di Rita Iocolano
There are these two young fish swimming along and they happen to meet an older fish swimming the other way, who nods at them and says “Morning, boys. How’s the water?” And the two young fish swim on for a bit, and then eventually one of them looks over at the other and goes “What the hell is water?” (David Foster Wallace)In Mind and Nature, Gregory Bateson scrive che «pensare in termini di storie deve essere comune a tutta la mente o a tutte le menti, siano esse le nostre o quelle delle foreste di sequoie o degli anemoni di mare» (Bateson 2004: 28). Tra i tanti aggettivi che sono stati usati per definire Homo sapiens sapiens compare anche quello di narrans. Homo sapiens sapiens è quindi, tra le altre cose, Homo narrans e il suo essere un narratore/narrante è un fatto connotato sia culturalmente che biologicamente. Gli esseri umani costruiscono le proprie storie, la storia della propria vita, per la necessità di relazionarsi con gli altri e di dare significati agli eventi, secondo modalità che seguono le integrazioni dei processi dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro del cervello, e tale integrazione consente loro di narrare. Ma la narrazione ci appartiene anche senza le parole. Scrive Antonio Damasio:
«La narrazione senza parole è naturale. La rappresentazione immaginale di sequenze di eventi cerebrali, quale si realizza in cervelli più semplici del nostro, è la materia di cui sono fatte le storie che vengono narrate. [...] Raccontare storie, nel senso di registrare ciò che accade in forma di mappe cerebrali, probabilmente è un’ossessione del cervello e probabilmente inizia relativamente presto, sia in termini di evoluzione sia in termini di complessità delle strutture neuronali necessarie per creare narrazioni. [...] I filosofi si lambiccano il cervello per tentare di sciogliere l’enigma della cosiddetta “intenzionalità”, vale a dire il fatto – affascinante – che i contenuti sono “attinenti” a cose esterne della mente. Sono convinto che la pervasività dell’“essere attinente” della mente affondi le radici nella disposizione cerebrale alla narrazione» (Damasio 2005: 228-229).
Sin dalle origini del nostro essere uomini siamo In Geschichten verstricht, avviluppati in racconti, come titola un suo libro l’avvocato tedesco Wilhem Shapp.
Nodo centrale è la questione dell’intenzionalità – in alium tendere – cioè la capacità che la mente umana ha non solo di relazionarsi con oggetti esterni ad essa ma anche di esserne consapevole, distinguendo le idee dalle cose. Gli esseri umani intrattengono col mondo e con gli altri un rapporto di tipo semantico che è fatto di idee, di pensieri e della possibilità di creare un’immagine del mondo in testa. Tutta l’esperienza umana è fortemente caratterizzata dal fatto di comprendere storie intrise di intenzionalità e grazie a essa è possibile riconoscere un ‘altro’ diverso e simile con cui dialogare. Secondo i neuroscienziati i pensieri stessi sono costituiti da immagini ed è sotto questa forma che giunge alla mente «la conoscenza fattuale che si richiede per ragionare e per decidere» (Damasio 2003: 149). La conoscenza del mondo avviene, dunque, anche attraverso l’immagine e attraverso il corpo. La facoltà immaginativa, traducendosi in comunicazione, consente la creazione di immagini poietiche che possono raccontare il mondo da cui scaturiscono. Prima di narrare il mondo, quindi, l’uomo deve avere avuto la capacità di ordinarlo in storie e immagini di queste. Ed è grazie al linguaggio – sia verbale sia iconico – che all’uomo è possibile comunicare l’organizzazione del mondo in storie. È con il linguaggio che il continuum può essere trasformato in discreta e che l’omogeneità indefinita di cui parlava Comte può diventare eterogeneità definita.
Attraverso il linguaggio, strumento ordinatore del mondo, l’uomo conosce e plasma le sue percezioni. È indubbio che nella storia dell’evoluzione il linguaggio abbia giocato un ruolo fondamentale fino a divenire la principale pratica culturale per esprimere le storie in cui gli uomini vivono ed è noto che gli esseri umani sono tali per la loro capacità di dare un nome alle cose, ma prima ancora perché le riconoscono come parte di un contesto, conferendo senso, connettendo sensi, costruendo storie.
Se è vero che la cultura è l’universo della significazione, ossia della comunicazione [1], per indagare il rapporto tra individuo e società bisogna ricordare che il campo di osservazione sta subendo un cambiamento: è in atto una trasformazione della realtà della comunicazione e si devono considerare nuove possibilità di analisi che indaghino come le «tecnologie di connessione modificano il modo di pensare e di pensarci nella relazione con gli altri e con il mondo» (Boccia Artieri 2015: 11) e come le immagini sussumano nuova forza comunicativa. Bisogna tenere a mente il ruolo delle immagini come forma di comunicazione archetipica, ancestrale eppure ultra contemporanea, per i diversi strumenti coi quali oggi vengono messe in atto pratiche discorsive e comunicative. Quando nelle relazioni comunicative volontarie entra in gioco la rappresentazione iconica non si tratta mai di semplici immagini, ma di una potente affermazione di sé e del proprio mondo.
Con la diffusione dei siti di Social Network – e la loro progressiva incorporazione tramite dispositivi di comunicazione mobile – si ha una propagazione di immagini e narrazioni priva di precedenti. Nella società di oggi, accanto al predominio della vista si fa largo la dimensione tattile nella costruzione di un mondo digitale, in cui immagini digitali si irradiano e moltiplicano in maniera multiplanare. Tutti quei dettagli che Roland Barthes chiama «inutili», cioè eccessivamente funzionali e votati a creare un effetto di realtà, possono però essere ricondotti a valore significante, collocando i “rumori” in diversi piani di significato. E allora tutte le immagini assumono senso.
All’interno del flusso visivo quotidiano in cui viviamo immersi, le immagini, dunque, definiscono forme di auto-rappresentazione e/o di identificazione. E l’immagine, la rappresentazione si riferiscono al processo attraverso il quale segni e simboli raffigurano aspetti della (propria) realtà – siano essi oggetti, persone o eventi. Spesso sono immagini che raccontano gli eventi minimi della vita spicciola che gli utenti vogliono condividere e che possono fungere da matrice conversazionale sfruttando la possibilità tipica dei Social Network di essere commentate. In questi casi è come se fossero le immagini a raccontarci, come se noi stessi fossimo la storia, ma se questa non fosse comunicata sarebbe come se non esistesse, come se non esistessimo.
La rappresentazione e l’auto-rappresentazione differiscono tra loro, ça va sans dire, perché il produttore di quest’ultima ne è anche il soggetto. Ma l’auto-rappresentazione ha una caratteristica fondamentale: spesso si tratta in prima istanza di una rappresentazione di sé per se stessi da offrire solo secondariamente agli altri e costituisce un’occasione per riflettere sulla propria identità, sulle proprie abitudini e su tutte quelle esperienze che si identificano come significative hic et nunc. Il meccanismo di auto-rappresentazione implica anche che si operi una scelta su quali aspetti di sé presentare e come presentarli, in una spirale di mediazione tra sé e il mondo.
Chi gestisce un profilo personale sui Social Network ha la possibilità di personalizzarlo e raccontarsi, di comunicare la propria identità ricorsivamente con immagini, testi e altri contenuti mediali. Il Social Network Facebook, ad esempio, a meno che non siano gli utenti a volerlo, archivia automaticamente tutti i contenuti caricati, sia testuali che iconici, e li organizza come un diario facilmente consultabile. Di più: raccoglie in un album tutte quelle immagini che vengono caricate come “immagine di profilo”, dunque allo scopo di presentare se stessi e rendersi riconoscibili, permettendo di selezionare vari livelli di privacy. Ancora, l’immagine e la fotografia sono importanti per comprendere le questioni identitarie e i processi di auto-rappresentazione. Si pensi, ad esempio, al progetto PhotoVoice [2] in cui si invitano le persone a fotografare aspetti della propria vita in una sorta di auto-etnografia, permettendo ai soggetti della ricerca di esprimersi attraverso le immagini che potrebbero poi essere utilizzate dai ricercatori per interviste con fotoelicitazione, attivando processi di metanarrazione di sé.
L’acme dell’auto-rappresentazione oggi sui siti di Social Network è costituita da quelli che vengono comunemente chiamati selfie, ovvero degli autoscatti fatti – quasi sempre – attraverso device personali quali tablet e smartphone e che ritraggono in pose contraddistinte da un’estetica condivisa [3]. Proprio a causa della coevoluzione tra dispositivi tecnologici e siti di Social Network la comunicazione attraverso le immagini si fa pressante. A partire dalla scelta di un avatar che renda immediatamente riconoscibili gli utenti in ogni azione digitale, ma anche per agevolare le relazioni – simulando quelle che avvengono nella dimensione analogica – come suggerisce Laura Gemini (2015:107)
«il modo di vedere attraverso i SNS assume una valenza performativa, e cioè un modo per fare esperienza delle immagini attraverso il corpo dove quest’ultimo è inteso come il dispositivo biocognitivo della dimensione relazionale che le piattaforme del web sociale sostengono».
Vi è qualcosa d’altro:
«l’avvolgimento del visibile sul corpo del vedente, del tangibile sul corpo del toccante, che è attestato specialmente quando il corpo si vede e si tocca nell’atto di vedere e toccare le cose» (Merlau-Ponty 1969: 172).
È in questo che è possibile ravvisare ciò che Antonio Damasio (2003) denuncia come Descartes’ Error. Non cogito ergo sum, ma sentio ergo sum. La porta di accesso al mondo e alla sua conoscenza per la mente è il corpo e l’essere corporeo è nel mondo, è del mondo. In uno sforzo di astrazione continua dalla materialità del corpo – che pure è al centro delle rappresentazioni virtuali – è usato il senso che più di tutti pone distanza e allontana: la vista.
L’uomo tenta di uscire dalla dialettica con la natura astraendo ed estraendosi perché è la dimensione materiale, corporea, naturale che lo porta alla morte. E il meccanismo di astrazione procede verso un progressivo distacco dalla materialità. In una società dematerializzata, deterritorializzata
«ogni tratto libero di viseità fa rizoma […] non una collezione di oggetti parziali, ma un blocco vivente, una connessione di steli dove i tratti di un viso entrano in una molteplicità reale, in un diagramma, con un tratto di paesaggio sconosciuto [...] seguendo quanta di deterritorializzazione positiva assoluta, e non più evocati o ricordati secondo sistemi di riterritorializzazione» (Deleuze-Guattari 2006: 289).
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
Note
1 Per una sintesi delle tesi della cultura come universo della comunicazione cfr. Buttitta 1979, 1995, 1996.
2 http://www.photovoice.org/
3 Si pensi alla ormai tipica ’smorfia a boccuccia’ delle ragazze e giovani adulte.
Riferimenti bibliografici
Barthes, R. 1966., Elementi di semiologia, trad. it., Torino, Einaudi
Bateson, G. 2004, Mente e Natura, trad. it., Milano, Adelphi.
Boccia Artieri, G. (ed) 2015, Gli effetti sociali del web. Forme della comunicazione e metodologie della ricerca sociale, Milano, FrancoAngeli.
Buttitta, A. 1979, Semiotica e antropologia, Palermo, Sellerio.
Buttitta, A. 1995, L’effimero sfavillio, Palermo, Flaccovio.
Buttitta, A. 1996, Dei segni e dei miti. Un’introduzione all’antropologia simbolica, Palermo, Sellerio.
Changeaux, J.-P. (ed) 2007, Geni e cultura. Involucro genetico e variabilità culturale, trad. it. a cura di G. D’Agostino, Palermo, Sellerio.
Damasio A.R. 2003, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, trad. it. , Milano, Adelphi.
Damasio A.R. 2005, Emozione e coscienza, trad. it., Milano, Adelphi.
Deleuze, G.-Guattari, F. 2006, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it., Roma, Castelvecchi.
Durand, G. 1972, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, trad. it., Bari, Dedalo.
Edelman, G. 1993, Sulla materia della mente, trad. it., Milano, Adelphi.
Gemini, L. 2015, Gli effetti sociali del web. Forme della comunicazione e metodologie della ricerca sociale, trad. it., Milano, FrancoAngeli.
Merleau-Ponty, M., 1969, Il visibile e l’invisibile, trad. it., Milano, Bompiani.
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Rita Iocolano, dottoranda in Storia: culture e strutture delle aree di frontiera presso l’Università di Udine, si occupa di etnografia virtuale dei processi identitari, delle relazioni interetniche e delle dinamiche culturali, anche in riferimento ai fenomeni migratori. Laureata in Antropologia culturale presso l’Università di Palermo, ha proseguito gli studi a Padova dove ha conseguito il master di II livello in Didattica dell’Italiano come L2. È stata assistente Comenius come insegnante di italiano e membro del team di intercultura del Sint-Bernardus College di Oudenaarde.
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