di Nicoletta Malgeri
Lungo la riviera più a sud della Calabria, nota come Costa dei Gelsomini, bagnata per oltre 90 km dalle acque del profondo Mar Ionio, si affaccia un antico borgo medievale: Riace. Il paese, noto in tutto il mondo per il ritrovamento, a 230 metri dalla costa marina, dei due possenti guerrieri, conosciuti come i Bronzi di Riace, è negli ultimi tempi diventato famoso anche per il modello di integrazione sperimentato dal suo sindaco, Domenico Lucano. Lucano è classificato nel 2010 come il terzo miglior sindaco del mondo dal World Mayor Prize [1] ed è inserito nel 2016 dalla prestigiosa rivista americana “Fortune” al quarantesimo posto fra i 50 leader più potenti nel mondo [2].
Riace, come tanti paesi dell’entroterra calabrese a rischio spopolamento, ha conosciuto una progressiva, inesorabile decrescita demografica, perdendo circa un terzo della propria popolazione3. Il numero complessivo degli abitanti è sceso dai 2400 nel 1951 a 1600 negli ultimi anni del secolo scorso. L’abbandono della piccola cittadina riacese si spiega con il mutato quadro economico del Paese. La riduzione del peso dell’agricoltura e la crescita dei posti di lavoro nel settore terziario e dell’industria, hanno comportato l’inevitabile svuotamento delle campagne. Chi ha deciso di allontanarsi dalla calda e calorosa Riace per raggiungere l’America, l’Australia, le grandi città industriali del Nord e i centri costieri, ha pertanto preso una scelta “obbligata”, ineluttabile, dettata unicamente dalla speranza e dal sogno di poter avere una vita migliore [4]. Una scelta sì coraggiosa, ma soprattutto difficile e sofferta. Il non restare genera sempre un grande vuoto nell’animo dell’emigrante. Qualcuno però decide di rimanere. C’è infatti chi si trova nell’impossibilità di poter andare via e c’è chi non riesce a distaccarsi dalla sua terra.
Così una ragazza del paese, Angela, ricorda una Riace silenziosa e, con grande probabilità, destinata a scomparire:
«Quando ero piccola il paese era popolato da tante persone. Avevo tanti amici, a scuola eravamo in tanti, le classi erano piene. Poi verso la mia adolescenza alcune famiglie sono partite per trovare lavoro altrove. Sono andati via anche alcuni miei parenti. Il paese si è quasi spopolato. Sono rimasti anziani e poche persone che come me non si sono mai spostate da qui. Non sono mai andata fuori perché dentro di me pensavo che qualcosa sarebbe cambiato e perché pensavo che se tutti fossimo andati via sarebbe finito tutto. Non uscivo nemmeno più di casa perché non c’erano stimoli, non c’era nulla. Faceva quasi paura vedere quelle case vuote le cui finestre sbattevano per un filo di vento. Sembrava un paese fantasma» [5].
Ma in una notte d’estate del’98 il destino di Riace è cambiato improvvisamente. Un veliero con a bordo 66 uomini, 46 donne e 72 bambini curdi fa una tappa imprevista sulle spiagge del luogo. I soccorsi sono immediati. Uomini e donne si apprestano a portare cibo e indumenti ai profughi. Su quella spiaggia c’è anche Domenico Lucano, meglio conosciuto dai suoi abitanti come Mimì [6]. Il sindaco vede sin da subito in questi primi “nuovi arrivati” dei suoi nuovi concittadini e si muove di conseguenza perché questo suo sogno diventi realtà.
Da quando Domenico Lucano è sindaco il suo comune ha ospitato nel corso di venti anni più di 6000 migranti che hanno, di fatto, ripopolato il paese, dandogli anche una nuova identità: Riace, il paese dell’Accoglienza. Così oggi Riace ha ripreso a crescere demograficamente ed ha raggiunto nel 2017 i 2313 abitanti dai 1793 del 2011 [7]. L’attuale comunità riacese è ricca di storie e culture diverse, pronta a rivendicare e proteggere la sua rinnovata identità.È stato il famoso regista tedesco Wim Wenders, autore del cortometraggio sul paese calabrese, Il volo, presentato in occasione del Festival internazionale del cinema di Berlino 2009, ad aver per primo utilizzato il termine “utopia” in riferimento al sistema di integrazione ideato dal sindaco Lucano [8]. Sarà lo stesso Lucano, alcuni anni dopo, ad utilizzare questo termine per definire la sua nuova Riace:
«La nostra la definisco l’utopia della normalità. Mai troveranno spazio ordinanze contro rom o lavavetri come accaduto altrove. Perché […] il migrante che arriva a Riace ha gli stessi diritti del sindaco. È un microcosmo che declina una Calabria solidale, dove i germi dell’umanità hanno attecchito. E questo è anzitutto un processo culturale che mi piace condividere con tutti» [9].
Per Lucano quel veliero che si è arenato sulla spiaggia di Riace la notte del 1° luglio 1998, con profughi provenienti dal Kurdistan turco, iracheno e siriano, ha rappresentato l’inizio di una storia di amore e di vita [10].
Domenico Lucano confessa:
«L’arrivo degli immigrati è stato un’occasione per invertire un processo che sembrava irreversibile: il declino per i nostri borghi […]. Questi nostri paesi sembravano veri fantasmi: c’è il vuoto, la tristezza, l’abbandono […]. Aprire le case di emigrati per favorire l’entrata di immigrati è una storia che si collega al patrimonio più prezioso delle nostre comunità, disponibili verso i viaggiatori. Un’usanza antica di ospitalità: Prego trasìte» [11].
I cittadini riacesi hanno mostrato fin da subito un sincero e semplice senso di ospitalità nei loro confronti. Un’ospitalità che, in realtà, ha origini remote [12]. Venuti e accolti, e oggi venerati nella piccola Riace sono infatti i due santi patroni del paese, Cosma e Damiano. La leggenda locale racconta che nel lontano III secolo d.C. questi due giovani fratelli, stanchi dal lungo cammino, decidono di far sosta nella località “Castedu” di Riace, oggi sede del santuario. I due santi provengono da Egea, città della Cilicia, nella Turchia asiatica. Nell’incontro di un pastorello intento a badare al suo gregge Cosma e Damiano dicono di essere “venuti per mare, sbarcati sulla costa di Riace”. Per l’occasione della festa che si svolge due volte all’anno, nel mese di maggio e di settembre, giungono nel territorio migliaia di pellegrini, da paesi limitrofi, dalle Serre Calabre e dalle comunità rom, ospitati in un edificio poco fuori il borgo riacese, dove oggi si trova anche il santuario dei due santi patroni, la cosiddetta Casa del Pellegrino. Lucano ricorda:
«Mia madre ospitava i pellegrini a casa e il rapporto con i rom è stato sempre legato a uno scambio. Questo atteggiamento tipico della cultura locale ci ha insegnato che anche negli ‘straccioni’ si può nascondere qualcosa di grande, che Dio si può nascondere nei viaggiatori» [13].
L’arrivo di 184 curdi in quel che oggi sembra un lontano 1998 viene avvertito dal popolo riacese non come una minaccia, bensì come un’occasione di risveglio per la propria terra. I cittadini di Riace incuriositi dai nuovi arrivati si fanno avanti portando quel che possono: acqua, cibo, coperte, vestiti. Riace li accoglie nella Casa del Pellegrino. A settembre arriva la decisione del vescovo di Locri, i curdi devono andarsene. Non tutti però vogliono farlo. Tanti di loro chiedono di restare. Il paese non rimane sordo a queste richieste. Le case abbandonate, quasi pericolanti, degli emigrati diventano infatti da quel momento le case dei nuovi arrivati. Non si forma alcuna tendopoli, alcun ghetto o centro di accoglienza, semplicemente ci si adopera per creare un rapporto di uguaglianza, di rispetto tra gli abitanti e gli immigrati che arrivano. Negli anni successivi nuove persone arriveranno dall’Eritrea, dall’Etiopia, dall’Afghanistan, dall’Egitto, dalla Somalia, etc.
Una giovane donna di Riace, Rosanna, ricorda:
«Io lavoravo come collaboratrice nella gestione della struttura destinata a minori non accompagnati di Città futura. In questa casa io lavoravo affiancata da due collaboratrici e un’interprete. Ci occupavamo della spesa, della cucina dei pasti e della pulizia. Dapprima non facevamo entrare questi minori in cucina. Poi a poco a poco tra di noi si è instaurato un affetto materno; gli facevamo i piatti che gli piacevano, imparavamo da loro a fare delle ricette diverse, cercando di adeguare i nostri cibi ai loro sapori più speziati. I primi giorni alcuni di loro si mettevano a terra a mangiare con le mani, pur se noi preparavamo la tavola con piatti e posate. Per loro vedere un cucchiaio e una forchetta sulla tavola era qualcosa di incredibile. Non sapevano come utilizzarli, a cosa servissero. Col tempo poi hanno imparato. Prima di mangiare si lavavano le mani e si mettevano a pregare. Noi rispettavamo le loro usanze» [14].
Dall’estate 1999 nasce l’associazione “Città futura” [15] con l’intento di trasformare Riace in una città dell’accoglienza. Città futura, dedicata a don Giuseppe Puglisi, alta figura di prete che ha combattuto la mafia in terra siciliana e da questa è stato ucciso, si muove utilizzando le case abbandonate dagli emigrati per offrire ospitalità agli immigrati che arrivano dal mare. Non solo, l’intento di Città futura è recuperare la memoria storica del paese riacese con l’apertura di laboratori di tessitura della ginestra, del lino e di altre fibre, del ricamo, del vetro e della terracotta e rilanciare così l’economia locale. Si recupera anche un frantoio con antiche macine in pietra per fare l’olio extra vergine d’oliva. La comunità riacese riprende a respirare.
Domenico Lucano nel 1999, da consigliere di minoranza, si fa portavoce del progetto proposto da Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà – Uffici Rifugiati di Trieste. Il progetto consisteva nel proporre al ministero la sperimentazione di un sistema nazionale di accoglienza con i piccoli e grandi comuni. Il sindaco del tempo, seppur dopo qualche prima titubanza, accetta di partecipare. Nasce così nel 2001 il Piano nazionale di accoglienza, che diventa un anno dopo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) [16]. I primi immigrati vengono ospitati nelle case recuperate e riqualificate del borgo storico. Diversi cittadini riacesi trovano una nuova dignità sociale e impegno di vita, avviando e tenendo corsi organizzati di lingua italiana per gli stranieri e improvvisandosi quali operatori nelle botteghe artigianali, di ceramica, vetro, tessitura e legno, finalmente riaperte anche in locali primi adibiti ad altro uso. È chiaro lo scopo che si intende raggiungere: ripopolare il borgo aprendosi a nuovi orizzonti.
«Il nostro territorio sta subendo un pericoloso declino demografico, poche nascite e sempre più persone che vanno via. Noi dobbiamo costruire un programma che restituisca dignità al centro storico […]. E a Riace Marina dobbiamo recuperare i nostri spazi che sono legati al rapporto con il mare che è stato compromesso dalle costruzioni» [17].
Domenico Lucano si esprime in questi termini in occasione della prima campagna elettorale che lo porterà a diventare sindaco di Riace il 13 giugno 2004. L’obiettivo per Lucano è affermare una diversa esistenza per un paese a rischio concreto di isolamento. Lucano sente la necessità di trasformare quella nostalgia per un mondo passato e ormai così lontano in energia per un vero e proprio riscatto sociale. “Un’altra Riace è possibile”, “L’Altra Riace alla luce del sole” e “L’Altra Riace” sono le tre liste con cui Domenico Lucano si propone come sindaco del piccolo paese riacese. I cittadini decidono di dare fiducia all’ambizioso progetto politico proposto, ricandidandolo per ben tre volte sindaco. Per Riace questi saranno anni di grandi cambiamenti.
«Dobbiamo avere il coraggio di guardare la realtà e di metterci una mano sulla coscienza per raccogliere la sfida e il messaggio di rabbia dei giovani della Locride che aspirano a una Calabria diversa, nuova, più libera» [18].
Riace però è ancora una terra segnata da un profondo senso di rassegnazione. Il piccolo paese fa parte infatti della Locride, luogo profondamente segnato dal potere della ’ndrangheta. Due intraprendenti religiosi, don Natale Bianchi, professore di religione di Lucano alle scuole superiori, e Giancarlo Maria Bregantini, vescovo della diocesi di Locri dal 1994 al 2007, saranno incisivi nella formazione culturale di Lucano, che, diventato sindaco, decide di intraprendere una dura lotta contro la ‘ndrangheta. Si costituisce per primo parte civile nel processo per l’omicidio di Gianluca Congiusta, giovane imprenditore ucciso dalla ‘ndrangheta il 24 maggio del 2005. Nel 2009 fa tappezzare il borgo antico , in occasione della settimana dei “Colori della memoria”, di sette murales, sotto la direzione artistica di Nik Spatari, artista originario della vicina Mammola. L’intento del primo cittadino è dare memoria all’esempio che i molti morti per mafia hanno lasciato. Di quei giorni Lucano ricorda che «Riace diventa teatro del colore e della memoria» [19]. Ma la sua lotta non si ferma qui. Molte vie di Riace Marina sono prive di un nome. Lucano decide di intitolarle ai morti ammazzati dalla mafia: Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti, Carlo Alberto Dalla Chiesa [20]. Tutto ciò gli consterà molti nemici che urleranno il loro dissenso sparando al vetro della taverna Donna Rosa, al portone dell’associazione Città futura, e avvelenando i due cani del figlio, Roberto.
Ma Lucano, oltre a dare un segnale forte contro la mafia, trasforma il piccolo paese riacese in una realtà multiculturale. Le molte vie della Marina prendono il nome dei paesi di provenienza degli immigrati. Non solo, nel paese appaiono in più punti testimonianze, insegne, cartelli multicolori, di un impatto visivo immediato e coinvolgente, delle più svariate culture: Riace non è più solo paese calabrese, ma paese calabrese multietnico.
Una nuova identità multiculturale è nata ed è sotto gli occhi di tutti. Per gli abitanti del luogo diventa ogni giorno più “normale” utilizzare nel linguaggio quotidiano termini, parole e simboli che indicano la chiara appartenenza identitaria ad una comunità rinnovata. Del resto il sindaco sa che per realizzare un progetto di vera integrazione capace di incidere nello sviluppo locale e far crescere una comunità, occorre puntare ad una vera trasformazione culturale. E per farlo è decisivo l’uso delle parole, dei simboli: la forza evocativa delle parole. Un tratto distintivo che si ritrova anche nelle scelte che possono apparire “minori”, ma che non lo sono affatto. Sulla porta del piccolo e molto modesto ufficio del sindaco c’è un cartello che recita: “I CITTADINI SI RICEVONO SEMPRE”, quasi a voler segnare la differenza con il linguaggio burocratico nel quale si ricorda sempre “Ufficio tal dei tali: i cittadini si ricevono dalle…alle…”. E, al tempo stesso, anche a voler rimarcare la differenza con le altre realtà comunali. A Riace i cittadini non sono ospiti, ma padroni di casa.
La sfida dell’integrazione e del cambiamento culturale deve perciò passare anche attraverso la lingua. A tal proposito si predispone per gli immigrati ospitati in paese un corso di alfabetizzazione della lingua italiana. L’insegnante Emilia ricorda:
«Ho iniziato a lavorare per Città futura in qualità di insegnante nel 2010, seguendo un gruppo di adulti palestinesi. Il corso di alfabetizzazione consisteva nell’apprendimento dei rudimenti della lingua italiana. Le lezioni si tenevano la mattina dal lunedì al venerdì. Per loro era importante conoscere le regole per poter comunicare. Mi sono messa a studiare un po’ di arabo. Era necessario per poter instaurare un dialogo con queste persone. Il fatto che vedevano me maestra studiare la loro lingua serviva a loro da stimolo per imparare la nostra. Con l’emergenza immigrati ho seguito minori non accompagnati che venivano dalla Costa d’Avorio. Non volevano tanto impegnarsi nello studio dell’italiano. Io sono riuscita a trovare però un modo per scuoterli. Dal momento che loro amavano giocare a pallone io mi sono memorizzata tutte le paroline in italiano che avevano a che fare con il calcio. Alla fine questo espediente mi è stato davvero molto utile per insegnargli la lingua. Col passare del tempo questo percorso di alfabetizzazione diventava un confronto fra culture. Se la lezione verteva sui cibi italiani, poi io gli davo modo di raccontare i piatti tipici del loro paese. Noi ci auguravamo che loro si inserissero appieno nella società italiana» [21].
Anche le strutture, il teatro all’aperto, i palazzi recuperati, le botteghe artigianali, sono “visivamente” dei messaggi di integrazione e ancor più di inclusione, di incontro fra culture diverse. Chi vive nel paese così non può che respirare un’aria nuova, diversa, fino a sentirsi parte di una Comunità rinnovata, in cui l’incontro fra diversi è diventato momento “normale” del proprio quotidiano. L’integrazione e lo scambio di esperienze culturali diverse si realizza anche nel lavoro, nelle botteghe artigiane (ceramica, legno, tessitura, vetro), nella mediazione culturale, nel sistema di raccolta dei rifiuti. In tutte queste attività si lavora insieme, operatori del posto sono affiancati da operatori immigrati. La raccolta differenziata gestita da due operatori ecologici, anche qui un riacese e un immigrato, viene effettuata con un asinello, animale tradizionale del luogo che attraversa con facilità gli stretti e, a volte, ripidi vicoli del borgo, e con un carretto che recita la scritta “SIAMO ABITUATI A SPINGERE, NON A RESPINGERE”, a rimarcare ancora una volta la potenza evocativa delle parole e la loro importanza per riaffermare la propria culturale.
Anche l’attività economica quotidiana (vendere, acquistare) assume un elemento identitario. Ben presto Lucano mette a punto uno strumento capace di assicurare ai profughi un potere d’acquisto, nonché la dignità di potersi autogestire. Si tratta per l’appunto di un bonus locale convertibile in euro. Questo esperimento di moneta locale prevede stampate sulle banconote da 1, 2, 5, 10, 20 e 50 euro i volti di chi ha lottato per la libertà dei popoli o delle vittime di mafia: Ernesto Che Guevara, Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Peppino Impastato [22].
Una nuova idea di Comunità
«C’è chi divide il mondo in italiani e stranieri. Io lo divido in privilegiati e fortunati da una parte e in diseredati e oppressi dall’altra» [23].
Queste sono le parole di Domenico Lucano a seguito delle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti che gli vengono mosse dalla Procura della Repubblica di Locri il 2 ottobre scorso. Lucano ha fatto una scelta: rispondere al dovere di preservare diritti umani fondamentali e inviolabili previsti dalla Costituzione italiana. Oggi Lucano non è solo in questa battaglia. Il 6 ottobre tante piazze d’Italia si sono mobilitate per far sentire il loro forte sostegno al sindaco. Le strade di Riace sono state attraversate da un fiume umano. Una appassionata marcia multietnica di oltre quattromila persone ha sfilato per le strade di Riace con striscioni che recavano la scritta “Indagato per solidarietà”, “Complici di Mimmo”, “Riace non si arresta”, fino alla casa del sindaco. I manifestanti gridavano “Mimmo libero” e “Siamo tutti clandestini”. Scritte, voci, suoni, parole, tutto testimoniava la profonda condivisione da parte di giovani, immigrati, persone provenienti da ogni parte d’Italia del progetto di inclusione e cambiamento culturale e sociale animato da Lucano. Testimonianza dell’incontrarsi e del riconoscersi di e in una nuova comunità, con un proprio “idem sentire”, che aveva ormai travalicato i confini del piccolo paese riacese. Un giorno di festa. Festa rabbiosa e dolorosa però. Come testimonia Rosanna:
«Il mondo è arrivato a Riace. Un borgo stava rivivendo e i ragazzi che erano in paese erano motivati a restare in paese. Qualcuno perfino è tornato. A Riace non c’era più disoccupazione. Ognuno si sentiva utile. La gente non si sentiva più sola, vedeva le case aperte, i bambini girare per le strade, mentre prima non c’erano più i fiori alle finestre, non c’erano panni appesi. Quella è la morte del paese. Questa situazione per noi significa rimorire. Ci sentiamo soli» [24].
Sono parole di chi ha vissuto la nuova comunità di Riace come una rivitalizzazione della propria amata terra. Una comunità in cui ogni soggetto si sente responsabile verso l’altro, avvertendo questo atteggiamento come la modalità essenziale dell’incontro con l’altro. Una comunità in cui ciascuno “si sforza di essere normale”. Una normalità che sta nell’avere sensibilità umana verso persone che hanno più necessità di essere aiutate. Una normalità che si ritrova e si manifesta nel creare un’interazione spontanea con chi ti sta vicino e soprattutto nel vedere nell’altro un tuo simile, con i tuoi stessi diritti e doveri.