di Fabiola Di Maggio
Dal 2 maggio al 28 luglio 2014 è visitabile presso il Museo del Louvre di Parigi una mostra dal titolo Louvre Abu Dhabi. Nascita di un museo. Un’esposizione, o meglio un’anteprima, che presenta centocinquanta capolavori provenienti dalla collezione permanente del museo Louvre Abu Dhabi che aprirà i battenti tra la fine del 2015 e il 2016 ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti.
La metamostra propone ai visitatori il progetto architettonico di Jean Nouvel ad Abu Dhabi ed esprime le ambizioni del museo universale oggi, ovvero riunire insieme le grandi civiltà del mondo attraverso un approccio scientifico multidisciplinare (Pomarède 2014). Sono infatti presenti opere lontane nel tempo e nello spazio, esposte in ordine cronologico dalla preistoria alla contemporaneità: una statuetta proveniente dall’Asia centrale detta la «Principessa» della Battriana del III-II millennio a.C., una Sfinge greca arcaica del VI secolo a.C., una spilla del V secolo proveniente dall’Italia, un Corano della seconda metà del XIII secolo proveniente dalla Siria, una statuetta del Mali del XIII secolo, una Madonna col Bambino di Giovanni Bellini del XV secolo, pitture indiane e iraniane che vanno dal XVI al XIX secolo, fotografie di paesaggio o di soggetti umani di Gustave Le Gray, Eugène Cuvelier e Roger Fenton dell’Ottocento, e ancora dipinti di Édouard Manet, Paul Gauguin, Pablo Picasso, Paul Klee, Piet Mondrian, René Magritte, Kazuo Shiraga e Cy Twombly.
L’immagine che pubblicizza e simboleggia l’esposizione del Louvre è un olio su tela dell’archeologo e pittore turco Osman Hamdi Bey, Giovane Emiro allo studio del 1878 . Si tratta di una rappresentazione della vita culturale islamica (non lontana dai soggetti spesso stereotipati dipinti dagli orientalisti europei) in contrasto con la tradizione del Paese d’origine dell’artista, dove i testi sacri non incoraggiano affatto l’espressione visuale figurativa. Il giovane, disteso su una piattaforma di marmo coperta da un tappeto orientale, è intento a leggere un manoscritto poggiato su un cuscino di seta. La scena, catturata dall’artista con un realismo fotografico, si svolge in un ambiente interno indeterminato (una madrasa o una moschea) il cui carattere islamico è tuttavia facilmente identificabile: maioliche ottomane blu di forma esagonale; divisione a palmette sormontata da una piccola semicolonna a spirale applicata al muro; fregio decorato con iscrizioni cufiche; nicchia murale che ospita altri due manoscritti; candeliere da moschea contenente un grosso cero. Il ragazzo indossa un caftano verde pistacchio e porta un turbante di mussola ricamata. Il manoscritto ha un formato e una rilegatura islamica che suggeriscono un Corano. Benché l’immagine sembri del tutto reale in verità è frutto di un montaggio orientalista di elementi disparati che dà esito a un arredamento immaginario. Per esempio, le piastrelle di porcellana blu che ricoprono i muri sono ispirate direttamente al Mausoleo del sultano ottomano Maometto I, costruito nel XV secolo; la piccola colonna a voluta in alto a sinistra del dipinto rimanda allo stile ottomano barocco del XVIII secolo. L’elemento più bizzarro è la posa del lettore che legge un libro sacro con la nonchalance di chi sfoglia una rivista (Eldem 2013). Osman Hamdi Bey, nato a Istambul nel 1842, dal 1860 aveva studiato a Parigi. Nel suo quadro giunge a un sincretismo artistico unendo di fatto due tradizioni culturali diverse: usa la tecnica della pittura a olio e la sua forza descrittiva propria dell’arte occidentale per creare un’immagine estremamente dettagliata che evochi l’Oriente.
Quest’opera sintetizza bene non solo la mostra del Louvre, ma anche e soprattutto ciò a cui la mostra si riferisce, ovvero lo spirito universalista del Louvre Abu Dhabi, interamente consacrato alla cultura artistica mondiale, il cui scopo è quello di far dialogare culture e civiltà attraverso le opere d’arte, sullo sfondo della penisola araba che da millenni è scenario di contatti e scambi tra culture lontane e crocevia delle grandi arterie del commercio.
La metaesposizione del Louvre però non è che l’ultimo episodio di una storia cominciata il 6 marzo 2007 quando l’allora Ministro della Cultura e della Comunicazione francese, Renaud Donnedieu de Vabres, e lo sceicco sultano Bin Tahnoon Al Nahyan, presidente dell’Ente Turismo e Cultura di Abu Dhabi, stipulano un accordo che prevede la costruzione di un museo universale, il Louvre Abu Dhabi, commissionato all’architetto francese Jean Nouvel ‒ autore nel 1987 dell’Istituto del Mondo Arabo di Parigi e del Musée du quai Branly nel 2006 ‒ all’interno di un distretto culturale sull’isola di Saadiyat (isola della felicità) sotto la supervisione della Francia (des Cars 2013; Pomarède 2014).
Il Louvre Abu Dhabi è un arcipelago di pietra, acciaio e vetro costruito sul mare. Un edificio fondato su una pietra miliare dell’architettura araba, quale è la cupola, ma con un evidente distacco dalla tradizione che riflette un modello e un’idea moderni. Si tratta di una doppia cupola quasi piana con una perfetta geometria radiante, perforata in modo accidentale da creare ombre trapanate da lampi di sole di giorno e un cielo trapuntato di stelle la sera, che ricorda Notte stellata sul Rodano (1888) di Van Gogh. Dello spesso dipartimento culturale faranno parte altri musei come il Guggenheim Abu Dhabi, realizzato da Frank Gehry, lo Sheihk Zayed National Museum progettato da Norman Foster, un museo marittimo firmato da Tadao Ando e un centro di arti performative e dello spettacolo ideato da Zaha Hadid .
L’accordo del 2007 prevede una cooperazione culturale della durata di trent’anni tra la Francia e gli Emirati Arabi Uniti, secondo la quale il futuro museo di Abu Dhabi porterà il nome del Louvre ed esporrà al suo interno opere d’arte provenienti dai più importanti enti museali francesi ‒ primo fra tutti il Museo del Louvre, e poi il Centro Pompidou, il Museo d’Orsay, il Museo dell’Orangerie, il Museo di Cluny, il Museo delle Arti decorative, il Palazzo di Versailles, il Museo del quai Branly, il Museo Rodin, il Grand Palais, il Museo Nazionale delle Arti Asiatiche Guimet e la Biblioteca Nazionale di Francia. Secondo la convenzione i musei francesi dovranno assicurare un continuo e cangiante arricchimento delle gallerie permanenti del Louvre Abu Dhabi. Inoltre per quindici anni la Francia provvederà annualmente all’allestimento di quattro esposizioni al Louvre Abu Dhabi e, al contempo, aiuterà il neonato museo a dotarsi di una collezione propria che sostituirà progressivamente le opere in prestito. Gli Emirati Arabi Uniti a loro volta si sono impegnati a versare circa un miliardo di euro per trent’anni, dei quali usufruiranno il Louvre di Parigi e gli altri musei partner dell’iniziativa (des Cars 2013).
Negli anni la trattativa ha dato origine a opinioni contrastanti situando il dibattito su piani strettamente interrelati: artistico-museografico, antropologico-culturale e storico-politico. Da un lato, ci sono coloro che hanno accolto, difeso e promosso con entusiasmo la realizzazione del Louvre Abu Dhabi in quanto primo museo universale del mondo arabo, destinato a diventare uno spazio d’ncontro e di dialogo tra culture e civiltà, in particolare, occidentali, medio-orientali e asiatiche. Adottando un’ottica interdisciplinare, il Louvre Abu Dhabi rifletterà sul/il sincronismo e il legame tra espressioni artistiche di civiltà differenti. Senza dimenticare che l’eterogeneità e la diversità delle collezioni rimanda al ruolo geografico, storico, economico-politico e culturale dell’Arabia, quale luogo di incontro e passaggio tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud, tra Asia e Africa. Il museo, sarà dunque un simbolo di apertura all’alterità artistica e culturale grazie al dialogo tra opere provenienti da molteplici contesti e società. Pertanto le opere cariche di valore storico, artistico, socio-antropologico, politico, religioso saranno esibite seguendo una cronologia globale e non compartimentale, offrendo allo spettatore un accesso innovativo e sperimentale alla storia dell’espressione artistica umana. In questo modo il Louvre Abu Dhabi favorirà un’esperienza intellettuale innovativa e una riflessione cruciale sul ruolo dei musei nel XXI secolo (Pomarède 2014: 5).
Dall’altro versante non sono mancate le critiche dei detrattori che, come il saggista e storico dell’arte Jean Clair (2008) lo hanno definito un progetto delirante, un processo di spettacolarizzazione e mercificazione dell’arte, addirittura un cenotafio, una scatola vuota. Il timore è che si entri in un dispositivo politico secondo il quale il valore del prestito diventi più significativo di quello delle opere stesse oppure il ʻbaratto’ diventi obbligatorio e i musei si immettano in un circolo vizioso in cui ci si senta costretti a dare pur di ricevere. Per dirla in termini antropologici, si assisterebbe a una specie di Potlatch senza distruzione dei beni o di Kula dell’odierno circuito museografico. Infine si ha paura di tradire il principio storico della collezione, della raccolta all’interno della quale una o più opere si esprimono contestualmente (ovvero localmente) insieme alle altre costituendo un gruppo coerente, logico, isolato.
Presa coscienza delle parti in causa, bisogna chiedersi almeno due cose. La prima: in che termini va oggi inteso, o meglio ripensato, il concetto di universalismo relativamente ai dispositivi museografici? La seconda (strettamente legata alla precedente): la circolazione delle opere d’arte nel mondo, il viaggio delle immagini verso nuovi spazi museali, può ridefinire i criteri e i confini delle collezioni, tracciare nuovi itinerari del sapere, senza per questo annullare identità e contesti di provenienza? In breve, possono le immagini viaggiando connettersi globalmente, fare storia universale, non perdendo o tradendo per questo il loro carattere locale e particolare?
Per rispondere al primo quesito è necessario fare riferimento ad alcune opere di antropologia delle immagini composte tra la fine del XIX secolo e il corso del XX secolo: l’atlante delle immagini Mnemosyne di Aby Warburg (1926-1929), la rivista francese «Documents» (1929-1930) diretta da Georges Bataille e l’album d’arte Le Musée imaginaire di André Malraux (1947; 1965). Questi dispositivi verbo-visuali, sebbene diversi tra loro come ha recentemente evidenziato Georges Didi-Huberman (2013), possono dirci molto circa la nascita dei musei universali negli ultimi decenni. L’atlante di Warburg, l’album di Malraux, la rivista «Documents» sono stati dei veri e propri apparati interdisciplinari (basti pensare al sottotitolo di «Documents»: Doctrines, Archéologie, Beaux-Arts, Ethnographie) concepiti per presentare la storia dell’arte e delle immagini come storia non solo o non semplicemente cronologica. Si tratta di rappresentazioni e relazioni del tempo e dello spazio delle, nelle e tra le immagini. L’album di Malraux tende a ridurre le differenze per scoprire l’unità e l’universalità dell’arte (Malraux 2014); l’atlante di Warburg fa della differenza, della dissimulazione, della migrazione, della sopravvivenza, della ricerca dell’anello mancante nella trasmissione delle forme e dei significati, il vero motivo della sua esistenza, del suo montaggio (Forster Kurt – Mazzucco 2002, Warburg 2002, Stimilli 2004, Didi-Huberman 2006); «Documents», introducendo il paradigma dell’arte extra-occidentale, ha ridefinito l’idea tradizionale di storia dell’arte pregna di un retorico estetismo (Hollier 1991a, 1991b).
Risulta evidente che tali opere non sarebbero mai state concepite se i loro autori non avessero avuto, più o meno direttamente, esperienza e consapevolezza antropologica dell’Altro-ve artistico. È inoltre plausibile considerare queste produzioni delle anteprime, degli esperimenti, dei veri e propri pre-musei universali cartacei, delle quali i musei universali contemporanei sarebbero delle materializzazioni ibride. Tra questi lavori, quello che sembrerebbe avere più affinità con i musei universali, nel nostro caso con il Louvre Abu Dhabi, è il museo immaginario di Malraux (des Cars 2013). Benché Malraux abbia espresso chiaramente l’intento di volere rendere conto dell’unità e dell’universalità dell’arte, egli ha anche rivendicato la posizione anti-storica del suo museo immaginario. Posizione anti-storica che per l’autore significa universale. Infatti, per Malraux l’arte non si definisce in rapporto a una successione cronologica di opere, ma a questa oppone l’atemporalità, ai rapporti di causa-effetto preferisce le metafore e le metamorfosi (Didi-Huberman 2013). Non va dimenticato che il museo immaginario (come anche l’atlante di Warburg e «Documents») nasce in rapporto allo sviluppo e alla sempre più ampia diffusione della fotografia, si potrebbe dire che sia un’invenzione stessa della fotografia. Il museo immaginario è una strategia visuale fondata sull’analogia formale di immagini (lontane nel tempo e nello spazio) e sul loro montaggio. Malraux mette in scena dei contrasti molto forti, immagini legate essenzialmente da un vincolo formale come può essere il confronto tra una Testa gotica di Reims del XIII secolo e una Testa di Buddha di Gandhara del IV secolo, oppure una Testa di Picasso e una Statuetta sumera della fecondità del III millennio a.C. Per Malraux le opere d’arte sono citabili e confrontabili grazie alla fotografia che permette accostamenti facendo emergere affinità stilistiche (Malraux 2014).
Oggi per fortuna si è andati oltre il semplice scatto di comparazione formale, e soprattutto oltre la premessa concettuale del museo immaginario che identifica l’atemporalità e l’antistoricità con l’universalità. Per fare storia universale dell’arte e delle immagini è necessario considerare indubbiamente le affinità e gli accostamenti ma al contempo le divisioni, le fratture storiche, politiche, economiche, culturali, attraverso l’interconnessione produttiva di domini scientifici eterogenei (arte, storia, antropologia). Nel caso del futuro Louvre Abu Dhabi, e come si può scorgere già adesso dall’esposizione del Louvre, il museo proporrà un percorso storico non distribuito in dipartimenti distinti (ad esempio per tecniche, per stili, per tematiche o aree di civilizzazione), al contrario presenterà la “continuità di un universale artistico” che si inscrive nella tensione tra l’invariante antropologica e la rottura storica. Attraverso il confronto di opere spazialmente lontane ma realizzate nello stesso periodo (collocate nella prospettiva delle grandi culture) si cercherà di capire come la produzione artistica mondiale si è espressa in un dato arco di tempo in culture diverse, se ci sono o meno delle consonanze dovute a eventuali contatti oppure somiglianze tout court, o ancora divergenze, migrazioni, sopravvivenze di forme o significati, preferenza dell’astrazione o della figurazione.
Una narrazione dunque, una frizione spazio-temporale che poggia non solo sulle concomitanze e sulle condivisioni, ma che allo stesso tempo svela l’altra faccia delle medaglia sottolineando le differenze o l’indifferenza di mondi che si sono semplicemente ignorati. L’incontro stesso tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud non sarà qui inteso in un senso binario semplicistico, al contrario se ne mostreranno le diversità, le sfumature e le contraddizioni al fine di contribuire alla definizione contemporanea di un museo universale e alla scrittura per immagini di una storia dell’arte mondiale. A questo proposito dunque, come suddetto, è necessario un ripensamento del concetto di universalismo, ancora adesso additato come conseguenza ideologica dell’espansione coloniale ed economica dell’Occidente. Nella realtà post-postcoloniale e globale contemporanea, l’universalismo ‒ nello specifico artistico-museografico ‒ è ancora un retaggio, un’espressione ingenua e caritatevole del rimorso dell’Occidente oppressore nei confronti dell’Altro-ve che ha sottomesso? Rispondiamo di no. Oggi i musei che vogliono narrare la storia universale dell’arte devono farlo al di là della bella trappola utopica del museo immaginario nutrito dal mito del Primitivismo artistico dei primi decenni del Novecento (Price 1992; Clifford 1999; Pinto 2012), oltre la giustapposizione magico-simpatica delle forme, per giungere infine a una riflessione che tenga conto delle dinamiche contemporanee della globalizzazione del mondo dell’arte (Elkins 2006; Buddensieg – Weibel 2007; Carrier 2009; Elkins et ali. 2011; Harris 2011). È a quest’ultimo aspetto che si lega la risposta al secondo interrogativo, ovvero se le opere d’arte possono o meno esprimersi parallelamente nella dialettica locale/globale. Rispondiamo di sì. In un’epoca come la nostra, in cui gli scambi, la mobilità di soggetti e oggetti, la proliferazione dei media e la saturazione della visibilità, l’interconnessione informatica e telematica si intensificano sempre più tessendo una rete spazio-temporale interdipendente (Fabietti et ali 2002; Clifford 2008; Appadurai 2012), il ʻnazionalismo’ caratteristico di molte collezioni museali sta subendo delle trasformazioni proprio a causa dei meccanismi della globalizzazione. Se si tiene conto della portata globale delle metamorfosi spaziali, storiche, politico-economiche, antropologiche, culturali, si potrà capire e vedere sotto una nuova luce la pertinenza, e in qualche modo anche la necessità contemporanea dei musei universali. Si comprenderà più agevolmente l’imprescindibile osmosi tra una museografia locale, particolare, isolata e una museografia globale, interconnessa e cosmopolita.
Se il viaggio, il déplacement, l’annullamento dei confini, la dinamicità rendono oggi il mondo globalizzato, agito tra locale e globale, perché non dovrebbero essere benaccetti i musei universali che attraverso lo spostamento e la ricollocazione dinamica e variegata di opere d’arte riflettono in fondo la contemporaneità? Se il Louvre Abu Dhabi possiede un’attitudine universalista (legata principalmente al carattere migrante e multiforme delle sue collezioni) non si tratta di un museo fuori luogo, ma di uno spazio culturale reale, sperimentale (come lo sono ormai molte città), sicuramente aumentato, eterogeneo, meticcio, aperto all’alterità. Un luogo-sfida dove la diversità trasversale delle opere evoca la possibilità di vedere e sentire le immagini dialogare, raccontare la loro provenienza, la loro memoria, e nel loro relazionarsi riferire un’altra storia per poi andare altrove o magari tornare a casa. Immagini migranti dunque che tramite dei transfert museali producano dal loro incontro configurazioni espositive e di senso inedite, nuovi spazi di riflessione e immaginazione, altre geografie, altre storie, altre memorie, altri immaginari.
Un giorno si leggerà la storia del tempo che stiamo segnando. Quella di un mondo agitato, complesso, teso tra locale e globale e tra globale e locale, interrelato ma non omogeneo. Di questa “contemporaneità miscellanea” possiamo negare ad alcuni musei e all’arte che essi ospitano di esserne un’immagine?
Dialoghi Mediterranei, n. 8, luglio 2014
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Fabiola Di Maggio, laureata nel 2012 in Antropologia culturale ed etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, dal 2013 è dottoranda di ricerca in Studi culturali europei/Europӓische Kulturstudien presso il Dipartimento di Culture e Società dell’Università di Palermo. I suoi ambiti di ricerca sono l’antropologia culturale, l’antropologia dell’arte e delle immagini, l’etnomuseografia, i Visual Cultural Studies e la letteratura distopica e fantascientifica. La sua tesi di dottorato è incentrata sullo studio delle forme di produzione e ricezione delle immagini nella cultura visuale contemporanea.
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