di Flavia Schiavo
Il 27 ottobre del 1904, alle 2.35 del pomeriggio, George B. McClellan Jr., Mayor di New York (dal 1904 al 1909), inaugurò la prima linea della subway newyorchese.
Non si trattava certo della first underground negli States – Boston infatti aveva già costruito una linea nel 1897 e in Europa [1] il London Tube, la Metropolitan Railway, più antica del mondo, era stata inaugurata nel 1863, mentre nel 1890 vennero introdotti treni elettrici – ma la subway a New York segnava l’apertura di una rete che divenne, in breve, il primo e più vasto sistema di trasporto urbano di tutta l’America.
La tranche iniziale, permanente, della subway, fu realizzata dalla IRT (Interborough Rapid Transit Company, fondata da August Belmont Jr. nel 1902, per finanziare la costruzione e la gestione della sotterranea) in competizione con la BRT (Brooklyn Rapid Transit Company), post costruzione di alcune sezioni della Elevated (la sopraelevata a vapore comparsa intorno agli anni ’60 dell’Ottocento), che servivano numerose porzioni urbane nei quattro Distretti [2] (con esclusione del Distretto di Staten Island, interconnesso al sistema dal Ferry). Tale sezione inaugurale della subway percorreva circa 9 miglia, attraversava 28 stazioni e collegava City Hall, l’ombelico civico in Lower Manhattan, con Grand Central Terminal [3] (sulla 42nd Street, che già in quegli anni si stava configurando come uno degli “snodi” principali, “sopra” e “sotto” la Broadway), giungendo sino a Harlem (all’altezza della 145th Street). Nel 1905 la linea venne prolungata sino al Bronx, nel 1908 si collegò a Brooklyn e nel 1915 raggiunse i Queens [4].
Al primario percorso nord-sud che consentiva di mettere in comunicazione rapida (prima inimmaginabile) aree “estreme” del territorio stretto e lungo di Manhattan, City Hall con Harlem per esempio, si unirono poi e in poco tempo altri “rami” di quell’albero sotterraneo che, da un lato permetteva alle persone di muoversi e di raggiungere velocemente i luoghi di lavoro e di produzione, dall’altro influenzava lo sviluppo stesso della città, la dislocazione delle aree produttive e di quelle residenziali, la determinazione dei punti sensibili e di quelli di flusso, come già aveva innescato il neonato sistema dei Ponti, rendendo più appetibili alcuni settori urbani. Questi ultimi, con una velocità impressionante e nell’impermanenza dell’urbano newyorchese, venivano riconvertiti e diversamente popolati, rinvigoriti in una frenetica dinamica di appropriazione e colonizzazione del territorio in cui il mercato immobiliare (il real estate), il posizionamento di grandi e medie Compagnie che investivano danaro nel mercato immobiliare e nella stessa rete della metropolitana, spingendo per la creazione di linee e stazioni, nonché la “scoperta” di nuovi modi di abitare [5], rimodellavano in progress l’insediamento e organizzavano, tra aree ambite e aree marginalizzate, nuove “trame” fatte di punti, linee e territori, limitrofi o non contigui, in reciproca influenza.
La sera di quel 27 ottobre 1904 [6], alle 7, dunque, dopo il rito civico e celebrativo dell’inaugurazione, le porte dei primi vagoni underground si spalancarono e 100 mila persone, pagando un “nikel” (five cent) ciascuno, sperimentarono la loro prima corsa nel ventre concavo di New York, entro uno dei prodigiosi “dispositivi” della contemporaneità, trasportati in sotterranea, dove i suoni, gli odori, la luce erano tanto diversi dall’urbano consueto, lungo quella Manhattan che abitualmente si percorreva alla luce del sole. Il New York Times, registrando l’impatto, la meraviglia e notificando la nascita di un mito, quello della “velocità”, descrisse l’eccitazione del momento: «For the first time in his life Father Knickerbocker went underground yesterday; went underground, he and hischildren, to the number of 150 mila, amid the tooting of whistles and the firing of salutes, for a first ride in a subwaywhich for yearshadbeenscoffedatas an impossibility» [7].
Il Newspaper, tra i soggetti influenti del periodo, ebbe un ruolo nella diffusione della rete della subway: si trasferì proprio nel 1904, per iniziativa dell’editore, Adolph S. Ochs, in uno skyscraper, appena edificato in una piazza chiamata Longacre Square (all’altezza della 42nd Street). Ochs persuase il sindaco ad aprire una stazione della subway in quello che divenne uno tra i maggiori gangli urbani newyorchesi, il centro pulsante globale che venne ribattezzato Times Square.
Il ruolo della metropolitana fu, allora, sia quello di proiettare la città in un tempo futuro, trasformando il sistema dei “villaggi” e dei quartieri nati dall’insediarsi di specifiche attività o di gruppi etnici in parte interconnessa della rete urbana, sia di moltiplicare e differenziare il sistema delle isole di espansione economica (come l’area prossima a Madison Square) che originavano da scelte urbane tutt’altro che programmate e dalla collocazione della folla dei migranti e dei settori produttivi, istituendo alcune imponenti polarità (come Times Square, appunto), favorendo la composizione dell’aggregato che si trasformava in un’enorme, eterogenea metropoli in cui l’estensione non aveva caratteri unitamente intenzionali dettati né dalla continuità, né tantomeno da una zonizzazione funzionale pianificata.
William James – un autorevole outsider in visita a NYC nel 1907, in una lettera indirizzata al fratello Henry, il noto romanziere che aveva scelto di allontanarsi da NYC raccontandola in The American Scene, in modo assai critico – incluse la subway tra gli oggetti significanti della “nuova” New York, affermando:
«The first impression of New York, if you stay there not more than 36 hours, which has been my limit for twenty years past, is one of repulsion at the clangor, disorder, and permanent earth quake conditions. But this time, installed as I was at the Harvard Club (44th St.) in the centre of the cyclone, I caught the pulse of the machine, took up the rhythm, and vibrated mit, and foundit simply magnificent. I’m surprise dat you, Henry, not having been more enthusiastic, but perhaps that superbly powerful and beautiful subway was not opened when you were there. Itis an entirely new New York, in soul as wellas in body, from the oldone, which looks like a village in retrospect» [8].
La subway, una sorta di universo contrapposto, parallelo a quello della città di superficie, può essere considerata oltre che un dispositivo tra i più complessi della nuova città del Novecento, un gigantesco “passage” che, come accadde a Parigi, sebbene in modo assai differente (analoga era la crisi e la dissoluzione del “soggetto” che, nel transito temporale tra XIX e XX secolo, aveva abdicato al legame comunitario), proiettò New York nell’anticipazione.
Con l’accelerazione cumulativa del Novecento, la subway, mostrando quanto nessuna teoria fosse in grado di prevedere gli esiti dello sviluppo, fu un gigantesco prodotto mutante che consentì di arricchire l’esperienza urbana, trasformò il paesaggio esterno, e non solo in alcuni punti (gli ingressi), istituendo un differente “registro” e una duplice condizione temporale in cui l’efficienza produttiva del Capitale urbano e la rapidità, che consentiva e consente in un “lampo” di raggiungere i luoghi di lavoro spesso lontani dalla residenza, si coniugavano con la meraviglia per il “nuovo” e con un tempo sospeso, quasi onirico, in cui i cittadini, i “clienti” nella definizione recente di J.-M. Floch [9] – nel contempo “Esploratori”, amanti dei tragitti discontinui; “Sonnambuli”, viaggiatori della continuità incuranti di quanto si sarebbe potuto incontrare durante il percorso; “Professionisti”, in grado di valorizzare la non-discontinuità e realizzare delle sequenze; “Bighelloni”, amanti delle passeggiate – appartenenti a quasi tutte le categorie sociali, osservavano, mentre essi stessi erano oggetto di osservazione, a distanza ravvicinata, l’enorme massa umana in arrivo a NYC, entrando in reciproca collisione pur in assenza di una relazione diretta o duratura.
Un tempo durante il quale fosse possibile “ascoltare” il nuovo clangore della macchina urbana in esponenziale accrescimento, “avvertire” il rombo metallico e schiacciante della Rivoluzione Industriale e “percepire” un “paesaggio” nuovo, umano e materiale, inusuale, fatto di persone in moto, di nuovi luoghi densi di segni, simboli, messaggi, di oggetti che, innocui in apparenza, influenzavano la way of life. Già tra gli anni ’10 e i ’30 del Novecento, infatti, la metropolitana divenne uno degli ambiti dove i processi di controllo sociale si espressero, influenzando quelle masse indifferenziate sottoposte alla manipolazione da parte di simboli e messaggi (per esempio quelli pubblicitari) elaborati da soggetti che operavano in modo invisibile nel background, attraverso la supervisione dei media.
Il “contesto” della subway era ed è uno “spazio pubblico”, in cui non solo si transita, ma si risiede. Definirlo “contesto” non è casuale, infatti esso si configura come un ambito complesso caratterizzato da “qualità” specifiche, una specifica “estetica”, specifiche modalità di fruizione e di comportamento collettivo. Non si tratta certo di uno dei luoghi sociali della tradizione, come una piazza, un portico o un giardino prossimo a “casa” dove si possa godere della “Natura urbanizzata”, ma proprio per questa sua indole originale lo spazio della subway, visto nella sua interezza, sollecitava (e sollecita) un’innovativa modalità di analisi e di comprensione. Il paesaggio urbano, infatti, che si sviluppa e si manifesta in ogni città vitale, come il più eminente luogo tensivo tra storia e trasformazione, determina con una sua specifica declinazione, esperienze sensoriali e culturali che contribuiscono al cambiamento della società e degli individui, del loro sentire e della loro stessa esistenza.
La percezione così intesa è un’esperienza attiva e retroattiva; e lo spazio urbano, attraversato e vissuto collettivamente e individualmente, può esser percepito come un’estensione del proprio universo, quello specifico dell’essere. Tale paesaggio, che è interno ed esterno, quando sia quello di superficie, anche grazie al transito veloce della subway che accorcia le distanze e ridefinisce i confini interni ed esterni (li annulla, li rende diversamente porosi), testimonia la nascita della visione cinematica che, proprio durante la seconda Rivoluzione Industriale, sostituisce la “veduta” statica e trasforma profondamente l’estetica urbana, da quel momento esperita anche tramite il movimento.
Non è il polo fisso e accentratore della stazione ottocentesca, che pure aveva ridefinito le città europee, riarticolandone gli equilibri interni, ad essere il fulcro, ma il network frenetico e policentrico in cui, pur essendo possibile fermarsi, la “contemplazione” di alcuni punti fissi viene sostituita dalla visione in movimento, e dalla scissione tra la strada e i luoghi da raggiungere. La strada come territorio primario della percorrenza e della stanzialità – dove tradizionalmente si formava il legame sociale – perdeva forza, sostituita dalla rete sotterranea. La pratica quotidiana del camminare, celebrata da alcuni studiosi del periodo, tra essi Henry David Thoreau [10], che può essere considerata, per estensione, un’azione fondativa in ambito urbano per la costruzione delle mappe mentali, della territorializzazione e dell’appartenenza ai luoghi e alla comunità, veniva depotenziata dalla nuova modalità tanto utile al Capitale che si alimentava della velocità e dell’efficienza degli spostamenti. Gli individui, infatti, piuttosto che muoversi con lentezza da un sito all’altro incontrando, durante il tragitto, luoghi e persone, costituenti vitali della città con i quali entrare in relazione, venivano ingoiati dalle bocche del mostro ctonio, grande complice dell’economia novecentesca, e proiettati verso le destinazioni del lavoro convulso, fordista e competitivo, cioè verso gli spazi ipertrofici del Capitale.
La subway, dunque, contribuì alla dilatazione dell’urban power newyorchese (in genere la mobilità, “intra” ed “extra muros”, ebbe un ruolo cardine, insieme alla posizione e alle condizioni geoclimatiche), e alla dissoluzione del legame sociale, tra i nodi critici interni alla città del Novecento, affrontati da autori come Max Weber, Georg Simmel, o dagli americani della Chicago School: Ernest Burgess, Roderick D. McKenzie, Robert E. Park, e dal giovanissimo Louis Wirth. Questi, infatti, aveva illustrato nel suo L’Urbanesimo come modo di vita (del 1938) [11] il «mutamento del carattere delle relazioni sociali», diventato per necessità e in virtù della moltiplicazione dei contatti, non solo più superficiale, ma frammentario, «schizoide» e incompleto.
La subway inoltre si inserisce – e soprattutto a New York, per la sostanziale assenza di un Piano che disciplinasse le destinazioni funzionali – tra le “componenti” attive, quale faber del sistema di azioni e retroazioni urbane: le allocazioni produttive, la distribuzione dei soggetti, la colonizzazione del territorio, il posizionamento delle Companies, l’abitare dei workers, la rendita urbana e di posizione, e i connessi valori dei suoli, non erano stabiliti in base a un Piano, o a scelte di ordine monumentale o scenografico, come accadeva per esempio a Parigi, ma in base a un flusso – umano ed economico – in cui agivano circostanze (intenzionali o accidentali), fatti storici e geografici, elementi che determinavano un mutuo sistema di convergenze e divergenze, come prima mostrato dal “riposizionamento” della sede del New York Times, e dall’apertura della stazione della subway a Times Square, proprio mentre la linea della metropolitana stava nascendo. Una singolare “sincronicità” che attivò un sistema propulsivo che condusse alla determinazione di un luogo – Times Square – altamente simbolico e, nel bene e nel male, rappresentativo dell’intera città a livello planetario [12].
Le qualità del “risiedere momentaneo” e rituale (l’ingresso quotidiano nelle stazioni prossime alla residenza e al lavoro, per esempio) e dell’attraversare, indotte dalla subway nel XIX secolo, confermarono e rafforzarono, poi, la struttura stessa del paesaggio urbano newyorchese di superficie che, privo della regola e del controllo dei Piani europei dell’Ottocento, anti-monumentale per eccellenza, viveva già di una molteplicità tridimensionale sostanzialmente anarchica, che permeava anche la quota del sottosuolo.
La subway, anti-monumento underground della cultura urbana del Novecento, assume dunque a NYC un enorme valore: è il raddoppio della città dei frammenti (così può essere definita New York, aggregazione di eterogeneità separate ma interdipendenti), è la concatenazione dell’arcipelago iperconnesso dei Distretti in cui le enormi distanze si accorciano, è la rete che rinvigoriva la “porosità” del territorio e oggi innerva un’immensa “regione” che vive dei flussi sotterranei, gerarchici come di quelli di superficie, strutturatisi, questi ultimi, nel tempo grazie all’intervento di pianificatori come Robert Moses.
In questo spazio fluente, della stanzialità e dei flussi, la rete della subway era ed è un luogo pubblico ad altissima densità di eventi, fatti, stimoli, circostanze, in cui uomini e donne si toccano, si incontrano, si misurano con i codici istituzionali riconosciuti e con quelli più soggettivi e accidentali, collidono in una città di regole, fatta di fluidi e molteplici comportamenti umani che assimilano, modificano, confutano, accreditano le regole stesse.
Quando la metropolitana iniziò la propria comparsa, con l’edificazione della Elevated (la rete di superficie inizialmente costruita tra il 1867 e il 1870), era già presente, dal 1844, l’Atlantic Avenue Tunnel, che, anche se privo di fermate sotterranee, connetteva Brooklyn con una sezione della rete ferroviaria, la Jamaica Railroad, ed esisteva in altre aree l’incipit di una rete che poneva in relazione porzioni della New York County (Manhattan e parte del Bronx) con Kings County (che comprendeva Brooklyn e Williamsburg, in quella fase quartiere separato dalla “città” di Brooklyn) e con Queens County che era ancora una entità municipale separata, a circa 50 anni di distanza dal 1898, data cruciale che segnò il “Consolidamento” del cinque Distretti in una unica unità amministrativa, The Greater New York.
La prima Elevated, “El” nello slang urbano, diede vita a una tranche, oggi demolita, che univa Greenwich Street con la 9th Avenue. Fu edificata grazie all’intervento di numerose Compagnie private che integrarono tale realizzazione con ulteriori bracci, in gran parte smantellati, che non solo univano i luoghi urbani più densi (residenziali e produttivi) ma interconnettevano il “cuore” del sistema (Manhattan) con aree liminari come Coney Island, dove i newyorkesi inizialmente si recavano durante il proprio tempo libero e dove, in seguito, estese comunità di migranti (tra cui molti italiani) si stabilirono edificando le proprie abitazioni.
Contestualmente al sorgere della El, già dal 1869, con il Beach Pneumatic Transit per iniziativa di Alfred Ely Beach, la città iniziò ad avere una linea underground al di sotto della Broadway, linea edificata in soli 58 giorni e costituita da un tunnel che, utilizzando un unico vagone, seguiva un percorso raggiungendo il capolinea e tornando indietro. Ciò nonostante durante le prime due settimane di attività furono vendute 11 mila corse, e pur arrivando a 400 mila corse nel primo anno, la linea fu chiusa nel 1873, in concomitanza con una pesantissima crisi, quel “Financial Panic” [13], un crash che, come spesso accadeva all’economia up and down e non solo newyorchese, spinse gli investitori a ritirare i finanziamenti che sostenevano la costruzione.
Se la costruzione della subway e della Elevated iniziò in modo frammentario, il vero Planning del “mostro sotterraneo”, uno dei pochissimi “oggetti” realmente pianificati a NYC (in questo caso un “planning process”), fu inaugurato con il Rapid Transit Act, un decreto legge del 22 maggio del 1894, ratificato appena quattro anni prima del Consolidamento. Il Decreto istituì una Commissione, il Board of Rapid Transit Rail road Commissioners, che, con il consenso dei proprietari dei suoli e della Municipalità, puntava a stabilire la maglia dei percorsi, curando la distribuzione non solo degli accessi e delle “direzioni” ma degli appalti e degli incarichi per la realizzazione, curata da società private. Spesso il rapporto con i proprietari comportava conflitti urbani, collusioni, battaglie legali che dirottavano verso altri obiettivi le scelte prese a monte, pur nella considerazione che alcuni fulcri urbani, in quella fase già strutturati, come Union Square, rappresentavano mete, snodi, inderogabili in quanto servili a una distribuzione delle economie urbane in espansione e utili alla trasformazione di aree limitrofe.
Tra esse Park Avenue che, sia grazie alla costruzione del Grand Central Terminal (1903) – assai più a nord (42nd Street) di Union Square (14th Street), ma accessibile da quest’ultima piazza – sia per l’ampliamento della Grand Central Station (42nd Street), hub di distribuzione e snodo, e per l’interramento dei binari della ferrovia che segnavano la Avenue, sino a quel momento abitata prevalentemente dalla working class, divenne un asse in cui i valori dei suoli si moltiplicarono in modo esponenziale. In quel contesto accessibile e prossimo a grandi spazi sociali “verdi”, che valorizzavano Union Square (attorno alla quale si addensavano economie vitali), si situarono numerose Compagnie e vari soggetti rappresentativi, come il Waldorf-Astoria Hotel (dell’inizio degli anni ’30), mutando la consistenza morfologica e sociale di quell’Avenue dove erano stati, in tempi non troppo lontani, edificati numerosi tenements, e dove aveva vissuto una vasta folla di lavoratori.
La formazione della “maglia” del sottosuolo dimostra quanto, in analogia con quanto accadeva in superficie, una pianificazione, assolutamente necessaria per la metropolitana che vive della sua stessa organizzazione, potesse essere ripensata nell’ottica flessibile della rapidità e della iper-produzione economica. Una crescita per parti interconnesse, figlia di differenti attori (Commodores, Imprenditori, Direttori di Newspapers, Politici, Bossess) e di differenti “visions”, spesso in lotta, che si andavano saldando in una rete sempre più complessa e articolata che aveva, e continua ad avere, una diretta connessione con la determinazione di “marginalità [14], con le scelte immobiliari e lo sviluppo della New York produttiva, residenziale e con la sua cultura urbana [15].
Urban dancer on the dark road
Funamboli in perenne movimento, tra gli odori metallici e i suoni d’attrito dei treni sulle rotaie, in un universo scuro e senza sole.
Entri di corsa, discendi e “abiti” quelle viscere dure, corri frettolosa su una banchina, “leggi” i messaggi scritti e i graffiti sui muri, guardi i binari su cui marciano i vagoni. Accelerazione e attesa.
Una rete gigante, diramata, come fosse una giungla di radici, che ti proietta ovunque, nodi, flussi, riflessi, efficienza concreta.
Una porta si apre, attendi che qualcuno esca dalla vettura, moltissimi al “rush hour”, e accedi, seguendo un codice non scritto, inserita in un’ergonomia del movimento.
Conducenti, a volte sporti alle piccole finestre; homeless [16] con tutta la propria vita in un carrello, di notte raccolti e coperti di cartoni per difendersi da un gelo omicida; “Cops” in divisa, addetti alla manutenzione; donne bellissime che si tengono per mano, con lunghe sciarpe variopinte al collo. Cinesi silenziosi ed ebrei ortodossi, con i loro cappelli neri, i lunghi payot, con libri sacri aperti tra le mani, e un sacco di figli.
“Afro” con le spalle larghe e le cosce muscolose; donne gigantesche. Smartphone tra le dita, headphones per ascoltare chi-sa-cosa mentre li pensi diretti Dio sa dove…
Milioni di persone che ogni giorno incroci per caso, alcuni non li vedi nemmeno, in traiettorie organizzate, gesti sgraziati e “I’m sorry”, gesti misuratissimi, e una folla che, forse, non rivedrai mai più; “sezioni trasversali della popolazione” e comportamenti reciproci che delinea- no l’eterogeneo unito sotto l’essere semplicemente New Yorkers, un nome che oltre ogni retorica rimanda a un’identità urbana di fondazione.
Mohsin Hamid, scrittore pakistano che vive tra Londra, Lahore e New York, scrive: «in a subway car, my skin would typically fall in the middle of the color spectrum. On street corners, tourists would ask me for directions. I was, in four and a halfy ears, never an American; I was immediately a New Yorker», e ci mostra come la subway possa essere il luogo dove sperimentare l’appartenenza all’eterogeneo collettivo, di cui la città è fatta.
Eros. Sistema, struttura, relazioni, cittadinanza collettiva, diritti, cittadinanza negata, caverna, buio, intrusioni, sconfinamenti, esortazioni, messaggi pubblicitari spesso scritti in inglese e in spagnolo, indicazioni pro sicurezza, sulle pareti dei vagoni o diffuse vocalmente, regole scritte, poesie stampate che gli occhi sfiorano distrattamente, poesie che qualcuno legge con attenzione; mondi e costitutivi interni che sono, in un contesto fluido, pesante e organizzato, offerti al pensiero, mentre ciò che domina il tuo sguardo è il metallo opacizzato dal tempo, il grigio dei vagoni, mentre ti imprigiona, a volte, la trasparenza delle porte che esibisce, quando si emerge dal “ventre”, il cityscape di New York, la trasparenza che per un attimo mostra i tetti o, ancora, i muri consumati su cui mastodontici graffiti (fatti proprio per esser letti da lontano) ti raccontano le “idee”, i “desideri”, i “sogni” di alcuni newyorchesi: una lunga concatenazione di immagini, eidetiche o concrete, che narrano le voci della città e dei suoi abitanti, mentre tu reciti come un mantra la lista delle stazioni che, oramai, conosci a perfezione.
Origli ogni annuncio e, quando sei sottoterra, immagini cosa ci sia sopra di te, quale luce renda nitida la guglia di metallo di un grattacielo che hai disegnato molte volte, la cupola dorata di un altro edificio; e fantastichi, se sta piovendo, su quale colore assuma quel muro, alto e imponente, di un elettrico blu di fronte a un negozio dove spesso ti fermi.
Nessuna teoria ti spiegherà mai e del tutto com’è una città, come è nata davvero, quali siano le sue ragioni quotidiane, quali i conflitti, le direzioni ma, in quello spazio nero del metrò, se lo percorri devota e assidua, mentre sei davvero da sola con te stessa, puoi capire un po’ di più della Storia.
Da circa quattro anni studio New York, una città in cui ho abitato per quasi un terzo dell’anno. Indagando lo sviluppo tra il XIX e gli inizi del XX secolo. Esplorando, cioè, quel passato che a New York – sempre in “sostituzione” di qualcosa e di qualcuno, e in cui la “tutela” ha un senso, stentato, battagliero, civico differente che in Europa – è quasi invisibile. La ricerca, nelle biblioteche, nelle sedi universitarie e soprattutto per strada ha, in questo emozionante lavoro, prodotto un’immagine urbana che si alimenta dell’interrelazione tra la storia e il quotidiano, tra il poetico e il fattuale.
Tra un’Avenue e un parco, tra una promenade e una ride nel profondo del sottosuolo, ferma su un ponte e sotto un grattacielo, ho disegnato, fotografato, preso appunti, scritto. Uno tra i primi “oggetti urbani” che ho incontrato è stata proprio lei, la subway che si è, da subito, trasformata in uno strumento per l’osservazione, uno strumento sensibile e indiretto per capire la città. Tanto da indurre il progetto di un libro che in questi giorni sta prendendo forma, perimetrando un metodo che, basato su una solida ricerca storica, confronta le riflessioni possibili con le sollecitazioni dell’osservazione personale.
La subway è, infatti, un contesto dove ci si reca per spostarsi, ma dove è possibile condurre un’analisi, un po’ rischiosa e un po’ “protetta”, di quel mondo là sotto, compagno di quell’altro mondo, là sopra. Un itinerario nel sottosuolo, dove si compiono alcuni riti urbani, riti di significazione sociale. Molti tra essi sono spontanei, non codificati e dunque portatori di quell’insorgenza dei fenomeni autoprodotti, fortemente espressivi della cultura urbana: la musica [17] e alcuni linguaggi artistici, come i graffiti [18], per esempio, o come alcune attività culturali connesse allo scambio di libri.
Il doppio livello di indagine previsto, inoltre, tra la mobilità delle persone e gli spostamenti, la relazione tra le “stazioni” e le traiettorie, in rapporto alla complessità del territorio dei cinque Distretti, mette in evidenza quanto debba essere ampia e articolata l’analisi della subway; analisi che punta a ricostruire il tempo e la durata dello sviluppo, le energie coinvolte (istituzionali e non), le recenti opere di ampliamento e le interrelazioni tra i valori dei suoli e il sistema della mobilità sotterranea, tra la consistenza esterna dei luoghi e quella interna del ventre. Instabilità. Flussi. Mutazioni.
Se la subway è paesaggio e osservarla significa interrogarsi sulle corrispondenze tra il cityscape di superficie e quello del sottosuolo. Porzione influente in grado di manifestare gli irrisolti, compresi quelli sociali, la sperequazione, l’impatto di alcune catastrofi, come gli hurricanes. Se la subway è paesaggio il mio lavoro si chiede quando, e soprattutto come, “questo paesaggio” sia entrato nel racconto e come sia, adesso e prima, incluso nei processi culturali, quali brani musicali lo celebrino, quali film [19] (o documentari storici, ce n’è uno addirittura del 1904) lo narrino; cosa, a livello simbolico, la “subway” richiami.
La subway è un connettivo interno, un luogo dove si risiede e dove agisce il sociale, secondo modalità differenti da quelle che caratterizzano la città di superficie. La comparazione tra le pratiche di “appropriazione” tra questi due mondi contigui e interrelati porta a una riflessione sulla rappresentazione urbana, sulla percezione e sulla fruizione dei luoghi, sul riconoscimento degli stessi, sul modo in cui eventi “eccezionali” o imprevisti siano “registrati” nella vita degli abitanti e come tali eventi divengano parte integrante della esperienza urbana che si nutre, essenzialmente, del rapporto tra storia e innovazione.
Come suggerisce Marc Augé [20], ciò aiuta a comprendere la «parte individuale e soggettiva di ogni relazione sociale, la necessità del legame, senza il quale nulla esiste». «Il metrò», prosegue l’etnologo francese, «collega tra loro dei punti algebrici, dei luoghi e degli esseri. I binari del metrò sono come dei ponti (…) sono anche dei fiumi, con le loro banchine e i loro affluenti. Le banchine del metrò (…) sono il rifugio degli esclusi – nonostante si tenti di cacciarli, per tenere pulita la città».
Si tratta di un luogo dove, durante le percorrenze e le attese, l’immaginazione può svilupparsi, incontrando l’immaginario degli altri. L’immaginario urbano, la realtà nelle sue variazioni «in un’atmosfera» – ci suggerisce Albert Piette [21] – «concretizzata da esseri e oggetti periferici». Periferici in apparenza in un contesto in cui tra circolazione e stanzialità, esperendo la concreta porosità di New York City, si assiste e si partecipa alla mescolanza insita in quella potente cultura urbana.
La subway, spazio cavo della città, per alcune ore al giorno ti inghiotte. Sprofondi nelle pratiche urbane, osservi i volti tanto diversi, gli oggetti trattenuti tra le dita, esplori gli sguardi, le grandi borse sul pavimento del vagone, i libri; scruti come le braccia, le gambe della gente siano raccolte o protese, le schiene dritte; indaghi come lo spazio personale di ciascuno sia “concentrato” in un campo che ha precisi confini, e abbia un bordo non-visibile ma attivissimo nel governare i contatti. Osservi i vestiti, le scarpe; chi mangia cosa. Ascolti le parole, gli accenti e i gesti. E senti l’impatto del suo ventre, quello della città, mentre il tuo si rimescola, mentre scendi in quel sottosuolo, diviso, ma è solo apparenza, dalla New York di superficie.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Apertura di alcune metropolitane: Philadelphia, 1907; Londra, 1863; Parigi, 1900; Berlino, 1902; Atene, 1904; Glasgow, 1896; Barcellona, 1924; Budapest, 1896; Mosca, 1935; a queste aggiungiamo, Tokyo, 1927; Osaka, 1933; Buenos Aires, 1913.
[2] Manhattan, Brooklyn, Bronx, Queens.
[3] Aperta nel 1871 e ricostruita nel 1913, una parte della Stazione, il Grand Central Terminal, appunto, fu edificato nel 1903, appena un anno avanti dell’inaugurazione della prima linea di subway. L’edificio del Terminal è frutto della collaborazione tra due studi associati: Reed&Stem con Warren &Wetmore. La stessa “coppia” professionale che aveva progettato il Grand Central Palace, una grande sala di esposizione alta 13 piani e di forma compatta, edificata nel 1911, demolita nel 1964, su Lexington Avenue tra le 46th e la 47th Streets.
[4] Nel 1932 si costituì l’IND (Indipendent Subway System) che rilevò nel 1940 l’IRT e il BMT, il Brooklyn-Manhattan Transit: attualmente la rete della metropolitana ha 22 linee interconnesse, più di 200 miglia e circa 468 stazioni ed è gestita dalla Metropolitan Transportation Autority (MTA).
[5] Furono, infatti, quelli gli anni in cui emerse una differente modalità di abitare, che riguardava tutte le classi sociali, con la costruzione di tenements, con l’edificazione di rowhouses, con la migrazione della upperclass dalle maisons, le ville unifamiliari dei capitalisti urbani (alcune sulla Fifth Avenue), ai condomini di lusso negli skyscrapers, preziosi e rappresentativi “oggetti” urbani, sino a quel momento occupati e pensati quasi unicamente come head quarters della grandi Companies.
[6] Il passaggio di secolo registrò un notevole incremento della popolazione inurbata, che crebbe con un trend costante sino al 1910, per poi subire una regressione. Alcuni dati: nel 1880, 1.911.698 abitanti, incremento del +29.3%; nel 1890, 2.507.414 abitanti, incremento del +31.2%; nel 1900, 3.437.202 abitanti, incremento del +37.1%; 1910, 4.766.883 abitanti, incremento del +38.7%; 1920,5.620.048 abitanti, incremento del +17.9%; 1930, 6.930.446 abitanti, incremento del +23.3%; 1940,7.454.995 abitanti, incremento del +7.6%.
[7] «Per la prima volta nella sua vita, Padre Knickerbocker andò sottoterra, ieri; andò sottoterra, lui e i suoi figli, 150.000, tra il suono dei fischietti e i saluti, per una prima corsa in una metropolitana che per anni era stata derisa, perché impossibile». Father Knickerbocker rimanda a un termine poi divenuto parte dello slang locale, utilizzato per designare i newyorkesi come discendenti dei coloni olandesi. Questo termine fu utilizzato da Washington Irving (1783-1859), uno scrittore di successo che, nel 1809, nel suo satirico A History of New-York, from the beginning of the world to the end of the Dutch Dynasty, utilizzò lo pseudonimo di Diedrich Knickerbocker. Con la pubblicazione di quel libro il personaggio olandese chiamato Knickerbocker divenne sinonimo della città rappresentata dall’immagine del Father Knickerbocker con la parrucca, il cappello a tre punte, scarpe con fibbia e pantaloni di lana annodati sotto al ginocchio (noti come Knickerbockers).
[8] «La prima impressione di New York, se si rimanga lì non più di trentasei ore, il mio limite per i venti anni trascorsi, è di repulsione al clangore, disordine, e alle condizioni di terremoto che sembrano permanenti. Ma questa volta, “installato” com’io ero all’Harvard Club (44th Street) al centro del ciclone, ho preso il polso della macchina, ho colto il ritmo e le vibrazioni e l’ho trovato semplicemente magnifico. Mi meraviglio di te, Henry, che non sia stato più entusiasta, ma forse la metropolitana che è superbamente potente e bella, non era stata ancora aperta quando eri lì». «Si tratta di una New York totalmente nuova, nell’anima e nel corpo, rispetto alla vecchia, che retroattivamente si presenta come un villaggio».
[9] J.-M. Floch, Semiotica marketing e comunicazione. Dietro i segni, le strategie, 1992, FrancoAngeli, Milano, (J.-M. Floch, Sémiotique, marketing et communication, 1990, Puf).
[10] Vd. Camminare, di Henry David Thoreau. Il contributo, Walking, talvolta noto come The Wild, è la trascrizione, successivamente rivisitata, di una lecture tenuta al Concord Lyceum il 23 aprile 1851. Lo scritto fu considerato dallo stesso Thoreau come summa del proprio pensiero. Sebbene l’atto del camminare sia posto in diretta connessione con la Natura (che la città dell’Industrial Revolution aveva disarticolato e scisso nel processo di espansione, crescita, dilatazione e di cancellazione della stessa “natura” intorno ad essa), è possibile trasporre il medesimo atto del “camminare”, ponendolo tra le pratiche urbane. Camminare, così come Thoreau ci spiega, è un atto auto-riflessivo; per il trascendentalista si tratta di un’azione spirituale possibile solo se lontani dalla società, ma l’azione del camminare, cogliendo le suggestioni di Thoreau, potrebbe essere vista come una pratica urbana di incontro con l’altro e con il luogo, in tal senso il “camminare urbano” e la strada, come dirà poi Jane Jacobs, sono un’azione e un luogo sociale. La prima pubblicazione di Walking, post mortem dell’Autore, risale al 1862.
[11]«Urbanism as a Way of Life», Louis Wirth, in American Journal of Sociology, Vol. 44, No. 1 (Jul., 1938).
[12] Si rimanda per “comprendere” un luogo tanto complesso come Times Square, al bellissimo libro On the Town: One Hundred Years of Spectacle in Times Square, di Marshall Berman.
[13] Chiamate così le innumerevoli crisi finanziarie ricorrenti che interessarono le fasi economiche statunitensi.
[14] Un esempio emblematico è rappresentato dalle politiche condotte intorno agli anni ’70 da Roger Starr, un planner attivo per lungo tempo a NYC. Attraverso alcune scelte sintetizzate dalla espressione “planned shrinkage”(riduzione programmata), che puntava, in una fase critica per la città (perdita di posti di lavoro, problemi sociali, carenza di servizi), ad abbandonare aree problematiche come il South Bronx, tagliandole fuori anche attraverso l’abolizione di alcuni percorsi della metropolitana. Tali scelte produssero forti reazioni non solo nella base, ma anche in Consiglio Comunale dove alcuni consiglieri reagirono con forza, definendo razziste e disumane le proposte di Starr.
[15] Esempi recenti: l’espansione della Second Avenue Subway; il Fulton Street Transit Center (del 2014); il World Trade Center Transportation Hub di Santiago Calatrava, un’opera di architettura inaugurata nel marzo del 2016, oltre che una stazione di interscambio, detto Oculus per la sua forma, costato circa 4 miliardi di dollari (il doppio della stima iniziale) e costruito in dodici anni; la 7 Subway Extension, interconnessa con la spropositata speculazione immobiliare di Hudson Yards, che fa da testata nord dell’High Line, il recente giardino lineare frutto della riqualificazione del viadotto sopraelevato nel Meat packing District in West Side.
[16] NYC è una città dove esistono fortissime sperequazioni e dove solamente nei rifugi vengono “censiti” più di 60.000 persone senza casa. In questo quadro, che conta molti più homeless di quanti le stime ufficiali possano registrare, la subway diviene spesso luogo di ricovero, soprattutto di inverno e soprattutto in certe linee meno frequentate, per es. la linea E, un anello che conduce al Memorial e alla FreedomTower, edificata accanto alle “impronte” delle Twin Towers del WTC distrutto dall’attentato del 9/11. Gli homeless trascorrono lì sia la notte, utilizzando scatole di cartone aperte come coperta,sia parte del giorno; spesso trascinano con sé carrelli pieni di sacchi della spazzatura dentro cui conservano tutte le proprie cose. Molto spesso questi carrelli sono coperti da teli di plastica che riparano dalla pioggia i pochi oggetti contenuti.
[17] La subway è un luogo dove molti musicisti di strada si esibiscono. Lo “spettacolo” è caratterizzato da performance a volte eccezionali, come quella degli U2 che, il 4 maggio del 2015, hanno suonato “I Still Haven’t Found WhatI’m Looking For”, travestiti da artisti di strada. Al termine del primo brano, manifestando la propria identità, hanno suonato “Desire”, attraendo un gran numero di passanti. Il breve concerto è stato organizzato per una puntata del programma televisivo Tonight Show – condotto da Jimmy Fallon – dedicata agli U2, durante la quale è stato trasmesso il filmato delle due canzoni. L’episodio, che ha un valore trascendente, mostra quanto la subway sia un cardine del territorio urbano, e quanto il termine “underground” abbia un senso concreto e insieme simbolico.
[18] La questione dei “graffiti” nella subway newyorchese è di enorme interesse, e non solo per le opere e per gli artisti coinvolti. Il fenomeno dei graffiti iniziò a manifestarsi a Philadelphia intorno agli anni ’60 dopo la morte di Charlie Parker (12 marzo 1955), chiamato “Bird” o “Yardbird”, ma già dalla metà degli anni ’50 iniziarono a comparire a NYC scritte come “Birdlives”, con un “linguaggio” di rappresentazione controculturale, estremamente espressivo e originale. Tale linguaggio divenne via via più articolato, configurando un palinsesto che aveva e ha un enorme valore di protesta quale parte della “voce” che alcuni abitanti liberavano per dire in modo poetico, efficace, “duro” e intenso quanto fosse impossibile esprime altrimenti. La metropolitana divenne ombelico di tale eloquente rivolta, possibile anche per l’accessibilità e l’interconnessione interna della rete. I graffiti persistettero, malgrado la guerra condotta da alcuni sindaci come John Lindsay, anche per problemi di bilancio della Municipalità che, a causa della limitata capacità di rimozione, non eseguiva le opere di manutenzione dei bracci di transito dove gli stessi graffiti comparivano. Si rimanda a una bellissima e stimolante intervista a Marshall Berman sulla comparsa dei graffiti a New York durante gli anni ’70. Vd. https://www.youtube.com/watch?v=hTYBDzthTYU.
[19] Capitolo di grande interesse del mio lavoro.
[20] Vd. M. Augé, Un etnologo nel metrò, 1992, elèuthera, Milano, (Un ethnologue dans le mètro, 1986, Hachette); M. Augé, Il metrò rivisitato, 2009, Raffaello Cortina Editore, Milano, (Le mètro revisité, 2008, Edition du Seul).
[21] A. Piette, Antropologia dell’esistenza, 2016, Alvisopoli, Venezia, (Anthropologi eexistentiale, 2009, Pétra).
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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