Ci sono romanzi che trascendono il concetto stesso di trama e conferiscono uno spessore tutto particolare alle vicende narrate, così come ai personaggi che risultano ammantati di una profondità fuori dal comune. Kate Manning prende spunto dalla biografia di Ann Trow Lohman, una levatrice che ha vissuto e operato a New York durante la seconda metà del secolo diciannovesimo, e riesce a dare vita ad un racconto superbo di grande compenetrazione.
L’autrice ha scritto e prodotto diversi documentari con cui ha vinto due Emmy Awards e un Edward R. Murrow Award. Attualmente collabora con diverse riviste fra cui il New York Times, il Los Angeles Times Book Review, Glamour ed altri quotidiani. In una intervista di tre anni fa che si trova sul web, Kate Manning spiega come l’idea di questo romanzo (Una levatrice a New York, Beat Edizioni, Milano 2014) nasca da un interesse rispetto alle storie di povertà ed immigrazione che l’hanno portata ad approfondire la situazione di circa 30 mila bambini senza tetto, tra il 1850 e il 1860, nelle strade di New York. La prima parte dell’opera, infatti, illustra attraverso le vicende della protagonista l’attività di un movimento in particolare – l’Orphan Train – che all’epoca spostò 250 mila bambini orfani dalla città sino agli Stati occidentali dell’Illinois, Ohio e Iowa. Fra questi, appunto, la figura di Ann Lohman che ha dato spunto alla costruzione di un personaggio senza eguali: quello di Axie Muldoon, all’altare Mrs Jones.
Oggi siamo abituati ad avere una visione edulcorata del concetto di maternità, perché essa stessa è diventata un traguardo cui molte donne non possono tendere per motivi che trascendono la loro volontà e che sono strettamente legati a un ruolo nuovo che la donna svolge attivamente all’interno dell’apparato sociale. Le donne cui Mrs Jones – alias Madame DeBeausacq – presta soccorso, invece, risultano vittime della loro stessa fisiologia: condannate a svolgere un ruolo strettamente riproduttivo, trascorrono la propria esistenza nel terrore di non sopravvivere al prossimo travaglio, mentre l’assenza di qualsiasi contraccettivo, la scarsa igiene e preparazione medica contribuiscono ad accorciare sensibilmente le loro aspettative di vita.
In questo scenario di frustrante desolazione, la levatrice di New York si presenta in veste duplice: come ostetrica al momento del parto e come abile chirurga nel procurare aborti controllati alle madri disperate che a lei si rivolgono durante le primissime settimane dal concepimento. Nel descrivere l’ostacolo morale che ella deve aggirare, ci parla di “complessità”, una parola pesante come il macigno di disperazione che è chiamata a sostenere ogni qual volta sia costretta a scegliere il male minore. Non per questo il concetto di amore materno viene svilito: Mrs Jones si definisce «nata per essere madre» e orienterà l’intera sua vita allo scopo di riunire la propria famiglia, smembrata crudelmente dalla malattia e dalla povertà.
Sin dall’inizio la protagonista manifesta un carattere schietto e pragmatico; unico elemento svilente e per questo emblematico nella rappresentazione di un essere umano che altrimenti parrebbe artefatto, l’attaccamento al denaro e alle ricchezze accumulate grazie allo svolgimento di un ruolo senza pari per l’epoca. Tuttavia l’autrice riesce a non farci storcere il naso perché giustifica abilmente l’atteggiamento della donna, come reazione a un passato di estrema povertà, al terrore di trovarsi nuovamente abbandonata e a un innato senso di rivalsa. Non ho avuto la tentazione di ricondurre la sua abnegazione a un mero interesse economico, perché la Manning mi ha trascinata in un vortice empatico da cui mi è stato difficile uscire, come donna e come madre.
Di recente mi è capitato di passare davanti al Policlinico di Milano che ha allestito uno spazio – Una culla per la vita – dedicato alle mamme impossibilitate a prendersi cura dei propri neonati, allo scopo di disincentivare i numerosi abbandoni che purtroppo rappre- sentano ancora la regola nei contesti di estrema povertà. Si tratta di una culla termica appartata: premendo un pulsante si apre, in modo da potere sistemare il bambino e premendone un altro, invece, si richiude dando il tempo alla mamma di allontanarsi, prima di fare scattare l’allarme in ospedale affinché il personale venga a prendersi cura del piccolo. Tempo fa ero rimasta colpita da una notizia che si riferiva al caso di un bimbo straniero ritrovato sereno insieme a un pacco di pannolini, del latte in polvere e una tutina pulita. Accanto a lui il libretto delle vaccinazioni compilato con cura e il suo nome.
Ancora adesso non riesco ad evitare di commuovermi soffermandomi sulla sofferenza che una donna qualunque, probabilmente costretta a chiedere l’elemosina per strada, proveniente da una terra verosimilmente in tumulto, debba avere provato a lasciare il proprio cuore dentro la culla di un ospedale. Non siamo quindi troppo lontani da una realtà che a torto consideriamo superata mentre – allora come adesso – moltissime madri sono costrette a scegliere fra la propria disperazione e il bene di un figlio che non è necessariamente ancora nato.
Questo romanzo rappresenta un manifesto di libertà a sostegno dei diritti delle donne e della loro capacità di autodeterminazione in relazione al proprio corpo. Se consideriamo il contesto storico e la legislazione totalmente ostile alle esigenze di una qualsiasi donna, ci troviamo davanti a una realtà in cui gli uomini guardavano con diffidenza mista a odio e preoccupazione l’abilità di un medico capace di sostenere e guarire le proprie compagne, unicamente con la forza della propria determinazione. All’apice del proprio riconoscimento professionale Mrs Jones fa costruire dal marito un piccolo studio adiacente alla propria abitazione, la cui targa recita “Medico donna”, destabilizzante nella sua semplicità per la convinzione diffusa della subordinazione femminile agli uomini, soprattutto rispetto al loro intelletto.
Dopo avere letto queste pagine, guardo con occhi molto diversi il mio stesso essere madre e mi rendo conto, ancora una volta, di essere sfuggita a tale oscurantismo unicamente per volere del fato che mi ha collocata entro i confini di una realtà sociale favorevole. Altrove, invece, prolificano notizie di cronaca legate a ripetuti atti di violenza e prevaricazione nei confronti delle donne. Ho letto di mogli, fidanzate, compagne, persino figlie, massacrate a colpi di pietra, strangolate e gettate nel fondo gelido di un lago, bruciate, torturate, perseguitate, e non si trattava certo di un romanzo.
Sono venuta a conoscenza della terribile solitudine che può celarsi dietro la maternità, o del senso di inadeguatezza e impreparazione nel ricoprire il ruolo di genitore che troppo spesso finisce per sfociare in tragedia. Siamo abituati a metabolizzare eventi grotteschi, quali l’uccisione di neonati appena partoriti dalle loro stesse madri, lasciati ad agonizzare nei bidoni dei rifiuti, al freddo e nella disperazione inconsapevole. Poi ci dedichiamo ad aprire pagine e gruppi sui social dedicati alla maternità, nei toni edulcorati dell’apparenza e della condivisa tenerezza: azzurro per i maschietti, rosa per le femminucce. Pance dipinte, cinte da fiocchi e osannate nel bailamme mediatico.
Oggi disponiamo di tutti gli strumenti per evitare che certe situazioni raggiungano l’esasperazione, eppure la storia si ripete in un ciclo senza fine perché non siamo disposti a metterci di fronte alla nostra finitezza, o nei panni di chi ha un vissuto diverso e percezioni discordanti rispetto al nostro concetto di moralità e di amore familiare. Mi chiedo come possiamo continuare a vivere le nostre vite di genitori fortunati sapendo che a due passi dalle nostre case uomini e donne disperati affidano la vita dei propri figli al mare, optando per il “male minore” nel tentativo di garantire quel meglio che è la missione di ogni genitore.
Ritengo forse a torto che al giorno d’oggi ci sia una eccessiva attenzione alla necessità, a quanto pare impellente, di vivere la maternità a livello individuale. Sono rimasta sconcertata da un video pubblicitario che in questo periodo gira in rete: promuove una clinica ucraina per la riproduzione assistita attraverso l’utilizzo, eventualmente, anche di madri surrogate. Nell’intento di convincere il pubblico vengono presentati tre pacchetti a partire da 29.900,00 euro che comprendono, oltre alle cure mediche, accurati test per individuare eventuali malattie genetiche del nascituro e alloggi lussuosi per i neo genitori. Viene inoltre prestata accurata garanzia riguardo le caratteristiche della madre surrogata che viene scelta per prestanza fisica e intellettuale, in modo da assicurare al neonato le «giuste opportunità per muovere i primi passi nel mondo». E no, non si trattava di un’opera di fantapolitica in cui tornano in auge tendenze selettive della razza.
Mi piacerebbe sapere cosa avrebbe pensato di tutto questo Mrs Jones, potendo gettare uno sguardo sul futuro delle madri. Si legga questo libro chi non teme di mettere in discussione le proprie convinzioni e ha il coraggio di affrontare a viso aperto la magnificenza del sentimento materno, consapevole dell’abisso cui esso è capace di precipitare.
Dialoghi Mediterranei, n. 28, novembre 2017
_______________________________________________________________
Deborah Lo Re, nata a Palermo, ha conseguito la laurea in Scienze giuridiche presso l’Università degli Studi di Palermo. Sposata, con due figli, vive in provincia di Varese, ama la letteratura e pratica la scrittura creativa. È autrice di diversi racconti.
________________________________________________________________