La lingua dell’Ora erano anche le sue inchieste, fu il primo giornale in Sicilia a istituzionalizzare l’inchiesta. Nei quasi trentotto anni, da quando alla fine del 1954 era cominciata l’èra Nisticò – chiamiamoli così quegli anni fino al 1975 – fino al melanconico 9 maggio del 1992, ne avrebbe pubblicate 331. Senza contare altre iniziative come i Rapporti; i Paginoni; i Dossier; i Viaggi nel…: classici del genere i reportage in Germania, Svizzera, Milano alla ricerca dei siciliani emigrati e perduti. E Campagne, cioè approfondimenti di casi di cronaca assiduamente seguiti per più giorni: che inchieste se non di nome certamente lo erano di fatto. Basti pensare alla frana di Agrigento, al terremoto del Belice, al rapimento e scomparsa nel nulla di Mauro De Mauro, all’assassinio di Giovanni Spampinato, ai vari e numerosi esempi di malgoverno e di sfascio.
Cominciò subito nel 1955 – Nisticò era direttore solo da qualche settimana. A gennaio del 1955: «Come viviamo noi fra le 25mila e le 59mila lire al mese», segnale preciso di quali lettori cercava di assicurarsi, l’indefinibile ma reale fetta di siciliani costretta a misurare la cintola con salari da lire 337 a 752 (circa) mensili. Ma quell’anno finì con un’inchiesta inaspettata per un giornale “comunista”: «La Sicilia vive anche nella storia delle sue aziende», tre puntate di uno degli scrittori più bravi del giornale, Mario Farinella.
A ottobre, ben dieci puntate sulla squadra di calcio: «Il romanzo del Palermo», dello scrittore Romualdo Romano, che cinque anni prima aveva vinto il primo Premio Hemingway con Scirocco, libro e autore ingiustamente dimenticati.
E anche queste, si capisce, volevano essere, ed erano, una chiara dichiarazione d’intenti. Si fecero inchieste su tutto: i prezzi; il commercio e i commercianti; gli artigiani; i giovani; le ragazze; la pillola anticoncezionale; il sacco edilizio e il risanamento mancato di Palermo (insomma, «La Palermo che cambia» come ne fu titolata una che nel 1973 durò diciassette puntate, curata da cinque giornalisti); la tredicesima; i complessi beat; gli ospedali e la Sanità; il manicomio; gli assessorati comunali e regionali; le esattorie del vecchio Campria e dei giovani e mafiosi (ma tali allora non si poteva definirli) cugini Salvo; a più riprese l’Ucciardone; altre tre o quattro sulla squadra di calcio; la giustizia; l’aeroporto di Punta Raisi prima e dopo il disastro; le donne borghesi insoddisfatte; la pornografia; il comune senso del pudore; il mare negato e la rapina delle coste; il traffico, naturalmente; il fumetto Diabolik e i suoi lettori; l’aristocrazia, che in Nisticò stimolava una curiosità vorace; il matrimonio; i mariti.
Inchieste monografiche su tutte le città capoluogo della Sicilia; «Sugli splendori e [naturalmente], sulle miserie delle nostre città di mare».
Per tutto il periodo del referendum sul divorzio fu inventata una pagina quotidiana: il divorzio è cosa bella e giusta, la pagina era piena di matrimoni sfortunati, di cattolicissime signore paladine dell’infrazione canonica di precedenti storici e legislativi, si riusciva perfino a pubblicare articoli di Giampiero Mughini con la sua lingua impenetrabile; l’aborto; il clero siciliano. Ce ne furono su quella che oggi si chiama «fuga di cervelli» e allora semplicemente erano «i migliori che se ne vanno»; sulle «piccole ambasciate di Palermo», raccontate almeno due volte.
Ci furono inchieste periodiche sempre con lo stesso soggetto: per esempio le varie fasi attraversate nell’isola dal neofascismo e dai gruppi e movimenti di estrema destra, delle loro ramificazioni col terrorismo nero nazionale che avrebbero portato all’assassinio del nostro Giovanni Spampinato che su essi aveva coraggiosamente indagato e scritto.
Sulla Democrazia Cristiana ci fu inchiesta-continua. Certo il giornale doveva fare il suo mestiere di voce alternativa, di opposizione, ma forse furono un po’ troppe, ne ho contate diciassette in vent’anni, e qualcuna è sfuggita. Una è rimasta un fantasma: il cronista al quale era stata affidata confessò al direttore, sbigottito irridente e deluso, di non aver saputo nemmeno da dove cominciare: s’era preso un mese distaccato dalla quotidianità della cronaca (allora le inchieste si facevano così) a leggere e studiare le inchieste precedenti, documenti, libri e tesi di laurea e s’era infine convinto di capirne meno prima, cioè quasi nulla. Poco dopo quel redattore fu nominato capocronista, per chissà quali alchimie redazionali.
E naturalmente la mafia. Si può dire che quella parola sia stata reinventata giornalisticamente sull’Ora: sui giornali siciliani – ma non solo siciliani – non era stata più scritta dai tempi del prefetto Mori, quando portava ancora la doppia effe. Nel secondo volume di Accadeva in Sicilia – Gli anni ruggenti dell’Ora di Palermo di Vittorio Nisticò (Sellerio, 2001), ci sono ventisette pagine che elencano i titoli delle inchieste, dei reportage, delle “Tavole rotonde” sul tema mafia, e sono soltanto registrati quelli ritenuti più significativi. Si cominciò subito, a metà del 1955: con l’assassinio a Sciara del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, il 16 maggio: quattro giorni dopo, uscì una pagina intera su «L’agghiacciante catena dei delitti impuniti in Sicilia». Era l’analisi di tanti omicidi di mafia, ma stranamente della parola non c’è traccia nell’accurata ricostruzione dei fatti. Parola che invece straripò dalle pagine molto presto e, dopo alcune inchieste chiamiamo minori, culminò nelle ventuno puntate della prima grande inchiesta sulla mafia mai pubblicata da un giornale italiano.
La pubblicazione cominciò il 15 ottobre, era mercoledì; nella notte fra il sabato e la domenica un boato fece tintinnare sinistramente il palazzetto di vetro dell’Ora. Un pacco con cinque chili di tritolo era esploso sul tetto della tipografia. Di domenica il giornale non usciva, il lunedì titolò «La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua». Continuò fino a dicembre, con altre diciotto puntate dopo le prime quattro. È rimasta nelle storia la frase dell’allora presidente della Repubblica Saragat: «Ci voleva l’attentato all’Ora per scoprire che in Sicilia c’è la mafia».
Nel 1973, un giovanissimo redattore appena laureato dalla prestigiosa, allora, facoltà di Sociologia di Trento, scrisse la prima inchiesta sui migranti, «Paesano Mustafà». E continuò con «Solitudine nera». Con lui il concetto di inchiesta subì una declinazione positiva con l’uso scientifico dei paradigmi sociologici. Si infittirono, a cavallo degli anni ‘70, le inchieste di approfondimento psicologico, ne era quasi sempre autrice una redattrice, stabile “volontaria”, laureata in medicina e specializzata in psicologia, che non aveva vinto la timidezza che le impediva di esercitare sul campo le sue competenze.
La prima èra Nisticò si concluse nel 1975, andò a con-dirigere con Arrigo Benedetti, uno dei padri nobili del giornalismo italiano, il quotidiano romano Paese Sera, fratello più giovane d’età dell’Ora ma più grande come peso specifico.
Noi dell’Ora non capimmo mai la strategia della “Proprietà”, cioè il Partito Comunista Italiano, sul destino dei suoi giornali. A Roma si era deciso che l’Ora avrebbe avuto l’edizione del mattino: sarebbe diventato un giornale a edizione continua, mattina e pomeriggio. A dirla così poteva sembrare una prospettiva esaltante: ma con quanti giornalisti, con quali e quanti soldi? Dal disastro che ne seguì di lì a poco – l’edizione del mattino esordì il 12 maggio del 1976 e a ottobre era già naufragata – si intuì solo che c’era stata molta approssimazione e poca professionalità manageriale.
Cominciò la serie dei direttori “fatti fugacemente”, per citare l’espressione del consigliere di corte d’appello Schreber, il più famoso «Malato di nervi» della letteratura psicoanalitica mondiale. Tutti esimi professionisti, ma all’Ora stava cambiando qualcosa; e non ci riferiamo al formato che l’anno dopo sarebbe stato dimezzato “a tabloid”.
Un giorno, inaspettata e fino a allora interdetta, una parola apparve in un titoletto a due colonne in corpo 30 (non piccolo per una notizia su due colonne). La parola «vecchietto». Era il 3 Marzo, giorno delle Ceneri. Nessuno, credo, può capire: ma invece è semplice. Quel 3 marzo segnò la fine dell’esprit de rèdaction che aveva spirato, ispirato e talvolta anche nevrotizzato i giornalisti di quello strambo e affascinante piccolo grande quotidiano. Perché Vecchietto era stata una delle parole che era assolutamente vietato scrivere, neppure pensare, di un codice lessicale mai scritto – anche se spesso si parlava di “legalizzarlo” su un calepino, come si chiamava l’album che indicava gli stili e i corpi dei caratteri.
Quindi, vecchietto: siccome tutti i titoli di tutte le quattro o cinque pagine di cronaca li facevo io, e il titolo era apparso di mercoledì e il mio giorno di settimana corta era da sempre il lunedì, devo ammettere che la parola esecrata l’abbia usata io o, comunque, l’abbia lasciata passare consapevolmente. Perché? Certamente allora lo seppi, oggi non lo so più: ma certamente aveva voluto essere un segnale, una specie di punto e a capo. Ma fu l’unica volta: fino a quando rimasi a L’Ora non l’usai più, né consentii che qualcun altro lo facesse.
Anche altre parole e frasi fatte non potevano esserci mai, in quelle pagine: malvivente, delinquente, insano gesto, poteva essere una strage, un/a giovane ragazzo/a di venticinque anni – A L’Ora un ragazzo/a era un adolescente che non avesse superato i sedici/ diciassette anni; giovane se non avesse superato i venticinque, da quell’anagrafe in poi si era semplicemente uomini e donne, giovani, maturi, anziani, insomma come va la vita. Mai si sarebbe potuto leggere giovane ragazzo/di trentanni, come ogni giorno accade di leggere e ascoltare oggi sui giornale e alla TV. Mal tollerata era perfino la parola ladro, fino a quando non la sdoganò Salvo Licata con la sua bellissima inchiesta «I miei amici ladri». Era guardato con fastidio chi si lasciasse scappare sbirri o l’aulico birri: pregiudizio un po’ volgare, verissimo; ma ce n’era molto anche dall’altra parte, quelli de L’Ora non erano sempre ben visti negli uffici del potere. C’era un potente vicequestore vicario che non li riceveva neppure, lui con i comunisti non parlava. Palermo dovette sorbirselo a lungo, diventò capo dei servizi segreti e prefetto della città dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa.
Ciò non impedì tuttavia che fra cronisti, poliziotti e carabinieri ci fossero molti solidi rapporti di collaborazione e stima reciproche. E non accadde mai che un nostro lettore potesse leggere che un poliziotto aveva scotennato un ladruncolo «colpendolo volutamente di striscio», come si lesse su un altro quotidiano palermitano.
Finì l’èra Nisticò ma non per questo automaticamente scemarono le inchieste, anzi si misero in cerca di nuovi obiettivi, di argomenti fin lì trascurati. Ed ecco l’intervista a più puntate del cronista sociologo con il suo professore di Trento Francesco Veronesi, star della sociologia di quei tempi: cinque pagine sulla donna, l’Università, i giovani. Un altro cronista s’incuriosì di «Palermo a ruota libera» e un altro andò a tirar fuori dall’oblìo gli inventori palermitani. Un terzo si addentrò nei meandri venefici dei fumatori di tabacco, ancora in straripante maggioranza nella società siciliana.
Finché Dante Angelini, uno dei cronisti con più verve – ed espertissimo sugli scenari e i retroscena dalla politica comunale – scrisse una pagina su come «Vivere da pedone» a Palermo. Una fiction divertente, tanto che lui e il capocronista pro tempore ne pensarono un’altra: come attraversare d’estate a piedi la città camminando sempre all’ombra. Rimase allo stato di progetto, pochi portici, pochi alberi, non bastavano i cornicioni e gli schermi dei balconi.
Già si parlava della chiusura del centro storico di Palermo e ci fu puntuale l’inchiesta; come ce ne furono sul femminismo; sul vigneto; sull’agricoltura; si andò «In viaggio fra le gente qualsiasi». Lo scrittore Sebastiano Addamo raccontò «Paese che vai cultura che trovi» e Michele Perriera prese a lavorare con impegno, estrema concentrazione cristallina sintesi alle sue interviste memorabili e incalzanti: un paio di esempi, «Al prete del Belice [monsignor Riboldi]», «A una casalinga». Sull’estate in città; «L’industria delle vacanze; la Villa a mare; reportage di vari redattori inviati nelle città dell’Isola con il titolo generale di «Inchiesta in Sicilia». Né venivano trascurati i temi di fondo: la sanità; la scuola; il ceto medio impiegatizio; le carceri; la droga; i problemi del lavoro.
Ma cominciavano a incalzare i trucidi anni della grande mattanza. La Cronaca Nera ogni giorno scriveva la sua puntata sanguinante senza soluzioni di continuità e sul giornale, il 4 gennaio del 1977, fu pubblicato un reportage sullo scandalo che si prefigurava attorno alla costruzione della diga Garcia e sulle manovre sulla mafia, anche se ancora non si sapeva che il grande manovratore ne fosse Totò Reina. Il giornale ci tornò dieci giorni dopo. Intanto c’era stato il sequestro, che sembrò inaudito, dell’intoccabile esattore Corleo, suocero di Nino Salvo, che con il socio cugino Ignazio gestiva le esattorie della Sicilia e di molte città italiane. Su un altro sequestro clamoroso, quello di Luciano Cassina figlio di un altrettanto incoccabile tycoon siciliano (anche se era comasco), fu scritta un’altra grande inchiesta tutta ricavata dall’approfondito studio degli atti giudiziari. Il lavoro d’inchiesta si scrisse ogni giorno col sangue, fino al triste e melanconico maggio del 1992 quando L’Ora sparì dalle edicole.
In tutto, nei diciassette anni degli otto direttori «fatti fugacemente», furono più di settanta le inchieste pubblicate. Niente male per un giornale che ogni mese s’era impoverito, solo numericamente però, di giornalisti e soprattutto di soldi. L’ultima fu il 16 marzo del 1992, sulla malasanità e la scrisse Marina Pino, una bravissima cronista che da qualche anno era andata a concludere la sua carriera a L’Ora, dopo decenni al Giornale di Sicilia.
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
[*] Si pubblica in anteprima il contributo di Mario Genco al libro L’Ora, edizione straordinaria, edito dalla Biblioteca Regionale, in corso di stampa.
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Mario Genco, giornalista a Palermo (L’Ora, Giornale di Sicilia), ha scritto Post Scriptum (1990); Il Delegato (1991); Il caso Alfano (1998); Repulisti Ebraico (2000); Trattato generale dei pesci e dei cristiani (2003); Storia del gas a Palermo (2000); I Pirandello del mare (2011); Gente di mare (2016,2017, 2018).
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