roma: Meltemi.
Wang, N. (1999),  Rethinking authenticity in tourism experience, inAnnals of tourism”, 26 (2).
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 Alessandro Morello, dopo la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli studi di Palermo, si è specializzato in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca con una tesi sulla costruzione dell’immaginario turistico a Favignana. È impegnato a focalizzare l’attenzione scientifica sul carattere processuale e dinamico dell’immaginario turistico, nonché sulle pratiche di pianificazione turistica e sulle capacità di agency dei soggetti.

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