di Francesco Faeta
Il tempo assai breve intercorso tra la scomparsa di Luigi Maria Lombardi Satriani e l’uscita di questo numero di “Dialoghi Mediterranei”, la sensazione di incomunicabile vuoto che accompagna la perdita di una persona cara e, soprattutto, l’estrema complessità della figura e dell’opera dello studioso, non consentono, in questa sede, di andare molto oltre il dovuto e reverente ricordo di un maestro e di un caro amico. Vi sarà occasione, quanto prima, di affrontare in modo sistematico i molteplici aspetti umani, culturali, scientifici e politici di una personalità che ha fatto del loro inestricabile intreccio uno dei suoi tratti salienti.
Per me, per altro, che ho conosciuto Lombardi Satriani quando avevo ventidue anni, sulla scalinata della Facoltà di Lettere e Filosofia occupata, nel lontano 1968 (egli era uno tra quei docenti curiosi, attenti, desiderosi di comprendere, che si avvicinavano agli studenti negli anni della grande e opportunistica fuga di molti professori dalle aule universitarie), e che l’ho intensamente frequentato per tanti anni, nella feconda autonomia di giudizio, di percorso, di scelte da lui consentita e, anzi, stimolata; per me, dicevo, il compito di rievocare e discernere criticamente riveste particolare difficoltà. La regola dello sguardo da lontano, che come Claude Lévi-Strauss ci ha insegnato rende più facile la comprensione, vale anche, a mio avviso, per gli affetti e per le frequentazioni. Mi limiterò, dunque, a poche note, provvisorie e discontinue, ringraziando la rivista per l’ospitalità che ha voluto offrirmi, riservandomi di intervenire in seguito, in modo più ponderato, in questa o in altra sede.
Come ho accennato, è stato un dialogo costante quello intrattenuto con Luigi, dai primi momenti che ho testé evocato, caratterizzati da una tensione civile e politica assai alta, alle più pacate considerazioni successive, a tratti sconsolate, ma sempre animate da un’invidiabile (da parte sua) volontà di riflessione e d’azione, sino alle ultime analisi, condotte con lucidità, coraggio e fiducia nella vita (malgrado il suo evidente affievolirsi, che certamente non gli sfuggiva) delle settimane prossime, di languente inverno e di precoce torrida estate. Da tale dialogo emerge una personalità notevole – su cui altri amici e colleghi, che hanno diviso una comune esperienza si sono già soffermati nei primissimi momenti dalla scomparsa – capace di accorciare molte distanze; quella tra pensiero e azione, a esempio, tra affettuosa condiscendenza e lucida funzione d’indirizzo, tra vicenda intima e scenario sociale. In pochi intellettuali italiani ho potuto riscontrare, a tal ultimo proposito, una più meditata, riflessiva eppur convinta, consapevolezza dell’identità della natura individuale e sociale, della vicenda pubblica e della personale e dolente visitazione del mondo cui ciascun essere umano, volente o nolente, è dedito.
Ciò che particolarmente colpiva nell’attitudine intellettuale di Luigi era la capacità di misurarsi efficacemente con tematiche diverse (con inesauribile curiosità culturale), spesso distanti le une dalle altre, riconducendole però alla cifra unificante del suo approccio e arricchendo tale approccio attraverso gli apporti provenienti dalla diversità affrontata (la sua solida postura antropologica, tra l’altro, faceva sì che di ogni oggetto, evento, persona, circostanza, egli sapesse all’istante individuare la specificità del punto di osservazione disciplinare, senza mai serrarsi però in un angusto specialismo, aprendosi a una riflessione dall’ampio respiro umanistico).
Esemplare, nella prospettiva dell’apertura di cui sopra dicevo, la relazione con le immagini e la riflessione su di esse, sul loro statuto culturale e sociale. Un antropologo proveniente da lontano, e che ha attraversato una carriera accademica assai diversa dalla nostra, Frank Cancian, ricordava non molto tempo fa quanto fosse difficile affrontare le immagini, e le fotografie, senza suscitare, nel contesto scientifico statunitense della seconda metà del secolo scorso, una diffidenza generalizzata. Bravissimo fotografo, Cancian, e capace di analizzare le immagini con finezza, aveva finito per accantonarle, sopraffatto dall’indifferenza, quando non dall’ostilità, del suo contesto di riferimento. Non era molto diversa la situazione in Italia; studiare scienze sociali, nella Facoltà di Lettere e Filosofia dei miei anni, era considerata una scorciatoia rispetto a più solidi e paludati orizzonti scientifici. Studiare le immagini, nella prospettiva delle scienze sociali, un modo per evadere definitivamente le durezze dello studio serio (un esegeta cui è riconosciuta una certa autorevolezza, alcuni anni fa, definiva la cosa, con concreto riferimento al mio lavoro, giocare con le figurine). Naturalmente vi erano eccezioni, ma prevaleva, anche al loro interno, una considerazione utilitaristica e ancillare delle immagini, ben poco adatte, in ultima istanza, al conseguimento della corona d’alloro dell’Ordine.
Quando s’iniziò a profilare il mio interesse per le immagini, al contrario, Luigi ebbe parole d’immediato incoraggiamento e fece suo, in qualche misura, il mio interesse, riformulando, attraverso le concrete esperienze che condividevamo, l’idea antropologica dello sguardo, la considerazione per l’occhio e per le sue ineguali restituzioni. Come spesso gli accadeva, l’attenzione per il lavoro altrui, finiva per essere accolta all’interno della propria riflessione e per arricchire, in modo naturalmente del tutto originale, il proprio approccio. Io che ho imparato da lui cose fondamentali, e la postura stessa dell’antropologo nei confronti dei suoi simili e della realtà, ho avuto il piacere e l’onore di vedere come alcune cose che andavo pensando e realizzando, fossero vagliate criticamente e acquisite da Luigi, andando a completare il bagaglio con cui quotidianamente affrontavamo il mondo.
Ritengo sia un privilegio unico, che soltanto i veri maestri possono propiziare ai loro allievi, quello di farli sentire utili, orgogliosi di aver contribuito in qualche modo, attraverso quanto imparato tramite loro, a una crescita intellettuale comune. Non è un tema secondario quello che qui richiamo: la sostanza del rapporto che ha legato Luigi ai suoi allievi, senza distinzioni, dai più anziani, come me, ai più giovani come gli ultimi suoi dottorandi, dovrebbe essere materia di riflessione profonda intorno alle relazioni tra maestri e discepoli, in questa travagliata e oscura stagione della contemporaneità che tende a negare lo statuto dei primi come quello dei secondi.
Molti tra noi allievi, nei giorni immediatamente a ridosso della scomparsa di Luigi, hanno avuto la sensazione della fine di un’epoca (ovviamente questo sentimento apocalittico fa parte della condizione luttuosa e va tenuto a bada; tendiamo sempre a credere che noi stessi, e ciò che ci è stato prossimo, abbiamo caratterizzato in buona misura e in modo imprescindibile il mondo che abbiamo abitato, pur sapendo per esperienza quanto ciò sia ingannevole). In realtà, una stagione dell’antropologia italiana è certamente finita, ma non a causa delle scomparse dei suoi cultori, quanto attraverso il deciso rifiuto del loro lavoro, la stagione di profonda discontinuità che si è instaurata sul finire del secolo scorso e agli inizi di questo (una stagione a volte camuffata o edulcorata per ragioni di opportunità accademica, ma recisamente decostruttiva).
L’antropologia italiana, dunque, è profondamente cambiata, non sta a me in questa sede dire se in meglio o in peggio, a prescindere dalle scomparse. Quelle di molti studiosi che hanno onorato la disciplina, contribuendo a definirne uno statuto originale (certamente suscettibile di letture critiche), hanno aiutato ad agevolare un passaggio di mano e di consegne che era stato già decretato, però, dalle scelte culturali che si andavano compiendo. Malgrado ciò, credo sia lecito affermare che, con la scomparsa di Lombardi Satriani, una solida pietra di confine sia stata posta.
La storiografia della contemporaneità, nel nostro Paese e nel nostro contesto disciplinare, è assai ardua. Ci si arresta, in genere, a Ernesto de Martino e ciò che è venuto dopo viene ricordato più nell’ottica della celebrazione di scuola che in quella di un’effettiva anamnesi disciplinare. Le scomparse degli studiosi potrebbero essere occasione, invece, per intraprendere un lavoro di sistematica riflessione in direzione di una storiografia della contemporaneità. Per quel che concerne Lombardi Satriani, dove si è collocato il suo lavoro? La morte di de Martino, nel 1965, precede di un anno la pubblicazione delle sue dispense messinesi dedicate a Il folklore come cultura di contestazione. Cosa c’è di demartiniano e cosa di nuovo nell’itinerario del giovane antropologo che tante volte, per comodità o pigrizia intellettuale, ho sentito definire post-demartiniano? Cosa vuol dire esattamente post-demartiniano (si tratta di una mera marcatura cronologica, ovvero di qualcosa che si muove nel senso critico suggerito, per quel che concerne la modernità nel suo complesso, da Jean-François Lyotard, e poi ampiamente sviluppato, sul versante disciplinare, negli studi riflessivi, soprattutto statunitensi)? E se esiste, in quest’ultima prospettiva, una stagione che criticamente possiamo definire post-demartiniana, qual è stato l’apporto specifico di Lombardi Satriani in essa? E, in più ampio (e comparativo) contesto storiografico e critico, quali sono stati gli apporti della generazione di Diego Carpitella, Annabella Rossi, Clara Gallini, Vittorio Lanternari, Alberto Cirese, Antonino Buttitta (per nominarne soltanto alcuni); studiosi con cui tanto egli ha dialogato, da cui tanto si è differenziato o con cui, talvolta, si è scontrato? Qual tipo di continuità/discontinuità vi è stata dentro un contesto che ha significativamente segnato gli ultimi tre o quattro decenni del Novecento? Cosa è stato traghettato, attraverso persone, progetti di ricerca, opere, academic engineering, verso le generazioni ulteriori, cui appartengo, e attraverso quali strumenti intellettuali, scientifici e culturali? Qual è stata la posizione di questa cultura antropologica, negli anni in questione, rispetto alla più ampia cultura scientifica e, soprattutto, rispetto alla vicenda sociale e culturale nazionale?
La figura di Lombardi Satriani si pone in uno snodo importante, a mio avviso, di tali ordini problematici, portatrice di una sua ineludibile e complessa specificità: riflettere, come occorrerà fare, su di lui, sull’origine intellettuale del suo lavoro che si collega con il pensiero di Galvano della Volpe e di Mario Rossi (che lo volle come assistente presso l’Università di Messina); che si appropria, in modo stimolante e audace (forse anche attraverso il magistero messinese di Della Volpe e Rossi?), della rigenerata considerazione gramsciana degli anni Sessanta e Settanta; che si schiude a una prospettiva umanistica dell’approccio disciplinare (l’ho già accennato, ma voglio aggiungere che adopero il termine nello stesso senso in cui si tenta di definire, in ambito storico-artistico, una fotografia umanistica in relazione a un’altra coeva e dominante, neorealistica); che si volge verso un’attenzione metodologica ed epistemologica nuova che sa inglobare il vecchio orizzonte filologico, proprio della demologia (la lezione dei padri), trasformandolo radicalmente, significherà rendergli il dovuto omaggio e riconoscimento, ma anche imparare a riconoscere, a riconoscerci, a confrontarci, a storicizzare.
Voglio tornare brevemente, per avviarmi alla conclusione, sulle immagini e sul loro potere, come, citando il titolo del noto libro di David Freedberg, Luigi amava spesso ripetere. Voglio farlo per indicare, attraverso un solo esempio tra i molti possibili, come l’apertura di credito nei loro confronti, e nei confronti del loro studio antropologico, fosse per lui oltremodo feconda. Molto tempo fa, nel 1988, lavorammo a lungo sulle fotografie realizzate da suo padre Alfonso, in Calabria e nella sua San Costantino di Briatico, sullo sfondo della più generale attenzione dedicata alla fotografia aristocratica della regione nel primo Novecento, alla sua funzione sociale e culturale, al suo imprescindibile contributo alla costruzione dei tracciati identitari [1]. Fu un’autentica rivelazione per Luigi, quel lavoro, non soltanto nel senso generale della considerazione per gli universi iconografici e per la loro funzione sociale, ma soprattutto nel senso particolare di una profonda riconsiderazione della propria vicenda familiare e intellettuale.
Attraverso le puntuali, attente, colte fotografie del padre, non soltanto si visualizzava uno spaccato temporale profondo del contesto parentale e sociale nel quale egli era venuto crescendo e maturando, quanto Luigi riscriveva i tracciati della propria storia intellettuale. Raffaele Lombardi Satriani, l’amato zio demologo, raccoglitore egregio del patrimonio folklorico della sua terra, da lui considerato come artefice della sua vocazione antropologica e suo nume tutelare, non era stato il solo a volgere la sua attenzione sulle classi subalterne, sul loro lavoro, sui loro vestimenti e sulle loro abitazioni, sulle loro forme culturali complessive. Anche Alfonso, suo fratello, aveva avuto un’attenzione alta per quel mondo e aveva affiancato Raffaele, nella sua narrazione. Ciò rappresentò per Luigi, lo ricordo bene, un motivo di personale orgoglio e di rimeditazione complessiva del suo contesto radicale, che egli partecipò spesso, oltre che a me, alla storica dell’arte Marina Miraglia, divenuta sua cara amica, con cui andavamo realizzando, con la sua partecipe collaborazione, l’impresa di studio e valorizzazione del fondo fotografico paterno.
Luigi ha scritto, per “Dialoghi Mediterranei” uno tra i suoi ultimissimi articoli, se non l’ultimo. Un testo brevissimo, dettato (era impossibilitato a scrivere e già profondamente sofferente). Ne riporto un passo significativo: «sento spesso ripetere con aria sprezzante giudizi sui giovani d’oggi come totalmente irretiti dall’ideologia dell’apparire e da un edonismo perverso, che li condanna, senza rimedio, a un destino di superficialità. Per la familiarità che ho con le diverse istituzioni accademiche italiane, che continuo a frequentare per convegni e seminari, posso affermare che ho trovato giovani estremamente preparati e protesi in un progetto di auto formazione ed etero formazione, articolata e complessa» [2].
Sulla scalinata della facoltà di Lettere e Filosofia di Roma del 1968, il giovane professore incaricato di Storia delle Tradizioni Popolari dell’Università di Messina, era pervenuto, al di là delle sue convinzioni politiche e dei percorsi della sua riflessione scientifica, per indiscutibile fiducia in quella composita congerie di giovani che aveva avviato il radicale movimento di contestazione che conosciamo. Ne ricordo l’umiltà della postura, la capacità di ascolto, la volontà di dare un contributo, seppur dalla sua posizione radicalmente diversa e, lui lo avvertiva bene, separata. Che un professore abbia potuto attraversare tutta la sua vita accademica, scientifica e culturale, portando con sé questa luminosa fiducia in chi viene dopo (e in chi ulteriormente verrà), lo trovo uno dei suoi più alti e poetici insegnamenti.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Cfr. F. Faeta, M. Miraglia (a cura di), Sguardo e memoria. Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, Milano-Roma, Armando Mondadori Editore-De Luca Edizioni d’Arte, 1988.
[2] L. M. Lombardi Satriani, Ho fiducia nei giovani e nel pensiero critico delle nostre università, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 54, marzo 2022.
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Francesco Faeta, professore di Antropologia culturale, ha insegnato presso le Università della Calabria e di Messina; insegna ora come professore esterno presso la Scuola di Specializzazione per i Beni Culturali DEA dell’Università “La Sapienza” di Roma. Docente Erasmus nelle Università di Valladolid e de’ A Curuña, è stato Direttore di Studi invitato all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel 2004, fellow e associate researcher dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, nel 2012. Ha effettuato ricerche in ambito europeo, con particolare riferimento al Sud d’Italia. Fa parte dei comitati scientifici di riviste italiane e straniere e dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi visuali e pratiche della rappresentazione. Tra le sue ultime pubblicazioni Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011; Fiestas, imágenes, poderes. Una antropología de las representaciones, Vitoria Gasteiz-Buenos Aires, Sans Soleil Ediciones, 2016; La passione secondo Cerveno, Milano, Ledizioni, 2019; Il nascosto carattere politico. Fotografie e culture nazionali nel secolo Ventesimo, Milano, Franco Angeli, 2019; L’albero della memoria. Scrittura e immagini, Palermo, Museo Pasqualino 2021; Vi sono molte strade per l’Italia. Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2022.
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