La nostra epoca è abitata da uomini privi del loro inconscio. Mutilati della loro interiorità. Trasformati in automi: in macchine di godimento, sottoposte ad un processo di reificazione coatta. Al rapporto dinamico e tensivo tra i saperi – su cui l’Occidente è venuto via via delineandosi, fino a tutto il Novecento - è subentrata una fase storica povera di avvenimenti, in cui l’individuo è stato deprivato della propria soggettività, ritrovandosi annientato.
Con la sua attività fotografica, Luca Valenti – artista siciliano che, da circa un decennio, vive e lavora a Milano – ci invita a intraprendere insieme a lui un particolare e, sotto certi aspetti, complesso itinerarium mentis all’interno della eteromorfa architettura egologica dell’uomo contemporaneo. I suoi lavori, frutto di una inarrestabile verve nomadica che lo ha reso incline a visitare i più disparati paesaggi dell’anima, sono attraversati – parafrasando un’efficace espressione di Umberto Galimberti – da un ancestrale bisogno di recuperare l’irrazionale che abita la profondità dell’anima, facendoci accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione che la follia.
La matrice costitutiva del suo percorso creativo si fonda sull’impalpabile dicotomia presenza/assenza che riconduce all’idea di “perdita”: una perdita delle proprie radici, ossia, venendo meno ogni punto di riferimento, della capacità di sentirsi parte della società in cui si vive. Il richiamo al concetto heideggeriano di Heimatlosigkeit – della perdita della terra e della patria, propria dell’uomo – qui prende forma in tutta la sua drammatica forza. Ed è, in un certo senso, la condizione propria dell’uomo senza ambiente, che Franco La Cecla ha analizzato alcuni anni fa, rilevando «in Occidente una concezione della conoscenza, e quindi dell’abitare, non più locale bensì oggettiva, cioè non centrata, che nega i molteplici centri del mondo, valida in qualsiasi luogo, a qualsiasi latitudine. Il differente, il diverso, il particolare è stato soppresso a favore dell’uguale, dell’omogeneo, del generale».
Quello della totale “perdita del centro” che caratterizza la crisi del mondo contemporaneo è un fenomeno cui Luca Valenti, con il suo lavoro, non vuole o, forse, non sa opporsi, cercando, anzi, di esplorarne i registri profondi attraverso una vera e propria sospensione di giudizio. Questo gli è possibile, anche, grazie alla ricchezza degli strumenti su cui si è organizzato nel tempo il suo linguaggio fotografico: un linguaggio che sa essere diretto e profondamente antiretorico, ma soprattutto poetico. E di una poeticità che apre uno spiraglio sulla speranza.
Sovviene, a tale proposito, il celebre dialogo tra Marco Polo e Kublai Kan che chiude Le città invisibili di Italo Calvino. Qui Marco Polo – l’archetipo letterario del viaggiatore – interrogato dall’imperatore cinese, tocca il tema della durezza della condizione umana affermando che «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
C’è un ulteriore filone creativo che Luca Valenti ha coltivato, ancora mediante la fotografia, negli anni. È quello in cui il tema dell’identità – richiamando, ad esempio, i lavori fotografici di una Laurence Demaison o la pittura di un Francis Bacon – viene sviscerato in tutta la sua radicalità, giungendo al limite della rappresentazione iconica. Le immagini che, in questo caso, ci vengono proposte non intendono sempre informarci su qualcosa. Sono mute, immobili, estranee a qualsiasi logotetica. Potremmo, in un certo senso, ricondurle ad una dialettica della rappresentazione in cui, esacerbando il concetto di forma, il movimento del corpo e il movimento dell’anima vengono a coincidere in un unicum figurativo che solo all’artista è concesso immergere nel discontinuum della coscienza, attingendovi nuovi significati.
Questo invigilare le nostre contraddizioni, cercando un improbabile non-luogo in cui le ossessioni trovano asilo, questa disperata riflessione sulla “medialità” in cui lo scatto fotografico, in alcuni casi sapientemente “deteriorato”, in fase di post-produzione, viene a riconfigurarsi come un “oggetto teorico” che si mette in scena, questa volontà radicale di ricercare nel deforme nuove motivazioni religiose, mitiche, magiche, o, meglio, quei valori assoluti e ancestrali che riguardano l’uomo nella sua integrità; tutto questo, per Luca Valenti, ha un senso solo se facilita – con timore e tremore – la riflessione sulla “crisi della viseità” (il processo di scomposizione del viso, vera e propria “macchina di senso”) che imperversa nell’età post-moderna.
Ecco, quindi, anche un esplicito riferimento all’Art brut, ovvero a quella forma d’arte dove «è proprio la modificazione e l’alterazione dei normali nessi, psico-sociologici, e la presenza di evidenti stigmate patologiche o degenerative (iterazioni, perseverazioni, stereotipie, manierismi, scissioni della personalità, stati oniroidi, deliranti, allucinatori, ecc.) a costituire motivo di interesse» (Gillo Dorfles). Quello del brutto – ci spiega Remo Bodei, richiamando la fondamentale Teoria estetica di Adorno – è un capovolgimento della gerarchia estetica tradizionale, una trasformazione che ci permette di sfuggire alla tirannia del bello “consentito”, aproblematico e senza traumi, che è, in effetti, il vero brutto, il falso, l’immorale. Il brutto, così, si converte «nell’autentico bello, nel luogo insituabile che custodisce – assieme alla protesta indiretta per la disumanità dei rapporti sociali tuttora vigenti – le intermittenti intuizioni del “sogno di una cosa”, dell’attesa messianica di una futura redenzione degli individui».
Luca Valenti, in un certo senso, sta percorrendo proprio questa strada, tentando di insegnarci da par suo che anche il mostruoso, nell’arte, sa darci il segno di una radicale presenza divina, in quanto nella trasgressione per immagini, nel volontario esercizio di allontanamento da un’armonia visiva, nel suo descensus ad inferos, l’uomo – facendo eco al Minotauro di Dürrenmatt – può ritrovare sé stesso e vedere intimamente ciò che precede ogni comprensione verbale. Ritornare bambino. Stupirsi.