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Ma come faranno i ladri?

 

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Passaggio potenziale (ph. Licia Taverna)

dialoghi intorno al virus

di Stefano Montes

20 aprile

Qualche giorno fa, in piacevole conversazione telefonica, io e un mio caro amico, Gaetano Sabato, ci siamo scambiati opinioni e punti di vista vari; abbiamo riflettuto sull’enorme massa di pubblicazioni messe in circolo in seguito alla piaga che ci affligge in questo periodo; abbiamo considerato la questione ‘coronavirus’ in termini di vecchia e nuova comunicazione e significazione; abbiamo discusso di tanto e altro ancora, finché, a un certo punto – non so come – siamo arrivati a una domanda che – fra i tanti e terribili guai odierni – potrebbe sembrare di scarsa rilevanza o addirittura fuorviante: ma come faranno i ladri? Nel senso che, i ladri – anche loro, come tutti – devono adattarsi alle restrizioni in corso e, non potendo più circolare liberamente, non possono avere fonti di sostentamento certo. Come faranno, allora, a campare i ladri? Ovviamente, sia io che Gaetano non siamo inclini al furto fortunatamente, ma siamo sicuramente sensibili – se non altro per cercare di capire quali soluzioni sarebbe possibile apportare in termini di giustizia sociale – a tutto quel flusso di sofferta economia sommersa che, nel bene o nel male, caratterizza alcune città italiane e alcune comunità in particolare.

Che intendo dire più esattamente con questo? La criminalità non va giustificata in nessun caso, naturalmente, ma ci sono comunità che sono al limite del lecito o del legittimo e che suscitano comunque problemi d’ordine morale e sociale che varrebbe invece la pena prendere in conto seriamente, non soltanto economicamente (e non soltanto in casi di emergenza come quello odierno). In qualche modo, situarsi tra il lecito e l’illecito – o il legale e l’illegale – significa stare sulla soglia, stare su un vero e proprio margine sociale che può portare a un cambiamento o, nel caso esso persista a oltranza, rivelarsi illusorio e persino ingiustamente fallimentare. È allora necessario chiedersi cosa è giusto e cosa non lo è. È altrettanto necessario capire se non si può parlare, nel caso di alcuni gruppi sociali o comunità, di un uso contestuale della legge o della norma sociale. Stare sul margine o sulla soglia – come direbbe Van Gennep (1981) – è sempre interessante per gli antropologi, sebbene a volte sofferto in pratica per alcuni individui che la esperiscono: sovente configura un passaggio potenziale che trasforma la marginalità di individui e comunità in altro, in un nuovo status, forse migliore, ma non necessariamente e non sempre.

Ciò che sicuramente destabilizza è l’incertezza prolungata e l’azzeramento di prospettiva futura. Si tratta, infatti, di vedere, in ogni singolo caso, se la situazione di margine si risolverà in un miglioramento del proprio status oppure se si trasformerà in un vero e proprio stallo, come – credo – succede in alcuni casi, per alcuni individui e categorie sociali, soprattutto in momenti di emergenza o di affanno istituzionale. Qui, parallelamente, se non addirittura sostanzialmente, il problema è – nel modo in cui lo intendo – d’ordine economico e allo stesso tempo radicalmente esistenziale, oltre che manifestamente normativo. L’intreccio di queste componenti è inestricabile e, da ciò, deriva la sua grande complessità d’analisi. Per di più, quale che sia la loro appartenenza di principio, i marginali non godono di uno statuto epistemologico certo nelle scienze sociali, in quanto costituiscono sovente un aggregato incerto non riconducibile classicamente a una qualche società o comunità ben precisata. Come scrive Declerck a proposito dei senzatetto parigini:

«D’autant plus que les clochards, justement, ne constituent pas une société clairement et distinctement identifiable comme telle. Si société il y a, elle n’existe que par défaut, composée d’instables et ponctuels agrégats d’individus plus ou moins isolés dans le silence ou la vocifération de leurs délires éthyliques» (Declerck 2001).
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Marginalità (ph. Licia Taverna)

Rivolgiamoci qui, come esempio ed esperimento etnografico, a un paio di ‘gruppi sociali’ marginali che mi stanno a cuore, da me presi in conto, in passato, nelle mie ricerche deambulatorie per la città di Palermo: i posteggiatori e i lavavetri. Di fatto, né gli uni né gli altri si vedono più in giro per la mia città. Com’è possibile? Come faranno a vivere senza potere uscire e andare a piazzarsi negli angoli di strada in attesa di auto che arrivino e di vetri da lavare? Nelle mie irrequiete sortite in cerca di pane – un bene giustificatore talvolta delle mie colpevoli, marginalizzate dalle restrizioni, deambulazioni quotidiane – io non vedo più posteggiatori o lavavetri. Non ci sono, sono invisibili perché non sono più per strada, ma continuano a vivere da qualche parte, forse rintanati in una di quelle case affollate che affittano, abitandola in tanti, per risparmiare sul costo: nessuno può circolare liberamente d’altronde, e nemmeno loro possono farlo. Tra l’altro, dopo il primo stupore iniziale, io stesso mi sono abituato, giorno dopo giorno, a vedere una città quasi vuota, priva delle solite persone per strada. Perché meravigliarsi, allora, che non ci siano più posteggiatori abusivi o lavavetri? Perché chiamare in causa una categoria di persone che sembra essere sparita dalla circolazione e dalla vista degli altri cittadini? Perché parlarne se nessuno, nelle comunicazioni ufficiali in televisione o altrove, se ne preoccupa? Non abbiamo già abbastanza guai, noi italiani, per occuparci di individui che non hanno un lavoro legittimamente ottenuto tramite concorso? La legge varrebbe per tutti, si potrebbe ribadire, e loro sfuggono in qualche modo alla norma regolatrice. Alle mie e altrui stranezze d’ordine urbano ci si abitua dopotutto: soprattutto alla lunga, come ci prospettano gli eventi critici in Italia e nel mondo intero.

Il fatto è che l’invisibilità o l’assenza non equivalgono alla soluzione del problema e la legge non viene spesso commisurata – nell’applicazione, in egual modo – ai suoi effetti per tutti i gruppi sociali, nelle differenti gerarchie. A gruppi sociali diversi, ricezioni e usi diversi! Ci sono tanti e diversi modi di esperire e usare la legalità, così come ci sono tanti e diversi modi di dare significato alla legge, soprattutto se questa viene vissuta nella routine giornaliera, nel racconto che ne fanno alcuni utenti e cittadini appartenenti a comunità particolarmente sul margine e al margine. Come affermano Ewick e Silbey, nonostante vi siano schemi generali – all’interno dei quali s’inquadrano le varie narrazioni relative alla legalità dei diversi attori da loro interrogati sulla questione – «as storytellers […] people adapted, elaborated, and sometimes transformed those common narratives of law. They combined elements of different schemas with scraps of their own biographies to forge distinctive accounts of events and relationships» (Ewick, Silbey 1998: 247). Spesso, e questo si può dire che vale pure per posteggiatori e lavavetri, i marginali vivono in uno stato di incertezza quotidiana, in una sorta di ristretta sacca di sospensione che evidenzia quanto grande sia lo scarto tra l’ideale e l’effettivo del lecito (e della legalità). Sia i posteggiatori sia i lavavetri ‘esercitano un mestiere’ che non ha nessuna garanzia salariale, al limite della legalità. Inoltre, sia gli uni che gli altri sono spesso invisi agli altri cittadini perché, a torto o a ragione, disturbano il flusso regolare di attività di passanti e autisti, chiedendo dei soldi in cambio di un servizio offerto ma non sempre richiesto. È un ‘lavoro’ senza garanzie e, per di più, antipatico da compiere in concreto.

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Perché meravigliarsi? (ph. Licia Taverna)

Per quel che può contare, la modesta somma che io do, di tanto in tanto, a lavavetri e posteggiatori, la considero un’offerta. Quando vado di fretta, lo ammetto: sono anch’io, come tanti altri, infastidito e non dovrei. Mi chiedo, tuttavia, più in generale: cosa è regolare e cosa non lo è? Cosa è lecito e cosa non lo è? Quali cause sono all’origine del problema – di questo e di altri ancora – che noi tendiamo a trascurare o a lasciare correre nella routine quotidiana? E mi chiedo se il ‘loro arrangiarsi’ non diventi, in alcuni casi, l’unica fonte di sostentamento per alcuni individui a cui nessuno presta attenzione o riserva una qualche solidarietà? Come si instaura, in definitiva, un principio valido di solidarietà, da applicare in contesti più generali? La questione può essere criticamente inquadrata proprio a partire dalla mia stessa esperienza e modalità di racconto: il mio ‘atto caritatevole’ nei confronti di parcheggiatori e lavavetri. Io ne parlo infatti in termini di dono e non di vero e proprio servizio resomi, eppure potrei dire che, in alcuni casi, lo è: in tutti quei casi in cui il vetro dell’auto è molto sporco in estate, con lo scirocco, per la polvere. Oppure in tutti quei casi in cui, se vado di fretta, ho bisogno di un posteggiatore che mi tenga d’occhio l’auto per qualche minuto e al quale consegno le chiavi per spostarla in caso di necessità. Ma non sempre è così: non sempre vado di fretta, non sempre ho bisogno di un servizio che mi viene comunque offerto con insistenza.

Ciò che conta, comunque, è che si oscilla – io e tanti altri da me interrogati sulla questione – tra il servizio reso e l’obolo offerto. Da parte dei posteggiatori e lavavetri, invece, il loro viene considerato un lavoro a tutti gli effetti, per quanto precario e instabile. Un senzatetto, con il quale chiacchiero di tanto in tanto, mi ha persino detto, una volta, che lui offriva un servizio psicologico a tutti gli effetti: perché i passanti che gli facevano dono di qualche monetina, poi si mettevano a raccontargli tutti i loro guai e lui li aiutava facendoli parlare, interagendo e alleggerendo la loro tensione interiore. Insomma, si metteva in atto, tra loro, una sorta di do ut des d’ordine pratico e amichevole, ma pur sempre profittevole, a dire del senzatetto, per il passante-cliente. Si potrebbe obiettare che il senzatetto di cui parlo non fa altro che chiacchierare con un passante che lo degna di attenzione; secondo il senzatetto, invece, viene offerto un servizio che è equiparabile a un costo. Non è per niente facile, allora, a conti fatti, capire cosa è dono e cosa è servizio in qualche modo remunerato. Non è per niente facile capire a chi, se parliamo di solidarietà, riservarla. Chi la ‘merita’ effettivamente? Ed è qualcosa che si ‘merita’ in genere o è una condizione dettata da una posizione gerarchica relativa alla società in cui si vive e della quale bisogna tenere conto? Tanto per incominciare i destinatari del dono dovrebbero essere visibili e accettati dalla società. È il primo passo. E non sempre è questo il caso, soprattutto nei momenti in cui l’attenzione mediatica viene attirata da altre emergenze come è il caso adesso. L’altro punto riguarda il dono e il valore da assegnargli.

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Dimensioni spaziotemporali (ph. Licia Taverna)

Il dono è talvolta inteso essere una forma di riparazione o compensazione sociale da parte di quella società del profitto che lo considera una sorta di azione caritatevole nei confronti dei meno abbienti. Ma, anche in questo caso, implicitamente o esplicitamente, cristiana o socialista che sia, s’impone una scelta di un certo tipo. Chi sono i destinatari dei nostri doni e delle nostre scelte morali? Il ventaglio è ampio: i bambini africani afflitti dalle malattie, i poveracci italiani che stentano a campare, i migranti che sfuggono alle guerre? Io direi: tutti indistintamente. Poi, come sappiamo, si fanno delle selezioni su base ideologica, o altro, che determinano queste scelte. Non voglio aprire, qui, su larga scala, un capitolo affascinante e complesso – il dono è un tema al quale è consacrata una letteratura imponente – che riguarda quello che dovrebbe essere, nella mia prospettiva, lo smussamento di categorie concepite in termini sovente troppo oppositivi, troppo marcati e isolati gli uni dagli altri: il profitto (il calcolo) e il dono (la generosità), la norma sociale (in teoria) e il suo uso (in pratica), la produzione (di un messaggio) e la sua ricezione (disambiguazione interpretativa). L’uno e l’altro polo si mescolano, per lo più, nelle nostre società e modi di vedere, ed è difficile scinderli nettamente anche in base, talvolta, a quello che è il nostro vissuto individuale e temporale. Com’è noto, la critica di Derrida verteva proprio sull’effetto di circolarità – prodotto e riprodotto nel tempo – che Mauss attribuiva al dono: dare, attendere di essere ricambiato, ricevere e ricambiare a sua volta, pur nel differimento (ho intenzionalmente trasposto il dare-ricevere-ricambiare maussiano nei termini più consoni a Derrida per evidenziare il ruolo svolto dal tempo). Per esserlo effettivamente, nei termini di Derrida, un dono dovrebbe essere dissociato dal calcolo e dalla circolarità temporale. Il gesto teorico di Derrida è radicale:

«Benché tutte le antropologie, o le metafisiche del dono, abbiano, a giusto titolo e con ragione, trattato insieme, come un sistema, il dono e il debito, il dono e il ciclo della restituzione, il dono e il prestito, il dono e il credito, il dono e il contro-dono, noi ci separiamo qui, in modo brusco e deciso, da questa tradizione. Cioè dalla tradizione stessa. Assumeremo come punto di partenza nella dissociazione l’accecante evidenza di quest’altro assioma: non c’è dono, se ce n’è, che in ciò che interrompe il sistema o il simbolo stesso, in una partizione senza ritorno e senza ripartizione, senza l’essere-con-sé del dono/contro-dono» (Derrida 1996: 15).

Naturalmente, a difesa del lavoro di Mauss, si potrebbe dire che contano, nel dono, tutti quegli aspetti emotivi e cognitivi che sono solitamente tralasciati nello scambio basato sul profitto. L’intento di Mauss era inoltre più ampio di quello relativo a una semplice opposizione tra dono e profitto e teneva conto anche di alcuni aspetti solitamente tralasciati dai critici. Mauss sembrerebbe, infatti, indicarlo nelle conclusioni del suo noto saggio:

«È inutile cercare molto lontano quale sia il bene e la felicità. Essi risiedono nella imposizione della pace, nel ritmo ordinato del lavoro, volta a volta comune o individuale, nella ricchezza accumulata e poi ridistribuita, nel rispetto e nella generosità reciproca che l’educazione insegna» (Mauss 1965: 291-292).
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Un punto di vista (ph. Licia Taverna)

È opportuno ribadire, inoltre, a ulteriore difesa di Mauss, che l’atto conta nel dono – quasi – quanto il dono stesso. Resta il fatto che il vissuto esperienziale, che sia individuale o collettivo, si traduce spesso in vero e proprio linguaggio variegato – persino in linguaggio tecnico, sociologico, politico o altro – che orienta i nostri stessi processi cognitivi ed emotivi, producendo adesioni o resistenze diverse, a volte incommensurabili consapevolmente – soprattutto dal punto di vista della ricezione – in brevi lassi di tempo. Conferma ne è proprio l’orientamento di Derrida sul dono (e il costrutto di un certo tipo di ricezione) fondato sull’intersecarsi del metalinguaggio (la separazione dalla tradizione) e sui diversi linguaggi oggetto discussi (l’introduzione di Lévi-Strauss a Mauss, il racconto di Baudelaire, etc.). Ma ciò vale per tutti i livelli e registri del discorso. Da quello colto e filosofico a quello, in apparenza, più grezzo e diretto, ricorre l’elemento seguente: il linguaggio è messo in opera allo scopo di ottenere un riconoscimento da parte del destinatario e non soltanto per descrivere il mondo in sé, de-soggettivato e non connotato (Montes 2020).

In questi e altri casi, mi piace ricordare ciò che scriveva un noto antropologo del linguaggio, esperto di nativi americani: «Ogni linguaggio e ogni sottolinguaggio tecnico ben congegnato ingloba certi punti di vista e certe resistenze strutturate a punti di vista notevolmente differenti» (Whorf 1970: 206). È come dire, in buona sostanza, che ci si affronta a colpi di linguaggio al cui fondo soggiacciono punti di vista spesso molto divergenti. In questo senso, uno dei fini dell’antropologo (del linguaggio) sarebbe proprio quello di smontare i vari linguaggi al fine di mostrare il partito preso dei punti di vista: proprio perché il posizionamento singolo e collettivo deriva dai linguaggi di cui ci serviamo e di cui, forse, non sempre siamo ben consapevoli. Talvolta, invece, si è così consapevoli dell’incastro di linguaggi e punti di vista che essi si usano con intenzione, strumentalmente, per fini apertamente retorici. A maggior ragione, un buon lavoro antropologico consisterebbe nel prendere in conto i possibili effetti persuasivi impliciti nella costituzione del linguaggio e nell’uso specifico volto a ottenere effetti conativi. E tutto ciò vale sia per un senzatetto che rende un servizio psicologico ai passanti sia per il duello argomentativo sul dono ingaggiato da Derrida con Mauss. Più che essere strumento referenziale, il linguaggio tende a costruire (e decostruire) la realtà, per botte e risposte retoriche, e a impostare temi di ridotta e ampia portata sulla base di posizionamenti individuali e collettivi. Il rapporto tra linguaggi e testi è, anch’esso, importante e pertinente in riferimento al potere che si produce in qualsiasi forma d’interazione sociale:

«i testi fissati una volta per tutte infatti sono all’origine di un potere maggiore rispetto a quello prodotto da testi dipendenti da un contesto, a causa dei modi in cui riproducono culturalmente e ideologicamente le stesse idee in modo immutabile nel tempo» (Philips 2001: 273).

Comunque stiano le cose a proposito di marginalità e di dono, forse la domanda di partenza – come ricorda Kleinman in un bel libro in cui si prendono come esempio alcune storie di vita particolari (Kleinman 2006) – è la seguente: che cosa conta veramente? Non è una domanda alla quale, ovviamente, si può rispondere in modo lapidario, dall’alto di una conoscenza che si impone sulle altre. Non è il mio fine, non è la mia prospettiva. La tengo, semmai, questa domanda, come sfondo rispetto a ciò che scrivo qui e lascio, a ognuno, la possibilità di rispondere in base alla propria storia di vita. Come scrive Bourdieu, in uno noto testo collettivo dedicato alle periferie parigine: «L’intervento dell’analista è tanto difficile quanto necessario: deve dichiararsi senza la minima dissimulazione e, al tempo stesso, deve lavorare senza sosta per farsi dimenticare» (Bourdieu 2015: 38). Non so fino a che punto mi faccio dimenticare, qui, in questo scritto; sicuramente voglio lasciare traccia relativa alla sintassi dei miei diversi – sovente impliciti – posizionamenti al fine di includere anche me stesso nella mia osservazione e nella sua conseguente testualizzazione: poiché, «in una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss 1950: XXXI). Non soltanto l’osservatore è parte della sua osservazione, l’osservatore è anche un traduttore di linguaggi – da una cultura all’altra, da una comunità all’altra – e un autore di testi che convertono, su carta o altri media, processi di soggettivazione e di oggettivazione colti nei loro esiti sincronici.

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Farsi dimenticare (ph. Licia Taverna)

Teoria ed esigenze concrete andrebbero, dunque, sempre coniugate criticamente; produzione di un sapere e ricezione andrebbero tenute insieme, così come andrebbero associati l’inquadramento culturale e la focalizzazione sull’individuo al fine di smontarne l’eventuale occultamento di processi. Più lievemente, dunque, ma sulla stessa tonalità emotiva da me adottata, racconterò adesso un aneddoto etnografico attinente che ha a che fare con i posteggiatori e che è parte di un lavoro più ampio ancora in corso d’opera. Esiste, dunque, lo ribadisco, nella mia scelta di procedere in questo modo, una ragione d’ordine pratico-teorico e di riposizionamento prospettico. Come scrive Bruner, le «etnografie sono orientate da un’implicita struttura narrativa, da una storia che noi raccontiamo sulle persone che studiamo» (Bruner 1986: 139). Mi piace dunque pensare che questo mio scritto sia – più che una riflessione fondata su alcuni concetti presi come riferimento, eventualmente da ‘appiccicare’, dall’alto, a una situazione in corso di sviluppo – una breve etnografia che imposta un discorso dal basso, dando rilievo alla narrazione su me stesso e sulle persone incontrate e con cui ho parlato più recentemente e in passato. Breve o lunga che sia, un’etnografia contiene più di quel che vuol dire o rendere noto il suo autore. E ciò consente, nel bene e nel male, all’autore stesso di disancorarsi dal suo stesso posizionamento implicitamente adottato nei confronti di un argomento teorico o di una questione pratica. Spero che sia il caso anche di questo breve lavoro e, con ciò, che si dia il caso e la declinazione del problema ancora più palesemente. Se non altro perché, se «la relazione d’inchiesta si distingue dalla maggior parte degli scambi dell’esistenza ordinaria per il fatto di avere scopi di pura conoscenza, essa resta in ogni caso una relazione sociale» (Bourdieu 2015: 808).

Ecco dunque i fatti e le argomentazioni. Una volta, come altre in passato, sono andato a fare la spesa in un antico mercato palermitano. Era davvero una brutta giornata. Pioveva a dirotto. Poche persone in giro. Ognuno al riparo, individualmente, sotto il proprio ombrello. Anch’io lo ero. Ho fatto la spesa con piacere, a dispetto della pioggia. Nonostante tutto, infatti, a me piace la pioggia. Mi sento avvolto in una piacevole sensazione liquida che mi ricorda il mare e, paradossalmente, il fatto che, prima o dopo, l’estate arriverà. Finita la spesa, ho scambiato due parole con il solito posteggiatore che, ormai, conosco da anni, e al quale ho detto: “anche oggi qui, con questa brutta giornata?”. Lui mi ha risposto: “per me, questo è lavoro, non è divertimento, e se non vengo qui, ogni giorno, non posso tirare a campare”. La risposta mi è rimasta in mente per tanto tempo e ha prodotto una sedimentazione nelle domande poste e connesse. Ci si può infatti chiedere: cosa è lavoro? Cosa è divertimento? Quali sono vere le differenze tra l’uno e l’altro? Innanzitutto, ‘lavoro’ – nella terminologia del mio posteggiatore – può essere considerato ciò che è anche precario: basato sul ricavo di un solo giorno che, se manca, mette tuttavia in dubbio il vivere quotidiano.

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Relazioni sociali (ph. Licia Taverna)

La questione ha ricadute anche su me stesso e ciò che io sono, il modo in cui vivo. Come? Fortunatamente, io non vivo nella precarietà dei mezzi di sussistenza giornaliera, ma posso – come molti, credo – pormi il problema direttamente e capire inoltre quanto grave esso sia per chi lo vive in prima persona: tirare a campare. Tirare a campare – come scrive Jack London – può essere una scelta di vita che si oppone allo sfrenato consumismo e a un certo tipo di società che, anche artisticamente, si rifiuta. Vale la pena ricordarlo nelle belle parole di London:

«trovo scritto che fu per studiare sociologia che diventai un vagabondo. Questo è un pensiero molto gentile da parte dei biografi, ma non è esatto. Io diventai un vagabondo – be’, a causa del tipo di vita che era dentro di me, della smania di andare in giro che avevo nel sangue e non mi dava pace. La sociologia fu puramente incidentale; venne dopo, così come è dopo un tuffo che ci si bagna. Me ne andai per la ‘Strada’ perché non riuscivo a starne lontano; perché non avevo nei jeans abbastanza soldi per pagarmi i viaggi in treno; perché ero fatto in modo tale che non ce la facevo a lavorare tutta la vita sempre allo stesso turno» (London 1976: 3).

Questa particolare visione, riguardante la scelta volontaria della marginalità come forma di vita, è più rara e inaspettata. Se, come succede più comunemente, non si tratta di una scelta e non ci sono altre possibilità, allora si pone un grosso problema: perché, di fatto, bisogna affrontare il quotidiano nella continua precarietà, senza nemmeno quella adesione ideologica allo stile di vita che si vorrebbe (come è invece il caso per Jack London e per altri hobos del periodo). Nel breve scambio che ho avuto con il posteggiatore, l’altro punto che mi ha fatto riflettere riguarda il divertimento. E non è questione da poco. Il divertimento ha, anch’esso, uno spessore esistenziale e antropologico di grande complessità. Tutti quanti, suppongo, sappiamo e vogliamo divertirci. Il fatto è che è difficile definire il divertimento in modo coerente. E non è nemmeno facile separare il divertimento dal lavoro in modo netto, una volta per tutte.

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Improvvisamente (ph. Licia Taverna)

Mi sono spesso, in passato, improvvisato lavavetri per sapere – vivere – sulla mia pelle cosa fosse, più esattamente, questo ‘lavoro’. E quando qualche amico antropologo mi ha chiesto quale fosse, più concretamente, la mia esperienza, senza rendermene conto, ho a volte risposto: “è stato divertente”. In realtà, non è per niente divertente stare sotto i raggi infuocati del sole da mattina a sera, in piedi, con i dolori alla gambe, sorridendo a persone che, al volante, non ne vogliono sapere di farsi pulire il vetro dell’auto. Perché, allora, a conti fatti, ho detto che era divertente senza pensarci più di tanto? Semplicemente, perché era una breve parentesi nella mia vita e sapevo bene che, quando avrei voluto, sarei potuto tornare alla mia vita di persona con stipendio fisso.

Potere scegliere cosa fare, nella vita, è importante. Il lavoro si può trasformare in divertimento e viceversa, purché si possa scegliere. Ovviamente, soprattutto per un antropologo, il divertimento ha a che vedere con l’orientamento culturale che, di per sé, può pure cambiare nel tempo ed essere soggetto ai processi di globalizzazione che stiamo vivendo, sempre più, oggigiorno. In un noto testo, Disneyland e altri nonluoghi, Augé, si interroga sul fascino che esercitano quei luoghi sugli utenti e – io direi – sul tipo di divertimento che possono loro offrire. La risposta, nella narrazione etnografica, arriva all’autore improvvisamente:

«Improvvisamente, credetti di capire. Credetti di capire quel che c’era di seducente nell’insieme di quello spettacolo, il segreto del fascino che esercitava su quanti vi si lasciavano prendere, l’effetto di realtà, di surrealtà che produceva quel luogo di tutte le finzioni. Noi viviamo in un’epoca che mette in scena la storia, che ne fa uno spettacolo e, in questo senso, derealizza la realtà […] A Disneyland è lo spettacolo stesso che viene spettacolarizzato» (Augé 1999: 24).

I rapporti tra realtà e finzione sono complicati, sempre più, in quest’era di mobilità imponente, dal fatto che le cose reali si intrecciano, spesso fittamente e finemente, con quelle di finzione. Belli o brutti che siano, i rapporti tra realtà e finzione sono complicati, inoltre, dal fatto che, in quest’era di globalizzazione galoppante, non soltanto si muovono persone che vogliono viaggiare per piacere ma, anche, persone che vogliono sfuggire alle guerre, persone sovente costrette a vivere altrove rispetto al loro luogo di nascita. Insieme a questa enorme mobilità umana, voluta e non voluta, sofferta o goduriosa, si muovono anche strane entità invisibili che ci condizionano in genere e che ci stanno condizionando molto ultimamente: i virus.

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Al di qua e al di là (ph. Licia Taverna)

Un’antropologia moderna deve tenere conto del fatto che viviamo in un mondo non solo pensato per umani, ma per tutte le specie in genere che, per di più, intessono rapporti talvolta contrattuali, talaltra polemici, tra loro. Un’antropologia moderna deve prendere in conto – oltre tutto ciò – anche i virus: queste entità invisibili che entrano ormai, con forza, nel gioco di interazioni tra le diverse specie nel mondo. Come ricorda Keck, non si tratta di improvvisarsi medici o cercare di «conoscere i meccanismi che determinano le traiettorie dei virus dell’influenza, ma di comprendere le reazioni delle singole società al momento del loro apparire» (Keck 2010: 11). Detto ciò, rimane il fatto che i poveri e gli emarginati di prima sono – adesso, nell’emergenza – sempre più poveri ed emarginati. In sostanza, si ripropone la domanda d’inizio: come faranno i posteggiatori e i lavavetri? Come faranno, senza più la possibilità di arrangiarsi e tirare a campare? Come faranno, di più, tutti gli emarginati? E, perché no, come faranno i ladri? Per quanto ladri, quindi da biasimare e condannare, sono anch’essi parte di un sistema mondiale in parte basato sul profitto e sulle furberie concesse ai potenti e punite se vengono da parte dei poveri.

Al di là della contingenza che stiamo vivendo (e che spero, personalmente, supereremo al più presto), credo inoltre che sia necessario cercare di rispondere a queste domande relative alla vita delle persone in difficoltà anche per fare un tipo di antropologia meno legata a un concetto astratto e omogeneo di cultura in cui gli individui sono spesso assenti nella loro singolarità. Insomma, deve cambiare sia la prospettiva dell’antropologia sia la volontà di integrare vecchi e nuovi oggetti/soggetti di studio. La marginalità e la disuguaglianza dovrebbero essere cardini di un’antropologia più moderna, sganciata da quelle obsolete formulazioni, troppo intellettualistiche o eccessivamente formalizzate, che annullavano, in passato, la visibilità materiale – oserei direi, in carne e ossa – dell’individuo. Recentemente, Fassin ha difeso questa posizione in un suo modo specifico che tiene conto di molti fattori e che, necessariamente, ne trascura altri per ragioni d’impegno personale o per scelte d’impostazione. Nel suo studio, Fassin confessa di avere messo a fuoco sulle vite ineguali tralasciando il lato estetico, le questioni relative al consumismo e agli scenari futuri, così come quelle riguardanti il puro piano metafisico, perché era soprattutto interessato alla vita psichica e alla presenza fisica degli individui. Era motivato da una necessità teorica e pratica quanto etica e politica. Ma il punto più importante, anche metodologicamente, è secondo me il seguente:

«Non è questione di isolare le vite degli esiliati, degli oppressi, degli sfruttati, degli umiliati e degli offesi, a rischio di proporne una lettura commiserante, ma d’inquadrarle in rapporti sociali la cui iniquità fondamentale sta proprio in una gerarchia delle vite implicitamente stabilita o esplicitamente ammessa: è tale gerarchia a permettere di sminuire, stigmatizzare e brutalizzare queste vite mentre se ne favoriscono altre […] è proprio questa distribuzione ineguale delle conseguenze a permettere la produzione e la riproduzione di simili tratti generici» (Fassin 2019: 168).
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Posizione (ph. Licia Taverna)

Facendo riferimento a Bourdieu, per sintetizzare, si può dire che conta non solo la condizione degli individui ma anche la loro posizione nella scala gerarchica: condizione e posizione vanno viste insieme per una più efficace analisi della questione. Ciò vale, ritengo, anche per l’emergenza in corso. La questione che risalta agli occhi dalla diffusione di questo virus è che, sebbene possa colpire tutti senza distinzione alcuna dal punto di vista biologico, in realtà, ha effetti devastanti proprio sui marginali e vulnerabili del mondo. Abbiamo tutti il diritto di salvarci, ma, di fatto, possono farlo – ci riescono – meglio coloro i quali hanno maggiori mezzi economici, risorse e potere dalla loro parte. Forse, nell’emergenza, un essere umano vale quanto possiede? È così? Mi piacerebbe dire di no, anche se ciò che succede nel mondo sembrerebbe mostrare il contrario. Il virus non ha cambiato di molto le cose a mio parere. Per esempio, prima dell’emergenza, coloro i quali avevano i mezzi potevano viaggiare da un Paese all’altro, mentre i poveri erano sottoposti al vincolo imposto dalle frontiere; prima dell’emergenza, in alcuni Paesi, gli abbienti potevano curarsi meglio, mentre i poveracci potevano soltanto soffrire e lasciarsi andare alla miseria.

Insomma, l’irruzione del virus su scala mondiale acuisce – credo – un problema già esistente: la disuguaglianza e la vulnerabilità di alcuni – i poveri, gli esiliati e gli oppressi – rispetto ad altri, i potenti e i ricchi del mondo. Da ottimista, tuttavia, voglio continuare a sperare che il prezzo pagato in termini di vite umane possa, in futuro, fare riflettere e trasformare le coscienze. Lo spero vivamente. Rimarrebbe, qui, un punto da discutere più apertamente: il mio approccio teorico al tema e la considerazione metodologica riguardante soprattutto le nozioni di soglia e margine. Ho lasciato passare queste nozioni in modo quasi indolore, inavvertito, pur sapendo che hanno anch’esse un orientamento culturale e un affondo epistemologico. Come ricorda Jullien, la soglia è comparabile, nella lingua e cultura cinese, a un ‘tra’ che «si dispiega come l’attraverso che lascia passare» (Jullien 2016: 179). Nel sottofondo del mio discorso regna una disposizione, d’ordine pratico e teorico, prossima a quella presa in conto da Jullien per la cultura cinese. Non dico di più.

Scrivendo, ho già accennato al fatto che, in questa occasione, ho disseminato il mio testo di contrappunti teorico-pratici che mi riservo di prendere in conto pienamente – secondo gradi di maggiore linearità isotopica – in un prossimo contributo: se non altro perché la mia intenzione era, visto la serietà dell’argomento, di costruire (come sottolineano alcuni studiosi della comunicazione) un testo aperto e ricettivo. Detto ciò, la «dialettica tra apertura e chiusura è, credo, una dimensione importante dell’esperienza umana che è di certo degna di riflessione antropologica» (Crapanzano 2007: 11). Ne riparliamo: sarà l’occasione per un’altra apertura e una nuova riflessione su questa importante dialettica intessuta, già fin da adesso, benché più clandestinamente, all’interno del mio scritto. La clandestinità non è forse, anch’essa, una forma di marginalità? Me lo chiedo.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.

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