Danilo Dolci raccontò una volta in un’intervista televisiva l’esperienza dell’incontro a Partinico con un anziano contadino che raccoglieva tra le mani fiori di gelsomino da un pergolato. Gli si avvicinò e chiese se si preparava a fare il tè con i fiori. Ma il contadino rispose che avrebbe messo i gelsomini davanti alle fotografie dei genitori. «Dentro mi sono sentito trasalire – confessò Dolci – io passo per poeta e penso al tè di gelsomino. Lui ritenuto incolto è in uno splendido rapporto con la fonte della sua vita». Ma aggiunse: «L’anziano vedendomi un po’ sbalordito, si avvicinò e mi diede tutti i gelsomini di cui aveva colme le mani: tieni ti profumano la macchina, mi disse». L’indomani lo scrittore sentì il bisogno di rincontrarlo per ringraziarlo per la lezione che aveva appreso. Ma il contadino lo anticipò amabilmente per chiedergli come si fa il tè con il gelsomino. «Quel piccolo anziano mi aveva insegnato – commentò alla fine Danilo Dolci – che un rapporto esclusivamente unidirezionale è un rapporto violento».
Forse non c’è nulla di più affascinante nel lavoro di ricerca antropologica del conoscere attraverso l’osservare e scoprire al tempo stesso di essere osservato, di interrogare e accorgersi di essere interrogato. Caduta l’onnipotenza e l’onniscienza di chi prende la parola al posto dell’Altro perché ha il privilegio di possedere la scrittura, quest’ultima è stata – come è noto – oggetto di un profondo processo di revisione critica, che ne ha evidenziato le strategie retoriche di rimozione e occultamento, le ambiguità e le parzialità delle rappresentazioni testuali, la presunta e improbabile oggettività delle monografie classiche dell’etnografia. Con la crisi dei tradizionali modelli di autorità messi in discussione dalla rivoluzione ermeneutica dell’antropologia riflessiva si è definitivamente incrinata l’egemonia del ricercatore che si arroga il diritto di fare domande a quanti si attribuisce unilateralmente il dovere di dare risposte. Il passaggio dal paradigma monologico a quello dialogico ha portato alla luce quanto era sempre rimasto nell’ombra, nella separatezza del tempo del campo da quello del testo: la dimensione soggettiva e la biografia intellettuale, le problematicità della ricerca e le suggestioni della memoria, la processualità del lavoro e le tecniche di come un sapere si assume, si scrive e si offre alla lettura.
Nel denso e segreto punto d’incrocio tra esperienza etnografica ed elaborazione antropologica si situano quegli scritti ai confini della letteratura, dello stile narrativo, del diario e dell’autobiografia. Un genere di testi classificati di norma come ‘paratesti’, in passato oscurati, censurati e sacrificati in ossequio a supposti criteri di oggettività scientifica e per effetto di quella tendenza all’autonascondimento, a quella sorta di “non detto” metodologico che a lungo ha pesato sulla messa in forma del flusso delle idee e dei dati conoscitivi. I pensieri vaganti che si addensano ai margini della ricerca possono avere l’asistematicità delle note estemporanee oppure la scrittura più controllata delle cosiddette Note di campo, che il canone comunque prevede accompagni l’indagine nel suo farsi. Dentro quelle pagine entrano intuizioni, umori e malumori, osservazioni e prime impressioni, dubbi e interrogativi, semplici descrizioni dei contesti o riflessioni rapsodiche, mappe e ipotesi, una massa di appunti destinati a restare fuori dal testo, se pure ad esso correlati, complementari o propedeutici. Spesso la forma diaristica che può sconfinare nel monologo interiore trasforma l’autore in scrittore, l’antropologo in narratore, confermando quanta ispirazione letteraria sia indissolubilmente connessa a questa scienza dell’uomo, ribadendo quanto ha esemplarmente dimostrato il compianto Alberto Sobrero nel suo impareggiabile studio Il cristallo e la fiamma (Carocci 2009).
Senza questo radicato e profondo legame nel segno dell’attitudine universale al narrare «come parte del patrimonio con cui ognuno di noi viene al mondo» (Sobrero 2009:40), non avremmo avuto i Tristi Tropici di Lévi-Strauss che Todorov ha definito «un libro profondo, saggio, triste, ricco di sapere e di riflessioni! Le scienze umane non avrebbero potuto produrre niente di meglio!». Quel che per il suo autore era una digressione, «un libro scritto mettendo da parte il suo lavoro scientifico – aggiunge Todorov (2010: 132) – continuerà ad essere letto, a differenza dei quattro volumi delle Mitologiche, esiti della sua analisi strutturale dei miti, che non saranno molto letti in futuro, o lo saranno in quanto raccolte di miti piuttosto che come scienza dei miti». Senza i Tristi Tropici non avremmo conosciuto il “disancoramento cronico” di cui ha sofferto Lévi-Strauss, quella fragilità esistenziale per cui in nessun posto si sentirà più a casa sua, non avremmo probabilmente capito fino in fondo il senso ultimo del progetto umanistico della sua antropologia.
La letteratura dunque scorre nelle vene della scrittura antropologica attenta non solo alle storie di vita ma tout court alla vita degli uomini, alle loro speranze, alle loro sofferenze, al loro immaginario. Da qui quell’intimo disagio del ricercatore, quel «sentimento di sconfortata inadeguatezza» che muove dalla consapevolezza di «quale sforzo intellettuale ed etico occorra per trasformare l’esperienza dell’incontro etnografico in comprensione, racconto, progetto». Così scrive Francesco Faeta nelle prime pagine del suo ultimo libro, L’albero della memoria. Scritture e immagini, edito dal Museo Pasqualino di Palermo (2021). Un testo antologico di note, di riflessioni, di citazioni estratte dal taccuino di appunti tenuto dall’autore per più di quarant’anni, dal 1976 al 2019, «una sorta di backstage del lavoro di uno studioso di scienze sociali in anni determinanti della vicenda italiana». Si tratta di una scrittura «affrancata da un immediato orizzonte professionale, dalle sue tirannie e dalle sue angustie», accompagnata o sollecitata da fotografie, che sono, si sa, consustanziali all’intensa e feconda esperienza etnografica di Faeta, da sempre impegnato a presidiare e scandagliare i confini tra parole e immagini.
Nel circolo ermeneutico nel quale – come ha spiegato Lèvi-Strauss – si trova inevitabilmente coinvolto l’osservatore, in quanto parte della propria osservazione, l’antropologo che assembla frammenti di memoria autobiografica è palesemente esposto alla nuda narrazione di sé, del suo percorso scientifico e umano, del suo sguardo sul mondo. In questa tensione espressiva ci si può trovare di fronte «a pensieri rigorosi o a sentimenti palpitanti. – ha annotato Elsa Guggino (1993: 251) – Temo soprattutto gli ultimi, ma i primi non poco mi turbano. Temo l’equivocità che insidia troppo spesso il sentire commosso; mi turba colui che sa come veramente stanno le cose». Francesco Faeta in questo libro, così personale, così «rischiosamente e ambiguamente sospeso tra autobiografia, racconto, reportage e saggio», sembra voler proprio sfuggire alle retoriche sentimentali e alle arroganze dell’intelligenza, testimoniando l’onestà dell’interrogare e dell’interrogarsi quali mozioni fondamentali della ricerca antropologica e del suo stesso modo di abitare la vita e il mondo.
«La scrittura antropologica – aveva scritto Faeta in un altro volume, Strategie dell’occhio (1998: 127), – non è un resoconto scientifico ma neppure un romanzo. Costituisce forma intermedia proprio in quanto narrazione, attiene, per qualche verso, al resoconto scientifico perché deve comunque dare ragione di una realtà esistente fuori dal soggetto, di qualche oggettività empiricamente percepibile». Ne L’albero della memoria l’autore ripercorre i luoghi dei suoi pellegrinaggi intellettuali, ripropone i temi centrali dei suoi studi e le questioni del suo impegno culturale e politico, tenta qualche bilancio, traccia qualche ipotesi di futuro, descrive, racconta, ragiona, ricorda. Torna ad attraversare il tempo e lo spazio di una intera vita, riannoda i molteplici fili degli incontri, delle amicizie, delle letture. Pone domande sul destino delle città, dei paesi, del mondo contadino, delle diaspore, della fotografia e della stessa antropologia. Nelle pagine di questo complesso e illuminante breviario i vivi dialogano con i morti, le ragioni dello sguardo con le ragioni della scrittura, la realtà quotidiana con le rappresentazioni simboliche dell’immaginario popolare.
Da Melissa a New York Faeta passa in rassegna gli anni e i paesaggi di convulse trasformazioni, di coraggiosi ammutinamenti e di vili tradimenti. Scorci di un Novecento di idealità e di fermenti, di utopie e di sconfitte. Nelle Note ai margini della ricerca sulla strage di Melissa, «luogo di baroni immemori, avidi gabelloti, pastori folli», l’antropologo scrive tra dicembre 1978 e febbraio 1979: «visto da qui il socialismo appare unica cosa umana, segno e sostanza dello stare nel mondo, forzandone le oscure e ottuse ragioni. Qui si avverte che l’ingiustizia, al di là della precisa percezione storica che di essa si ha, è un male ontologico che rende manifesta una più complessiva estraneità e riottosità del mondo». Dalla Calabria muove l’apprendistato dei suoi studi e alla Calabria Faeta torna ciclicamente e nostalgicamente, come ad un grembo materno, ad un riparo sicuro, una sorta di axis mundi, di asse cosmogonico, orizzonte dove tutto è cominciato e tutto confluisce. Quel territorio magico e straziato è misura del tempo immobile come dei tumultuosi e rovinosi processi di cambiamento, è spazio in cui la stessa antropologia è sfidata nelle sue perenni evoluzioni.
«Compito della nostra disciplina – scrive in una pagina del 27 giugno 1987 – sarebbe quello di misurarsi con tale realtà che resta, per fortuna, in parte estranea al pensiero critico e pertanto ancora riconoscibile ed esperibile. Tuttavia mi pare che ormai i tamburi tacciano: crassi assessori, ignoranti di pratiche e segni, strumentalmente si dividono la torta dei bisogni popolari; identità locali superfetano, alimentate da poteri impresentabili; festival sorgono per restituire artificialmente sangue e carne ai fantasmi; ricchi premi sono distribuiti ai complessi folkloristici; i villaggi lontani sono deserti, come i monti che li circondano».
Nel suo peregrinare per i paesi-cimitero e i cimiteri-paesi calabri, tra riti che mutano la loro natura e altri che resistono nel profondo, Faeta descrive con le suggestioni della memoria e la grazia della narrazione i luoghi della sua infanzia, la casa paterna, le lunghe estati in campagna, gli odori pungenti e le sonorità di una lingua indimenticata: «Ho l’impressione che molte delle cose che poi sono venute abbiano avuto una loro genesi in quel tempo e in quello spazio aurorale». Non aveva origini contadine la sua famiglia ma a quel mondo comunque apparteneva, a quell’orizzonte culturale. «Rispetto alla morte, ai morti, a Dio, ai suoi ministri in terra, al mondo esterno, allo Stato e ai suoi poteri, a esempio, il pensiero dei nostri anziani poco si discostava da quello della maggior parte dei contadini». E tuttavia nel ripensare a quell’esperienza aurorale resta pur sempre imperscrutabile e inintelligibile il mistero della differenza, lontana e irraggiungibile la com-prensione profonda di quel mondo le cui ragioni «non sono sempre culturalmente e socialmente esperibili, ma allogano in domini indefiniti, inerenti forse ad altre scienze ma, più probabilmente, ad un sapere, eticamente rischiarato, che non siamo ancora giunti a riconoscere, nominare e porre all’opera».
Chinato a raccogliere ad una ad una le foglie staccate dall’albero della memoria, l’antropologo denuncia «l’insufficienza degli apparati conoscitivi che consuetamente maneggiamo», la sostanziale inadeguatezza della scienza a rischiarare l’oscuro enigma della condizione umana. Sarà anche per questo che Francesco Faeta ha sempre coltivato lo studio e l’uso della fotografia non come ausilio complementare della scrittura ma come insostituibile strumento di decostruzione dello sguardo, «ponte gettato attraverso le acque scure dell’incomprensione o del fraintendimento», formidabile chiave di lettura della realtà o della sua rappresentazione nonché documento della stessa attività conoscitiva che presiede alla investigazione etnografica. Non poche pagine del taccuino sono dedicate alla fotografia che ha dato corpo e vita alle sue campagne di ricerca sul campo, sui cimiteri rurali e sulla morte nella cultura popolare, sui Carnevali e le Pasque del Mezzogiorno d’Italia e sulle forme dell’abitare, sulle stazioni e sulle periferie di Roma, sui musei e sui luoghi d’arte contemporanea. Dense osservazioni sui paesaggi urbani e umani accompagnano immagini di porti e litorali italiani, di città americane e di quartieri parigini, di cieli e volti di uomini e donne di Calabria. Una selezione di figure che senza didascalie e in una postura autonoma rispetto al testo riescono a dare senso e contesto alle parole.
Non sfuggono a Francesco Faeta i sommovimenti planetari destinati a trasformare le geografie e le dinamiche antropologiche dei continenti. In una pagina datata 4 novembre 1978 ipotizza l’avanzare di «diversità di nuova morfologia», si chiede se la nostra disciplina sarà in grado di «riconoscere i nuovi soggetti sociali portatori del messaggio dell’alterità». E dieci anni dopo davanti al fenomeno degli immigrati che si rendono visibili ai semafori delle strade, diventati punti d’incontro di mondi diversi, scrive: «Si possono lasciare tutti costoro fuori dall’auto, confinati nell’incerto film del parabrezza, nell’irrealtà di una metropoli intravista, o li si può accogliere, sia pur per un attimo, nel nostro microcosmo semovente, premendo un tasto o girando una manovella». E più recentemente in una nota del 2004 scritta durante un suo soggiorno a Parigi commenta:
«Cerco di entrare negli occhi dei bambini che vedo nel metrò o nelle strade, quando ho la possibilità di farlo. Perché mi sembra che più che da ogni altra lettura politologica, sociologica o antropologica, è dall’interno di quei fondi, e in genere scuri, occhi infantili, che è lecito aspettarsi qualche risposta». (…) «ma intanto il mondo è esploso, si è messo in movimento e nessun saggio rimedio è più possibile prendere. (…) Chi abiterà, in un prossimo futuro, le terre desolate dell’assenza, chi conforterà la melanconia di coste, savane, foreste e paludi svuotate? Saranno nuove schiere di capitalisti alla rampante ricerca delle ultime risorse planetarie o le orde dei sopravvenuti fondamentalisti che avranno finalmente avuto ragione di ogni mite e umile dissenso?»
L’attualità delle domande reiterate come inquieto e ostinato contrappunto lungo tutto il libro accompagna e ispira il progetto di un’antropologia visionaria, vissuta ancora come rimorso ma soprattutto come ininterrotta ricerca del senso, viatico etico-civile di utopie di riscatto e di giustizia. Ragionando da sempre sullo statuto delle immagini e sulla politiche dell’immaginario Faeta resta particolarmente attento alle complesse connessioni di simboli e segni nelle sfide aperte dalla postmodernità e dalle nuove frontiere delle scienze. «Appare evidente – egli scrive – come il reale non sia che un’elaborazione del fantastico (…) e come il fantastico sia la forma privilegiata del reale». Da qui lo sguardo volto oltre l’orizzonte a conoscere e riconoscere le nuove forme di umanità nei figli degli immigrati stranieri, a individuare nell’experialismo il fenomeno di governo dei territori del Sud che lo Stato ha abbandonato a sé stesso, a intravedere implosioni e apocalissi negli sviluppi sperimentali dell’ingegneria genetica, fino a pronosticare «un’opaca entropia dell’umanità», fino a vaticinare in una nota del 4 dicembre 1985 presagi che sembrano parlare alla nostra angosciosa contingenza pandemica e alle catastrofiche condizioni climatiche della Terra: «Potrebbe esserci un momento di ineguagliata tragicità nella vicenda del pianeta e dei viventi: quello in cui gli ultimi mortali vedranno consumare le briciole del loro tempo sotto gli occhi indifferenti o beffardi degli immortali (o dei diversamente mortali)».
Questioni culturali che al di là delle ideologie ripropongono con nuovi accenti il paradigma antropologico della “crisi della presenza” e la necessità di un nuovo “ethos del trascendimento” a fronte della minaccia di collasso dell’Antropocene, dei rischi correlati alla fragilità ambientale e alle emergenze ecologiche. Dall’antropologia lo studio delle società tradizionali insegna il peso delle interdipendenze nel sistema delle relazioni uomo-natura, l’importanza del dialogo fra le culture, il valore inalienabile dei beni comuni. Il futuro immaginato, pur «in una stagione di caotica e contraddittoria regressione della società occidentale (e occidentalizzata)», è scritto nelle pagine della memoria, origina e palpita nel ricordo di un tempo in cui «si guardava alla sostanza umana delle persone, ai doni come testimonianza di una solidarietà possibile e praticabile, all’innocenza infantile, trasparente messaggio dei morti e degli dèi, della loro misericordia».
Ricordare è un po’ come immaginare e nell’Albero della memoria di Faeta l’antropologia non poteva non incontrarsi e confondersi con la letteratura, con quella raffinata scrittura che nell’arte del narrare storie confina con l’estetica, con l’epica, con il mito. Del resto, Sciascia ebbe a dire in un convegno che gli antropologi studiano la cultura, le culture. Gli scrittori invece la narrano, la raccontano, la rappresentano. Ma se certa antropologia studia le realtà di lunga durata, le invarianze, le permanenze culturali, così pure molta letteratura proprio in queste realtà, nelle permanenze e nelle invarianze, ha trovato humus e ragioni.
La verità è che quando gli antropologi indagano nell’universo umano della memoria coagulata nelle storie di vita diventano essi stessi i nuovi narratori della contemporaneità. Così, per molti aspetti, alcuni passaggi autobiografici del libro di Faeta assumono un’indubbia connotazione letteraria, una dimensione poetica e meditativa, senza togliere nulla alla densità della riflessione antropologica. Così è nel ricordo del padre, intravisto su un treno in partenza nel buio di una stazione ferroviaria di un paese calabrese.
«Lentamente il treno si muove per acquistare, poi, velocità. Mio padre, e poi il treno, spariscono. Resta l’ombra vorticosa e la sensazione di un sogno; la solitudine dell’alba quando gli ingannevoli messaggi della notte dissolvono, e di un tempo che inesorabilmente va trascorrendo. Per anni, durante l’infanzia, restiamo accanto a loro in intimità totale, ma senza alcun mezzo reale di comprensione (rapiti come siamo dalla nostra numinosa vicenda). Quando tali mezzi appaiono e iniziamo a chiederci chi essi siano – e siano stati – in vero, al di là delle maschere del dovere e dell’affetto, quali sentimenti e vicende abbiano vissuto, come abbiano patito e gioito, è già cessata quella miracolosa e sublime intimità e, immersi nella nostra routine, li osserviamo perplessi e titubanti. Ci avvertiamo distanti, poi, quando si perdono nei malati meandri della loro senilità e quando cerchiamo di legare il nostro e il loro tempo con faticosa impazienza».
Il rimpianto del tempo perduto, dei debiti mai del tutto saldati, dell’umana irrisolta incomprensione fa dire all’autore, alla fine della nota, che «restiamo ignoti a noi stessi». In altre pagine il racconto indugia nella descrizione dei paesaggi, specie in quelli dei paesi del profondo sud, «sineddoche del mondo», laddove soffiano venti che gemono, «nell’incipiente meriggio, lungo la parte che guarda il mare, nella dimora infantile di Accaria», passavano i carretti «che sollevavano sotto le loro ruote una scia di frementi scintille, una stretta via lattea, prima di sparire ingoiati nell’ombra», e tra i vicoli stretti di Nicastro scende «una sera inquieta di vento improvviso, di presenze animali attonite agli angoli, di dense ombre altalenanti, di fumi e odori acri nell’incipiente inverno, di nuvole rapide e leggere e di improvvise stelle riverse, di anziani bevitori nelle cantine fredde…». In forma di meta-letteratura o di meta-antropologia (poco importa), il passato rimemorato non sembra appartenere a una qualche temporalità ma a quanto di invisibile e di irriflesso prova a trascenderla: «a quanto è a monte del mestiere dell’antropologo, insomma, e che forse ne costituisce la ragione, a quanto è a valle di esso, e forse ne costituisce l’esito meno effimero».
Il potere maieutico della scrittura che racconta e presentifica il passato converte la vita privata in una storia pubblica, una testimonianza che convoca in una sorta di Spoon River gli amici che non ci sono più, le persone care, gli autori dei libri amati, delle opere d’arte ammirate. Faeta ricorda fra i tanti la moglie Marina Malabotti, i compagni del lavoro fotografico Mario Dondero e Marina Miraglia, l’amico Arturo Zavattini e il padre Cesare, gli artisti Ernesto Treccani e Mario Schifani, l’antropologo Antonino Buttitta e il fondatore della Casa Museo di Palazzolo, Antonino Uccello: «forse niente e nessuno mi ha saputo restituire il senso della necessità e della nobiltà della memoria, come quell’esperienza, pur sviluppata in un piccolo paese dell’estrema periferia nazionale». Tutto il libro è attraversato da nomi familiari alla storia del Novecento, da figure meno note e tuttavia protagoniste nelle esperienze di formazione e di maturazione dell’autore. La loro scomparsa non ha obliterato la loro presenza.
A leggere bene, la morte che ricorre insistente nelle pagine di Faeta come nella vita e nei suoi studi trova riscatto nel rito della memoria che laicamente salva le identità di ciascuno dal definitivo ed eterno dissolvimento. «Il tempo della memoria – ha scritto Alberto Asor Rosa (2002: 99) – è il crepuscolo, quando la luce, una luce radente, toglie consistenza ai corpi ma allunga le ombre». E l’antropologo, riconoscendosi nel culto dei defunti della cultura contadina, rivendica l’appartenenza a quella comunità immaginaria fatta di vivi, di morti e di nascituri, anelli dell’infinita catena delle generazioni che risale all’origine dei tempi. Il vuoto delle loro assenze diventa tuttavia irrimediabile «quando, accanto alla mancanza dei corpi, si sperimenta quella delle idee, del loro rigenerante, benché illusorio, potere d’illuminazione sulle nostre esistenze». Da qui la nostalgia del passato, di luoghi e persone assenti ma ancora viventi, che non è incompatibile né inconciliabile con l’utopia del futuro possibile.
Faeta, in tutta evidenza, non ha nostalgia della fame e della miseria di un mondo che ha conosciuto emigrazioni e privazioni. Non insegue retrotopie consolatorie e illusorie. La sua nostalgia rinvia ad una concezione circolare del tempo, in cui il passato – ereditato, ripensato e rinnovato – ritorna sotto forma di futuro. Una nostalgia «critica e riflessiva» e perfino «sovversiva» che, per usare le parole di Vito Teti (2020: 15), «finisce paradossalmente con lo scardinare l’idea stessa di modernità e svela le illusioni e l’impossibilità delle magnifiche sorti progressive».
Non sappiamo se la pandemia è una tragica ma effimera parentesi o sarà piuttosto un’endemica e angosciosa compagna delle nostre giornate. La lezione appresa da Danilo Dolci dal contadino di Partinico vale ancor più oggi nel tempo segnato dal trauma collettivo dell’evento epidemico. Non un’invasione aliena ma una lunga e perturbante catena di cause endogene, tutte riconducibili ai modelli culturali del capitalismo mondializzato e dell’Occidente neoliberista che ci hanno reso soli, egoisti e vulnerabili. La critica della presunzione antropocentrica trova nell’intenso breviario di Francesco Faeta le parole e le idee di un visionario progetto che immagina un nuovo e antico umanesimo, che fa della vita una impresa collettiva fondata su com-prensione, cooperazione e condivisione.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Riferimenti bibliografici
A. Asor Rosa, L’alba di un mondo nuovo, Einaudi Torino 2002
F. Faeta, Strategie dell’occhio, FrancoAngeli Torino 1998
F. Faeta, L’Albero della memoria. Scritture e immagini, Museo Pasqualino Palermo 2021
E. Guggino, Il corpo è fatto di sillabe, Sellerio Palermo 1993
C. Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore Milano 1960
A. M. Sobrero, Il cristallo e la fiamma. Antropologia tra scienza e letteratura, Carocci Roma 2009
V. Teti, Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Marietti Bologna 2020
T. Todorov, Una vita da passatore. Conversazione con Catherine Portevin, Sellerio Palermo 2010
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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