di Lella Di Marco
La ripresa puntuale ed ossessiva su disposizioni di legge e pseudo dibattiti su hijab, niqab, burqa, chador, etc con relative reazioni del mondo musulmano e non, a questo punto non può non provocare sensazioni di morte con richiami alla memoria di film o versi famosi come La morte di fa bella o Verrà la morte e avrà i tuoi occhi che potrebbero essere parafrasati in Il velo ti fa bella o Verrà la morte e avrà il tuo velo: espressioni comunque decadenti per indicare la morte o meglio l’agonia di un pensiero forte, di giudizi meditati per capire a fondo la fenomenologia dei comportamenti delle donne musulmane immigrate, siano essi spontanei o reattivi.
Hijad, parola che in arabo significa letteralmente “tenda” o “copertura”, è vocabolo andato a definire in senso lato il velo della donna musulmana e l’abbigliamento di donna muhijaba (donna coperta), nel senso di persona pudica, riservata, modesta, così da riuscire a difendersi dal desiderio sessuale incontrollabile del maschio. Ma la parola ha anche un altro significato metafisico, sta ad indicare una barriera che separa gli esseri umani-il mondo da Dio. La parola e la cosa sono da collocarsi nella geo/storia dei popoli musulmani, e per decifrarne i significati vanno dunque contestualizzate e liberate da stereotipi e torsioni interpretative che associano meccanicamente al velo imposizioni, divieti, interdizioni e violenze.
Quello del velo è, in verità, un falso problema. Di fatto non crea contraddizioni nei processi di convivenza nelle migrazioni . Come non l’hanno mai creato i kippah degli ebrei e i copricapo delle religiose non musulmane o lo stesso fez usato dagli uomini.
Dove sono finiti i principi di etnoantropologia che indicavano caldamente di non intervenire nei problemi degli altri popoli, sostenendo che i processi di autodeterminazione devono essere autonomi e che ogni popolo trova la sua strada non assimilandosi ad altri popoli? .
È ovvio che nelle diverse fasi della vita si assiste a processi di trasformazione, a dinamiche identitarie complesse e mobili, nel bisogno continuo di autoaffermazione tra fedeltà e riconoscimento, affrancamento e dipendenze, strappi e riconciliazioni. Tutto ciò va capito e non demonizzato, va ricondotto alle ragioni sociali e alle intenzioni culturali degli altri, per non cadere nella trappola voluta da chi crea ad arte “il problema-velo” allo scopo di accreditare la costruzione logica sequenziale che all’immagine delle donne musulmane connette il ruolo di sottomissione, l’assenza di libertà, l’arcaica condizione di sequestrata dalla tradizione patriarcale. Da parte mia preferisco riferire soltanto quanto riguarda la mia esperienza, negli anni, con donne musulmane che mi ha accostato con rispetto al loro mondo.
Va in primo luogo osservato che nei loro Paesi di provenienza donne e giovani donne hanno un atteggiamento più determinato, più sicuro, più libero. Soprattutto nelle grandi città, in Tunisia come in Marocco, ho visto donne adulte e giovani senza velo, affrontare con disinvoltura la relazione con gli uomini, con discrezione ma senza problemi. Con l’abbigliamento classico ma anche con abiti più moderni. Naturalmente padrone del loro territorio, esibivano un atteggiamento e un portamento sicuro e indipendente .
Nel tempo a Bologna la fenomenologia dei loro atteggiamenti è cambiata. Chi quindici anni fa era arrivata in Italia senza velo in un processo di autodifesa e di autoaffermazione l’ha recuperato. Come simbolo ma anche come “difesa”, come testimonianza identitaria ma anche come barriera per mantenere le distanze, per darsi e dare dei limiti. È cambiato anche l’atteggiamento mentale e comportamentale in molte di loro, sia nei confronti della comunità e del ruolo di musulmana nel contesto e nel progetto migratorio sia nei rapporti con i figli.
Infatti, in quindici-vent’anni di perma- nenza in Italia, il problema più grande è diventata la funzione genitoriale, la posizione dei figli schiacciati fra due culture, la forza pervasiva dei messaggi ideologici e consumistici, la seduzione del facile guadagno e del divertimento “sfrenato”, il non riuscire – in moltissimi casi – a guidare i figli in un processo equilibrato e maturo di costruzione identitaria e di prospettive. Cosa – drammaticamente – di non poco conto, in grado di determinare gravi lacerazioni familiari, problemi sociali, tragedie che hanno fatto cronaca.
Le contraddizioni sono in tutta evidenza notevoli e con i figli e le figlie adolescenti stanno esplodendo in modo tremendamente violento. Quindicenni che si rifiutano di indossare il velo stanno aprendo quella che qualcuno incautamente ma con ottimismo chiama “Nuova primavera araba”. In realtà il primo caso è partito da Bologna in maniera quasi teatrale e provocatoria. La figlia si rifiutava di andare a scuola con il velo perché si sentiva “diversa” e voleva vivere come i compagni, le pari a lei per età e per percorso scolastico. La madre le ha raso i capelli e l’ha mandata a scuola “spogliandola” della sua identità. Pianti della quindicenne di provenienza del Bangladesch, racconti di umiliazioni e repressioni familiari, intervento degli insegnanti, dell’assistente sociale, del tribunale dei minori che allontana l’adolescente dai genitori e l’affida ad una comunità per minori. Dopo pochi giorni la cronaca registra altri casi: notizie di allontanamento di una fanciulla marocchina residente a Pavia, poi a Napoli, si apprende delle torture dei familiari al giovane gay marocchino, fino al caso del giovane cingalese a Bassano del Grappa, quindici anni, innamorato di una coetanea italiana, che si è suicidato perché non riusciva più a contrastare i suoi genitori che gli impedivano di frequentare una ragazza così “diversa”.
Su quanto accaduto, casi non nuovi in verità ma non così numerosi e violenti come nella fase attuale, c’è sgomento, sono in atto tentativi di riflessione da parte delle istituzioni locali ma anche degli stessi rappresentanti delle comunità musulmane. Anche nelle moschee si aprono discussioni e corsi di prevenzione educativa diretti ai genitori. I giovani musulmani d’Italia, nel rivendicare una loro identità di soggetti nati e cresciuti in Italia con l’intenzione di progettare il loro futuro nel nostro Paese, ci tengono a sottolineare che i sistemi educativi coercitivi e autoritari non appartengono all’Islam – in sé religione che rifiuta l’uso della violenza –, che essere religiosi per costrizione non funziona e non è giusto, che il problema riguarda alcune famiglie, e che con la pratica della moschea aperta a tutti, uomini e donne, sotto la guida dell’imam sono disposti ad attivare incontri, colloqui, dibattiti, pratiche genitoriali per affrontare e gestire, senza danni, il contatto e il dialogo con la cultura occidentale .
I nativi sensibili al problema sostengono la necessità dell’apprendimento della Costituzione democratica italiana, dell’applicazione dell’articolo 8 del dettato costituzionale e del protocollo d’intesa tra Stato italiano e comunità straniere con l’impegno ad osservare le leggi vigenti in merito ai processi educativi e la tutela dei minori. In questi anni le scuole hanno lavorato, le comunità musulmane no. Né autonomamente né stimolate dalle istituzioni locali.
Un certo dibattito però sta emergendo soprattutto fra le giovani donne musulmane in Italia: più acculturate rispetto ai loro genitori, più disponibili alla ricerca e riflessione teorica, loro sanno che il loro futuro si giocherà in Occidente e che più che troncare con la cultura di provenienza dei genitori, dovranno essere loro a fare da mediatrici linguistiche e culturali fra le due culture.
Sotto il velo senza “svestire” l’identità
Sorridiamo con Takqua Ben Mohamed, giovane nata in Tunisia, cresciuta a Roma dove ha studiato giornalismo e ora residente a Firenze per studiare arte, attenta ai fenomeni socio inter-culturali, con occhio satirico e penna da fumetto, ci aiuta a prendere coscienza dei paradossi, come combattere i pregiudizi e come guadagnare indipendenza e autorevolezza.
Credo che anche a lei capiti a scuola, per le strade, nei negozi, quello che capita a tutte le ragazze con il velo: sguardi di particolare attenzione e curiosità, frasi del tipo “Ma lo porti sempre? Li hai i capelli? Ma non hai caldo, riesci a respirare? Ma perché quello straccio in testa? Non siamo più nel Medioevo? Porti il velo perché non ti lavi i capelli, sei pelata? Il colore del velo è importante? Ti fai la doccia con il velo? Quando vai al mare cosa fai? Se ti togli il velo tuo padre che ti fa?
Drammi al colloquio di lavoro, dove le super competenze e la disponibilità a turni di lavoro disumani non hanno valore rispetto ad una bella presenza senza velo. O sguardi sospetti puntualmente dopo ogni attentato terroristico. O perplessità quando lo spillino che tiene il velo fa impazzire il metal detector e i controllori guardano con occhi minacciosi. Ma la nostra fumettista è disarmante, risponde a tutti in maniera ironica, divertita e in tanta banalità e luoghi comuni trova la strada per una risposta politica: «La donna – sostiene – è una guerriera dei diritti, della libertà e dell’uguaglianza di tutte le donne del mondo contro ogni forma di violenza. Deve essere combattiva per non essere calpestata, cosciente per non subire ingiustizie, individuare i punti in comune per costruire un dialogo».
L’incontro a Bologna con la fumettista tunisina, organizzato dalle giovani musulmane d’Italia, è stato motivato non solo dall’orgoglio di presentare una di loro, una giovane di successo della cosiddetta seconda generazione, riconosciuta come artista e intellettuale rinomata da comunità italiane e tunisine, ampiamente premiata e apprezzata. Ma muoveva anche dal bisogno di parlare e di approfondire in pubblico dei problemi dei figli nati e cresciuti in Italia, magari anche maggiorenni con nazionalità e passaporto italiani.
Oltre il velo, emergono problemi di crescita e adattamento diversi tra maschi e femmine. Non sempre positivi. Le ragazze appaiono avvantaggiate, in possesso di più strumenti culturali di autodifesa e di autoaffermazione. Sono state più vicine alle loro madri e alle loro nonne, zie, sorelle maggiori, dalle quali hanno appreso gli insegnamenti fondamentali per affrontare la vita ed elaborare la resilienza necessaria per contrastare le situazioni di maggiori difficoltà. Hanno studiato arrivando a conseguire il diploma della scuola superiore e alcune frequentano l’università. Sono critiche nei confronti del matrimoni, pur accettando il valore della unità della famiglia. Molte sono cresciute, assistendo alla disgregazione familiare, a seguito dell’assenza del padre che o è tornato nel paese di provenienza o ha chiesto la separazione per motivi diversi, trascurando poi i figli. Così molte ragazze, attraverso una loro individuale emancipazione, hanno voluto riscattare la madre dai sacrifici e dalle sofferenze che è stata costretta a subire.
Altra è stata la reazione, in situazioni analoghe, da parte dei figli maschi. Penso sia utile per una maggiore comprensione del fenomeno riportare frammenti di una conversazione realizzata con un giovane di origine marocchina nato e cresciuto in Italia: diciannove anni, cittadino italiano, Baschir:
«Mi sento solo, diverso, emarginato, indicato come “il marocchino” in Italia e “l’italiano” se vado in Marocco . A Casablanca, i quartieri sono determinati dalle realtà sociali, dal reddito. Quello che si guadagna distingue le famiglie. Mio padre proviene da Casablanca 4 – il quartiere ghetto – il più povero, una etichetta che rimane addosso. Così anche a Bologna i miei hanno amici che provengono da Casablanca 4. Io non dico che sono cattive persone. Per me è soltanto un’etichetta che mi porto dietro ancora oggi in una realtà sociale che non ha voluto o saputo accogliere.
Sono maggiorenne da poco e quindi soltanto da poco riconosciuto cittadino italiano, ma in quanto maggiorenne adesso ho meno opportunità. La scuola per me è stato un insuccesso, ho tentato almeno tre indirizzi scolastici. Oggi mi trovo senza lavoro, senza una formazione scolastico-professionale e una identità che non so come definire. L’ultimo corso di formazione per giovani che ho seguito mi è piaciuto molto. È stato un percorso di musica Rap e proprio in quelle musiche e in quelle parole mi ritrovo. Forse questa è la mia strada che dovrò ancora perfezionare, ma non credo potrò rimanere in Italia.
Io mi sento ferito da mio padre che mi ha privato dell’orgoglio di sentirmi un vero maschio-musulmano. E ho sofferto nel vedere lavorare mia madre di notte e di giorno per mantenere la famiglia. Sono cresciuto solo per la strada perché in casa non c’era mai nessuno e spesso mi sono trovato a fare da padre ai miei due fratelli più piccoli. Il mio sogno è guadagnare dei soldi “puliti” per poter regalare un viaggio alla Mecca a mia madre».
Sono amica della mamma di Bashir, in Italia da 25 anni e conosco anche il padre assente come genitore e mai integrato al punto che si rifiuta di imparare l’italiano. A Bologna ha ricreato la sua appartenenza rifiutando di capire il contesto socio-culturale. Parla, in arabo soltanto, con amici arabi. Incostante nel lavoro e nelle relazioni e anche nel suo ruolo all’interno della famiglia. Ho visto crescere Bashir e conosco bene le difficoltà e la sua «fatica a diventare adolescente…». Ha sensibilità e buoni sentimenti ma, come altri suoi coetanei di analoga appartenenza e comunque adolescenti, vive tra ribellione e sottomissione, bisogno di protagonismo e percezione di non essere accettato e di non farcela: dualismo che procura sofferenza e pericolo di scelte sbagliate. Vive nel suo gruppo di “pari ” con un codice comportamentale autonomo e la forza che gli viene dallo stare insieme a chi parla il tuo stesso linguaggio. Però è un ragazzo che si pone dei problemi. Non so quanto potrà durare il suo attuale stato di apparente tranquillità, intanto che la città – o meglio la periferia – si copre di un’altra “pelle” con scritte fondamentaliste e di radicalizzazione:“W ISIS” o, chiaramente segnale per una ragazza, “se ascolti canzone(i) tua madre e(è) puttana”, un modo per offendere la ragazza cominciando con l’offendere la madre, come in ogni società maschilista. Fa testo “il figlio o figlio di puttana”, classica offesa mady in Italy. Nel frattempo le figlie femmine che si ribellano al velo, ai matrimoni forzati o combinati, alla chiusura in casa o all’essere rispedite dalle nonne o dalle zie nei paesi di provenienza dei loro genitori, per essere protette da contaminazioni culturali, subiscono ogni tipo di violenza, anche fisica, da genitori e fratelli maggiori, i quali hanno perfettamente interiorizzato e vogliono che sia rispettata la inferiorità-subalternità-sottomissione della femmina al Maschio.
“La rage” che incita alla ribellione, solo annunciata e mai realizzata, almeno fino ad ora, richiama la voce di qualche banlieue parigina. Voce che può essere inquietante e che assieme a tante altre, anche dei nativi, che esprimono disagio sociale, andrebbe capita per aggiustare il tiro della politica. Ma i nostri politici sono impermeabili. Del resto, basta una squadra di volontari o “premiati” con lavori socialmente utili per rimuovere le scritte e con loro anche i problemi.
Resta vero che noi non siamo la Francia e che l’Italia, ancora oggi, è impreparata ad affrontare il fenomeno immigrazione, anche se non è più un’emergenza, così che stenta ad agire e di fatto non si preoccupa lasciando che la paura sociale alimenti odio, razzismo ed anti-islamismo fra i cittadini che sempre più manifestano richieste di sicurezza.
Le interviste mancate
Il presente contributo avrebbe dovuto riportare delle interviste dirette, già promesse e programmate, con le giovani musulmane italiane. Più avanti spiegherò perché non si sono realizzate e riporterò i loro pensieri collettivi.
È vero che c’è fermento nel mondo musulmano in seguito al lavoro mediatico, martellante e intenso, di giornali e TV, dopo tutti i casi delle ragazze musulmane che a cominciare da Bologna hanno fatto esplodere il problema del velo e delle imposizioni educative e religiose e delle punizioni corporali in famiglia per la loro disubbidienza. C’è un acceso dibattito tra il movimento delle donne, nel mondo scolastico, fra sociologi e pedagogisti che ritengono grave il fatto che, periodicamente e mai così tanti come in questo periodo, esplodano casi drammatici di disagio familiare fra “le figlie della migrazione”. Non meno grave è il fatto che la questione non sia mai stata affrontata prima a livello istituzionale: in quasi tutte le città, da Napoli a Bassano del Grappa, la risposta è stata la repressione, minacce e allontanamento delle ragazze dalle famiglie. Risposta politica insufficiente, mentre le giovani generazioni di musulmane si limitano a dichiarare che la rabbia e la violenza non appartengono all’Islam e a trincerarsi in un ambiguo silenzio pubblico. Si chiudono a riccio, rifiutando ogni richiesta di interviste, discussione pubblica e incontri, per la paura di essere strumentalizzate, non capite, travisate. Il loro posto pubblico rimane soltanto la moschea, che non è soltanto un luogo di culto.
Il tentativo delle Giovani Musulmane Italiane (GMI) di lavorare per costruirsi collettivamente – con il lavoro comune di studio e riflessione – un’identità di giovani, musulmane, ormai italiane, focalizzato sull’essere loro contestualmente italiane e musulmane è una realtà nuova nel mondo della migrazione. Il loro percorso è all’inizio, forse non c’è piena fiducia ancora nelle politiche di inclusione, nell’uso che i media a volte fanno dell’informazione puntando a creare opinione e sensazionalismo. Sono pronte a ripetere che l’Islam non è violenza e che il malcontento è alimentato dalle ingiustizie subite. Fanno riferimento agli altri Paesi europei, dove l’esperienza dell’immigrazione è più antica, come in Francia: qui i media, da oltre trenta anni, stigmatizzano i musulmani francesi come criminali, e il velo diventa sempre una questione di Stato. Nell’essere i padri rappresentati come violenti, balordi, torturatori, ladri, i loro figli come bruti, le donne sottomesse e ignoranti, i migranti musulmani hanno finito con l’allontanarsi dalla vita sociale e non hanno alcuna fiducia nella politica.
Tutte le famiglia immigrate a Bologna hanno parenti in Belgio, in Francia, soprattutto nei Paesi europei francofoni, e sono in contatto con realtà estere anche attraverso frequenti viaggi oltre che con il web. Anche i giovani informati della colonizzazione nei Paesi di provenienza dei loro genitori definiscono quella esperienza “un crimine” che ha lasciato tracce che, ancora oggi dopo tanti anni, continuano ad avere il loro peso.
Costruzione colonialista dell’immaginario erotico maschile
Mi sembra decisamente insensato ogni tentativo di spiegare i comportamenti delle donne musulmane immigrate in Europa, come il voler politicamente imporre leggi, decreti, norme giuridiche, senza un minimo tentativo di decifrare e capire le origini dei fatti, le trasformazioni comportamentali nel tempo, le imposizioni alle donne dei governi dittatoriali dei loro Paesi di provenienza e le complicità spesso di costoro con i governi occidentali. In ultima analisi, il gioco intorno al velo da parte dei politici di ogni tempo e di ogni paese, e così pure gli svelamenti spettacolari, sottendono la considerazione delle donne sempre come oggetto di confisca, bottino di guerra, assieme alla terra. Sia durante il processo coloniale che nella decolonizzazione successiva.
Del resto su quella pagina di storia che è il colonialismo italiano e comunque europeo in Africa è calato il silenzio, si nasconde la verità per non affrontarne le conseguenze, ma di quello che alimentava il piacere erotico maschile, con le immagini costruite e con l’uso e abuso delle giovani donne indigene molto è rimasto nella cultura del maschio “latino” ed anche nella fantasia delle donne europee.
Se facciamo riferimento alla colonizzazione in Algeria che durò dal 1830 al 1962, notiamo come il tempo sia stato molto lungo e tanto da poter incidere sui cambiamenti nelle abitudini locali. Sono stati gli occidentali ad applicare per primi il loro ordine visuale, che non tollera la dissimulazione, ad un oggetto che sottrae alla vista sia il volto che il corpo delle donne. Giocare in modo ideologicamente pretestuoso a velare/svelare è stato un modo per costruire “con l’inganno” l’idea di quello che gli storiografi, oggi, chiamano menzogna della razza. Mirata oltre che ai princìpi politici ed economici dell’Impero (ex ma ancora di ispirazione romana) al piacere erotico-sessuale sui corpi delle donne.
Il mondo delle “moresche” è stato costruito con grande abilità tecnica e artistica, fantasia, creatività e criminalità, camuffati da ricerca etno/antropologica o meglio da fascinazione esotica. Rappresentazione vera dei gioielli della conquista. Fotografie, cartoline, dipinti apparentemente innocui hanno invaso i Paesi europei, inserendosi nel valore simbolico già codificato. I dipinti dei pittori francesi pittoricamente sono grandiosi, realistici ma non reali. Sono falsi.
Il mondo delle donne arabe era inaccessibile, in quanto relegate negli spazi “privati” e mai visibili nello spazio pubblico. Attraverso segni e colori l’immagine menzognera è stata costruita ad arte come verità svelata. Scene erotiche, ragazzette nude in pose inusuali ma seduttive, mercato di schiave con ricchi e vecchi compratori che “ispezionano” la merce (corpi nudi di donne) prima di comprarla, donne all’hammam nude per l’acqua o per i massaggi, sono soltanto connessioni di luoghi diversi e rappresentazioni di aspirazioni erotiche maschili perverse. Le donne ritratte o dipinte sono prostitute ufficialmente riconosciute, scelte fra le più belle e pagate per mettersi in posa, vendendo a favore del maschio occidentale, senza consapevolezza forse, il loro corpo e la sua immagine statica.
La pittura orientalista ha indubbiamente una grande valenza tecnica e artistica, ricca di particolari, è apprezzata e funzionale, anche perché riesce a suscitare nei maschi che osservano processi di identificazione, per esempio, nei ricchi mercanti che palpeggiano i corpi femminili e ne pre-gustano il piacere erotico. Quei mercanti possono essere facilmente paragonati ai lenoni di oggi, agli sfruttatori della prostituzione femminile.
Louis Bertrand, l’ideologo del colonialismo, ha realizzato viaggi ma ha anche vissuto per molti anni in Algeria, autore di Prima il colono dopo l’indigeno dopo una visita alle Outlet Nail prostitute che prendevano il nome della tribù di appartenenza, scriverà: «Volete sapere cosa era una cortigiana antica? Chiedetelo a queste donne del sud …». La riflessione di Bertrand, accademico affermato – nonostante la sua appartenenza ideologico-politica – mi intriga molto. Nel suo Le jardin de la morte (Ollendorff, Parigi, 1905), nel descrivere quel mondo del piacere di donne musulmane e ricchi mercanti, trova un’analogia tra il mondo classico degli imperatori romani della decadenza e il mondo musulmano. Precorrendo di trenta anni quanto sarebbe stato teorizzato in contesto coloniale, secondo cui l’Africa romana di Apuleio, Tertulliano e Sant’Agostino si sarebbe mantenuta intatta, sotto la coltre polverosa dell’Islam. Sarebbe bastato togliere la crosta per ritrovare la vera civiltà romana. Di seguito una sua descrizione del fenomeno tratta dall’opera citata (VII):
«L’importanza del genio romano fu tale che ancora oggi si può riconoscere nelle usanze degli indigeni. I conquistatori arabi del resto, non hanno aggiunto alcunché al patrimonio lasciato da Roma, anzi si sono impegnati a distruggere tutto ciò che non si imponeva, in forza dell’abitudine o per ragioni legate al clima. Tutto hanno saccheggiato nulla ricostruito; per chi lo visita questo paese conquistato, le cui genti nulla hanno fatto se non tirare a campare, è come un grande museo, al cui interno tutto è rimasto intatto».
Bertrand, nella descrizione degli indigeni arabi, sia uomini che donne, si sofferma maggiormente sulle donne, ridotte alla nudità dei loro corpi offerti in pasto agli sguardi famelici degli spettatori, privati di ogni specificità etnica e culturale, mentre di tutti esalta le qualità spregevoli, considerandole tipiche della razza. I veli strappati, tenuti in mano o afferrati dai mercanti di turno, stanno ad indicare che si tratta di donne musulmane, aggiungendo così un punto di eccitazione in più dovuto alla “trasgressione”. Tanto nella storia della colonizzazione mentre culturalmente la decolonizzazione probabilmente è un processo molto lungo, rimanendo archetipi e “immagini” scolpiti nell’immaginario collettivo. Quanto tempo ancora per azzerare tutto?
Qualcosa si muove
Capire ciò che sta accadendo nel mondo è difficilissimo come l’agire di conseguenza in modo efficace e risolutivo. Cosa accade nei nostri quartieri, città-stato che poi sono il mondo? Anche l’informazione sui fatti reali è carente e manipolata, finalizzata a creare opinioni. La guerra c’è? È mediatica? Voluta? Immaginata? Destinata ad essere ricordata dai futuri storiografi come la “guerra dei cent’anni”, come sostiene Marc Augè?
Omologazione in tutti i sensi. Quali analisi e quali valutazioni oggi possiamo tentare di quelli che in passato la sinistra ha indicato Paesi del Terzo Mondo o in via di sviluppo? Dentro quel terzomondismo c’erano leader anche africani notevoli, pronti a morire per l’emancipazione dei loro Paesi in alleanze tattiche ma mirate e oneste. Oggi è tutto confuso: Paesi ricchi che progettano il nuovo ordine mondiale, capi di Stato dei Paesi poveri alleati con i capi dei Paesi ricchi, terrorismo e violenza come fatti costanti che accompagnano le cronache.
In questo contesto confuso e inquieto segnalo come positivo un rilancio a Bologna del dibattito culturale e politico, a partire dai fatti di cronaca che hanno motivato una ricerca in corso. Due associazioni di marocchini stanno pensando di dedicare giorni di riflessione, durante il prossimo Ramadan, alla lettura degli articoli della Costituzione italiana tradotti anche in arabo, per ricavarne le analogie, almeno sul piano dei valori umani, con alcune sure del Corano. “Il centro delle donne”, nota istituzione bolognese da sempre impegnata sui diritti delle donne, apre al confronto con il mondo delle donne musulmane a Bologna, per individuare punti in comune e possibilità di trasformazione nei comportamenti reciproci al fine di una convivenza non conflittuale.
A Roma gruppi di donne riprendono la discussione collettiva su “corpi e terre di conquista: razzismo, sessismo e politiche securitarie” intorno al libro Difendere la ‘razza’. identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, di Nicoletta Poidimani (Sensibili alle foglie ed., 2009). Sempre a Roma è nato Ihsan, un think tank di musulmani in Italia, un laboratorio di pensiero (think tank) di musulmani e laici di cultura islamica della società civile italiana. È stato presentato martedì 11 aprile in una sala gemita della sede della Federazione della stampa estera. I promotori – professionisti, sociologi, giornalisti, scrittori, persone di cultura – si definiscono «un coro di voci leali, una presenza qualificata nella nostra società, attive da anni sul terreno della conoscenza, dello studio, dell’educazione ai valori, della comunicazione indipendente e della promozione interculturale», come si legge nel manifesto di presentazione. Dunque un’intellighenzia musulmana, che si propone, attraverso un presidio intellettuale e uno spazio di elaborazione progettuale, di contribuire allo sviluppo dell’Islam italiano valorizzandone il pluralismo interno, ma al contempo svolgendo un ruolo di cittadinanza attiva nella società italiana. I presentatori, Ahmad Ejaz (giornalista), Aly Baba Faye (sociologo), Mounya Allali (ricercatrice e poetessa), Moulay El Akkioui (sindacalista), Parisa Nazari (farmacista), Ilham Allah Chiara Ferrero (consulente), esponenti di un più ampio gruppo di persone di cultura di diverse parti d’Italia, hanno chiarito l’intento di dare voce all’Islam moderato che si sente parte integrante della società italiana e si riconosce nei valori della Costituzione e nella laicità dello Stato.
Il dialogo sociale, culturale, interreligioso, con istituzioni, centri di formazione e ricerca e università, sarà pertanto il terreno d’azione di questa piattaforma, che non si sente comunque – come è stato ribadito più volte – investita di compiti di rappresentanza. Vuole essere una risorsa per la società, un polo che agisce per il bene comune. Ihsan sarà dunque un luogo di riflessione di musulmani che danno il loro contributo alla crescita sociale e culturale dell’Italia, valorizzando aspetti oggi deformati da stereotipi negativi. Come sottolinea il manifesto, «la stragrande maggioranza dei musulmani non è interessata a scontri di civiltà, a guerre di religione né alla propaganda di radicalizzazione pseudoreligiosa. Un musulmano, uomo o donna, può e deve vivere la propria fede nel rispetto delle regole della società in cui vive». Il Laboratorio lavorerà su quattro macro-aree: Cultura, Educazione, Comunicazione e Sociale. Tra gli obiettivi più significativi, in evidenza quello di offrire risposte efficaci sia al mondo delle istituzioni che alla cittadinanza, evitando il monopolio di alcune figure che confondono l’Islam religioso con l’ideologia e la propaganda di gruppi politicizzati; ma anche cercando di fungere da riferimento culturale per contrastare il radicalismo e la politicizzazione dell’Islam.
«La parola Ihsan – si legge nel manifesto – significa eccellenza, perfezione; deriva dal verbo husn che vuol dire fare il meglio di sé, fare del bene al prossimo. Senza questa virtù non c’è etica che si possa declinare dal piano teorico verso una realizzazione effettiva. Dalla coerenza nella fede crediamo si debba manifestare anche un’eccellenza nella cittadinanza, nel lavoro, nelle relazioni sociali e nella famiglia. È ambizioso scegliere questo nome per un think tank perché rivela le intenzioni di coloro che, lavorando insieme, desiderano contribuire allo sviluppo di una società aperta basata sul rispetto e la coesistenza pacifica». Di seguito il link al manifesto del gruppo: http://www.ihsan.it/manifesto.php.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim.
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