di Giovanni Canova
Il 16 settembre di quarantadue anni fa ebbe luogo il massacro di Sabra e Chatila, nel quale i falangisti libanesi con la complicità israeliana trucidarono migliaia di Palestinesi, uomini, donne, bambini. Pochi anni prima, nel 1970, avevo avuto occasione di visitare quei campi profughi con i responsabili dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, come pure i campi gestiti dall’UNRWA alla periferia di Amman.
Avevo così potuto toccare con mano la sofferenza di un popolo umiliato dalla nakbah, il “disastro”, l’esodo forzato durante la guerra del 1948. L’incontro con poeti e artisti aveva arricchito questa esperienza e permesso la raccolta di prezioso materiale sulla Resistenza. In seguito, altri poeti e scrittori hanno raccolto il testimone e portato avanti il messaggio in patria e nella diaspora palestinese, continuando l’opera dei loro predecessori. Tanto che la letteratura palestinese è diventata assieme al teatro e al cinema una delle espressioni più vitali e significative della cultura araba contemporanea.
Erano quelli tempi di guerra e di rivolta. Solo tre anni prima, nel 1967, la guerra dei Sei giorni aveva insanguinato il Vicino Oriente. Poco dopo la mia visita ad Amman ebbe luogo il massacro di palestinesi in Giordania tristemente noto come il “Settembre nero”.
La storia palestinese è costellata di tragici ricordi e anniversari di umiliazioni e di stragi efferate. Altre tristi vicende avrebbero sconvolto la regione: scontri, attentati, omicidi, esodi forzati, vita grama nei campi profughi, invocazioni al dio della guerra e della vendetta… Mai tuttavia era stato raggiunto un livello di disumanizzazione del popolo palestinese quali i tragici avvenimenti oggi testimoniano nella Striscia di Gaza (Ghazzah) e in Cisgiordania, durante la “vendetta” israeliana seguita all’efferata operazione di Hamas il 7 ottobre dello scorso anno.
È passato più di mezzo secolo dalla mia visita a Sabra e Shatila. Rileggere le poesie e il materiale letterario allora raccolto, oggetto nei primi anni Settanta di alcuni articoli in riviste accademiche, mi ha spinto a presentarne una selezione nel volume La poesia della resistenza palestinese (Venezia, Centro Internazionale della Grafica, 2024), in una edizione finalizzata alla raccolta fondi per istituzioni umanitarie palestinesi. Il capitolo dedicato al poeta Mahmud Darwish viene qui riproposto quale contributo di testimonianza per i Dialoghi Mediterranei. Sono riprodotte, per il loro valore grafico, le copertine originali dei singoli divani poetici.
Ma cosa significa poesia della Resistenza? Scriveva Mahmud Darwish nel 1968:
«La poesia della Resistenza è l’espressione dei fatti che hanno segnato la nostra storia. Questa poesia è cominciata manifestando il dolore per l’oppressione subita, per passare alla protesta, alla collera, al rifiuto. Perché questa poesia possa svolgere la propria azione deve agire per cambiare la situazione, deve armarsi di una visione rivoluzionaria intrisa di contenuto sociale. Così si trova a essere una poesia popolare. La poesia della Resistenza è per sua natura rivoluzionaria. L’universo di questa poesia è il popolo intero e le sue vicende. Cancella la personalità artistica dei singoli poeti, mentre appaiono nella loro poesia la decisione positiva, il discorso diretto, il messaggio vibrante. Vengono alla luce le radici politiche».
La poesia palestinese è stata oggetto di vivo interesse e di attenta ricerca nel mondo culturale arabo. Due sembrano i motivi che hanno particolarmente contribuito alla sua rapida affermazione: il suo intrinseco valore letterario e il suo impegno politico. Nel 1948 la popolazione araba all’interno del nuovo Stato di Israele presentava una struttura sociale radicalmente mutata rispetto a quella esistente prima della I guerra arabo-israeliana: la grande maggioranza dei Palestinesi rimasti era costituita da abitanti delle campagne, poiché i cittadini, in preda al panico, avevano trovato rifugio nei limitrofi Paesi arabi. Questa poesia conobbe un particolare sviluppo dopo la guerra del giugno 1967, nell’accresciuta sensibilizzazione verso il dramma umano del popolo palestinese.
In una prima fase la poesia palestinese è stata espressione della disperazione, della santificazione della libertà, dell’onore ai martiri e del pianto dei profughi, delle privazioni, del dolore per la separazione dai propri cari. Descrive l’angoscia della prigionia, del bando; evoca la distruzione delle case, fa il confronto amaro col tempo passato. Per Mahmud Darwish i poeti sono in questo periodo «uccelli senz’ali», rivoluzionari alla ricerca di un modo d’espressione per i loro sentimenti di rivolta. Manifestano il loro amore per le rivoluzioni del mondo, si affezionano alla lotta degli Algerini e dei Cubani, introducono timidamente come simboli la croce, l’ulivo, quasi a voler materializzare la sofferenza e lo spirito della terra… Non hanno ancora superato la traumatica esperienza della disfatta del 1948, la nakbah.
In una seconda fase il poeta percepisce il senso della sua esistenza e della sua missione, rifiuta di sottomettersi alle lusinghe e alle minacce, si rivolge direttamente agli Israeliani in un dialogo simbolico ed accusatore, non accetta la politica del fatto compiuto. È in questo periodo che nasce e si sviluppa la lotta di guerriglia. Comincia una repressione feroce da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i poeti palestinesi per il potenziale rivoluzionario che essi rappresentano.
Mahmud Darwish (1941-2008)
Mahmud Darwish nacque nel villaggio di al-Birwah, in Galilea, nel 1941. Allo scoppiare della guerra del 1948 riparò con la famiglia in Libano, dove visse per due anni in un campo profughi. Infine il ritorno:
«Mi si disse una sera: “stanotte torneremo in Palestina”. Marciammo nell’oscurità sui monti per decine di chilometri… io e un mio zio, mentre un uomo esperto dei sentieri di montagna ci faceva da guida… Al mattino la delusione: questa non era la Palestina quale avevo immaginato… Non ritornai più alla mia casa e al mio villaggio: era stato distrutto e sopra vi avevano arato… Il mio nome ora era “un profugo palestinese in Palestina”! Ero tornato un’altra volta all’esilio, all’UNRWA, all’inseguimento della polizia poiché noi non avevamo carta d’identità israeliana… Ci eravamo introdotti abusivamente!».
La scuola israeliana lo disgustò: «Scoprimmo che essi ci insegnavano Theodor Herzl più che Maometto; la poesia di Bialik ben più di quella di al-Mutanabbi; lo studio della Torah era obbligatorio; quanto al Corano, semplicemente non esisteva…».
Cominciò a leggere poesie e imparò a conoscere i poeti dell’emigrazione e ‘Ali Mahmud Taha. Fece i suoi primi tentativi poetici e nel 1960 uscì la sua prima raccolta ‘Asafir bila ajnihah («Uccelli senz’ali», ‘Akka, 1960); lo schema è ancora tradizionale e i metri sono quelli classici. Alla lettura di raccolte poetiche si affiancò quella di opere storiche e politiche.
Nel 1961 fu imprigionato, per “motivi di sicurezza” per due mesi. Entrò nel Partito Comunista Israeliano e divenne redattore politico di al-Ittihad. Nel 1964 pubblicò la sua seconda raccolta Awraq al-zaytun («Le foglie degli ulivi», Haifa, 1964, con prefazione di Hanna Abu Hanna), con cui ebbe veramente inizio la sua opera poetica. Dalla fase del dolore e dell’accusa egli passa a quella della collera e della sfida, il suo idealismo matura in una più consapevole presa di posizione politica. Gli schemi formali sono spezzati, i versi si riducono all’essenziale, talvolta a una sola parola; non c’è patetismo o desiderio di compianto, né pretesa di aiuto nel nome effimero dell’arabismo.
Le sue ferme posizioni lo portarono in prigione una seconda volta nel 1965, e fu nel carcere che compose la sua terza raccolta ‘Ashiq min Filastin («Un innamorato dalla Palestina», Nazareth 1966). La figura femminile di questa lunga poesia svanisce nei suoi particolari nella terra. Tutta la sua bellezza si riassume in una sola parola: “Palestina” Con quest’opera cominciò a svilupparsi il simbolismo di Darwish, per arrivare a maturazione nelle raccolte successive.
Nel 1967 venne nuovamente imprigionato con molti suoi compagni, poiché il Governo israeliano temeva nei giorni della guerra una insurrezione interna. Quando uscì rimase per qualche mese paralizzato dal ritmo vertiginoso dei fatti che avevano sconvolto e umiliato la nazione araba. Non osò più scrivere. Solo dopo alcuni mesi, in una sensazione di calma apparente, compose la sua quarta raccolta Akhir al-layl («La fine della notte», ‘Akka, 1967), che fu in verità accolta con indifferenza o aperta ostilità per il suo simbolismo. Questo era tuttavia da mettere in relazione con uno stato d’animo particolare e temporaneo, quello stordimento intellettuale che «la guerra dei sei giorni» provocò in tutti i palestinesi. Forse il poeta volle temperare e dare una dimensione più sfumata e accettabile alla realtà, per riacquistare la volontà di vivere e di lottare in un momento in cui tutto sembrava dover essere annientato per sempre. Dopo la guerra gli fu imposto il soggiorno obbligato a Haifa, con l’obbligo di presentarsi ogni giorno alla locale centrale di polizia:
«Molti miei amici si sono addolorati per le persecuzioni che mi vengono inflitte. Le prigionie e gli ordini di confino che limitano la mia libertà nella mia patria sono diventati parte della mia vita quotidiana. Mi volgo a tutto questo con disprezzo, quasi con cinismo. Non sono teso. Me ne sto seduto ogni sera nella mia stanza e mi fa piacere essere legato al sole, dal momento che sono costretto a essere nella mia stanza dopo il tramonto.
Mi è stato reso un onore che non avevo mai sognato, quando hanno trasformato il mio orario secondo il sole… Leggo libri, ascolto musica, ricevo amici e aspetto i poliziotti. Mi presento ogni giorno alla polizia con un sorriso serio, non sempre cinico. Guardo tutto questo da un punto di vista poetico. Hanno diviso le ventiquattro ore del giorno tra loro e me: la notte è loro, il giorno è mio… Mi è proibito uscire di notte. Essi vagano nella notte…».
Il suo incontro con Fadwa Tuqan gli ispirò una lunga poesia, Yawmiyyat jurh filastini («Diario di una ferita palestinese») che riassume i temi e le forme delle sue opere precedenti. Cominciò in questo periodo – lo stesso accadde per Samih alQasim – la tendenza alle lunghe poesie, in cui ogni discorso tende a divenire globale e a raccogliere tutte le sfaccettature di un problema in una immagine completa. Nel 1969 uscì la sesta raccolta poetica di Darwish, Habibati tanhad min nawmiha («La mia amata si desta dal sonno», Beirut, 1969) nella quale appare la consapevolezza del lungo cammino che l’attuale generazione palestinese dovrà percorrere per la costruzione di un avvenire di libertà. È un tono di speranza e di fiducia quello che vi traspare, anche se non per l’immediato futuro.
La croce, i chiodi, il sangue, le spine acquistano tutto il loro simbolico significato. La settima raccolta di Darwish, Kitabah ‘ala daw’ bunduqiyyah («Scrivere alla luce di un fucile», 1970) ci presenta la sua ulteriore produzione poetica. Nella poesia, quasi in forma di novella in versi che dà il titolo alla raccolta, Darwish traccia un quadro vivace della società israeliana, con i suoi miti e i suoi slogan, visto da una ragazza israeliana, Shulamìt, che forse simboleggia il breve idillio fra gli intellettuali palestinesi e la sinistra israeliana.
Nel 1970 venne imprigionato una quarta volta, per quindici giorni, assieme ad alcune decine di “comunisti”. Fu liberato il giorno dopo le elezioni politiche…. Il 9 febbraio 1971 la radio egiziana annunciò che Mahmud Darwish era improvvisamente giunto al Cairo proveniente dall’Unione Sovietica, dove si era recato per studi e per ricevere un premio letterario (conferitogli poi in forma ufficiale a Nuova Delhi). L’11 febbraio dichiarò in una conferenza stampa che intendeva continuare la sua lotta dal Cairo, città che aveva scelto come nuova residenza. Aggiunse che si sentiva amareggiato per aver lasciato la Palestina. Il Partito Raqah cui apparteneva lo espulse, ricordando come l’abbandono della patria non fosse mai giustificabile. L’intellettuale israeliano Yosi Amitai, che aveva lavorato con Darwish all’epoca del gruppo editoriale al-Fajr, così commentò la notizia:
«Le sue proteste vennero soffocate con ogni mezzo su comando della censura, la sua libertà fu severamente ristretta… I servizi di sicurezza resero la sua vita miserabile ed ogni cosa fu tentata per indurlo ad andarsene… Credo che Darwish sia stato costretto a lasciare Israele e me ne dolgo con tutto il cuore. Lo avrei voluto interlocutore nel dialogo di cui entrambi abbiamo bisogno… Io, la gente come me e l’intera società israeliana perdiamo in questa vicenda molto più di quello che perde Darwish. Ci sono in Israele molti giovani arabi come Darwish, la cui esistenza è monito e sfida. Abbiamo la forza e il desiderio di incontrarli? ».
Carta d’identità [1]
Registra!
Io sono arabo
il numero della mia carta è 50.000
figli otto
il nono … verrà dopo l’estate!
Sei indignato?
Registra!
Sono arabo,
lavoro con i compagni di fatica in una cava di pietra.
I miei bambini sono otto.
Estraggo per essi la pagnotta,
i vestiti e il quaderno
dalla pietra…
Non chiedo elemosine alla tua porta
né mi umilio davanti al lastricato della tua soglia.
Sei indignato?
Registra!
Sono arabo,
sono solo un nome senza titoli.
Sono pieno di pazienza in un paese in cui tutto
vive nello scatto dell’ira…
Le mie radici…
si fissarono qui prima del nascere del tempo,
prima dello schiudersi dei secoli,
prima dei cipressi e degli ulivi,
… prima del crescere dell’erba.
Mio padre è della famiglia dell’aratro
non di nobili signori.
Mio nonno era un fellah
senza nobiltà né lignaggio!
La mia casa è la baracca di un guardiano,
fatta di rami e di canne.
Ti soddisfa forse il mio rango?
Sono solo un nome senza titoli.
Registra!
Sono arabo.
Colore dei capelli: neri.
Colore degli occhi: marrone.
Segni particolari:
sul mio capo c’è ‘iqal e kufiyyah.
Le palme delle mie mani sono dure come la roccia.
Graffiano chi osa toccarle.
Il cibo che preferisco è l’olio e il timo.
Il mio indirizzo:
un villaggio indifeso… dimenticato.
Le sue strade non hanno nome.
Tutti i suoi uomini sono al campo e alla cava di pietra.
Amano il Comunismo.
Sei indignato?
Registra!
Sono un arabo.
Hai rubato le vigne dei miei avi
e la terra che coltivavamo
io e tutti i miei figli.
Non hai lasciato per noi e per tutti i miei discendenti
che queste pietre…
Si prenderà forse anch’esse
il vostro governo, come si va dicendo?
Allora registra!
A capo della prima pagina:
— Io non odio la gente
— né mi scaglio contro alcuno,
— ma se avrò fame
— mangerò la carne del mio oppressore!
— Sta in guardia! Guardati dalla mia fame
— e dalla mia collera!
Un innamorato dalla Palestina [2]
I tuoi occhi sono una spina nel cuore.
Mi fanno soffrire… ma li adoro
e li proteggo dal vento.
Li riparo al di là della notte e delle sofferenze…
La loro ferita accende la luce delle lampade
e il loro domani rende il mio presente
più caro a me dell’anima mia.
Dimentico, in un attimo, nell’incontro dei nostri occhi,
che una volta eravamo dietro la porta in due!
Le tue parole erano una melodia.
Cercavo di cantarla
ma la pena aveva chiuso il labbro primaverile.
Le tue parole erano come la rondine che volò via dalla mia casa,
abbandonò la porta della nostra dimora, e la soglia autunnale,
dietro di te… per andare dove volle il desiderio…
Si spezzarono le nostre immagini.
La tristezza si moltiplicò mille volte.
Raccogliemmo i frammenti della voce…
Non conoscevamo che l’elegia per la Patria!
La pianteremo assieme in mezzo a una chitarra
e sopra i tetti della nostra disgrazia: là suoneremo
per lune deformi… e per pietre!
Ma ho dimenticato… Ho dimenticato o voce sconosciuta:
Fu la tua partenza a far arrugginire la chitarra…
o il mio silenzio?
Ti ho vista ieri al porto
che partivi senza parenti… senza provviste per il viaggio.
Corsi da te come corrono gli orfani…
Chiedo alla sapienza degli avi:
«Come può la verde piantagione esser trascinata
in prigione, in esilio, in un porto
e rimanere malgrado il suo viaggio,
malgrado i venti salati e le passioni, rimanere sempre verde ?»
Scrivo nel mio diario:
Mi piacciono le arance… Il porto mi disgusta.
E aggiungo:
Mi fermai al porto. La terra aveva l’aspetto dell’inverno.
Avevamo solo bucce d’arancia. Dietro di noi c’era il deserto!
Ti ho vista nei monti delle spine
pastorella senza gregge
cacciata via, e fra i ruderi…
Eri il mio giardino, mentre ora sono straniero
nella mia stessa casa!
Busso alla porta, o cuore mio!
Sul mio cuore… si elevano la porta, la finestra, il cemento e le pietre!
Ti ho vista nelle giare d’acqua e nel frumento
stritolata. Ti ho vista nei caffè della notte che servivi,
ti ho vista nello spandersi delle lacrime e nella ferita…
Tu sei l’altro polmone nel mio petto…
Tu, tu sei la voce sulle mie labbra…
Sei l’acqua, il fuoco!
Ti ho vista all’ingresso della caverna, presso la grotta
mentre appendevi sul filo del bucato le vesti dei tuoi orfani.
Ti ho vista nei focolari, nelle strade,
nelle stalle, nel sangue del sole…
Ti ho vista nei canti degli orfani e dei miseri.
Ti ho vista piena di sale marino e di sabbia,
eri bella come la terra, come i fanciulli, come il gelsomino.
Giuro:
— Con le ciglia dell’occhio cucirò un velo
— e sopra ricamerò una poesia dedicata ai tuoi occhi
— e un nome che, quando abbevererò con esso un cuore dissolto
in una melodia,
— si estenderà come le frasche della macchia…
— Scriverò una frase più preziosa dei martiri e dei baci:
— Sei palestinese… e lo rimarrai!!
Ho aperto la porta e la finestra nella notte dell’uragano
verso una luna immobile nelle nostre nottate.
Ho detto alla mia notte: scorri!
Al di là della notte e del muro
ho un patto con le parole e la luce.
Tu sei il mio giardino vergine
finché i nostri canti continuano
a esser spade quando li sguainiamo.
Tu sei fedele come il grano
finché i nostri canti continuano
a esser concime quando li seminiamo.
Sei salda nella mente come una palma
che non si spezzò per una tempesta e un taglialegna.
Non riuscirono a recidere le sue radici
le fiere dei deserti e delle selve…
Ma io sono esiliato dietro il muro e la porta.
Prendimi sotto il tuo sguardo,
prendimi, dovunque tu sia,
prendimi, comunque tu sia.
Mi sia restituito il colore del viso e il corpo,
la luce del cuore e degli occhi,
il sole del pane e la melodia,
il cibo della terra… e la Patria!
Prendimi sotto il tuo sguardo…
Prendimi qual tavola di mandorlo nella capanna delle afflizioni.
Prendimi qual segno del corso della mia tragedia.
Prendimi come un gioco… come una pietra della casa,
affinché la nostra futura generazione ricordi
il cammino che porta alla dimora!
Palestinese per gli occhi e il tatuaggio,
palestinese per il nome,
palestinese per i sogni e le preoccupazioni,
palestinese per il velo, i piedi e il corpo,
palestinese per le parole e il silenzio,
palestinese per la voce,
palestinese per la nascita e la morte.
Ti ho portata nei miei vecchi quaderni
qual fuoco delle mie poesie.
Ti ho portata come provvista nei miei viaggi.
Nel tuo nome ho gridato nelle valli:
«I cavalli dei bizantini… li riconosco
anche se è cambiato il campo di battaglia!
State in guardia dal fulmine
che il mio canto ha scagliato sulle pietre!
Io sono l’ornamento della giovinezza, il cavaliere dei cavalieri!
Io sono il demolitore degli idoli!
Ho seminato i confini della Siria
di poesie che mettono in libertà le aquile!»
Nel tuo nome ho gridato ai nemici:
— Mangiate la mia carne quando dormo, vermi?
— Le uova delle formiche non generano aquile…
— e l’uovo delle serpi,
— il suo guscio nasconde il serpente!
I cavalli dei bizantini…
Li riconosco!
E so che prima di essi io,
io sono l’ornamento della giovinezza, il cavaliere dei cavalieri!
La vecchia ferita [3]
Sto sotto le finestre.
Sto sulla strada.
I gradini della scala abbandonata non conoscono i miei passi,
no, neppure la finestra li conosce.
Davanti alla palma inseguivo una nube…
Una mosca cade nella mia gola
e passano sui rottami della mia umanità
il sole e i passi delle tempeste.
Sto sotto le finestre vetuste.
Davanti a me fuggono un passero e i fiori di un giardino.
Chiedimi: quanto tempo della vita deve trascorrere
affinché si incontrino, si incontrino in un attimo,
tutto questo colore e la morte?
Attraverso una volta d’incenso,
di pepe, dalla voce del rame.
Davanti a me fugge un passero,
nel mio occhio il silenzio sostituisce il dire la verità!
Quando si alzerà il vento sulla mia pelle
e il sole cesserà di cuocere l’assopimento
chiamerò ogni cosa col suo nome.
Allora acquisterò una chiave e una nuova finestra
con le canzoni dell’ardore!
— O cuore! Ti furono proibiti il sole del giorno
i fiori e la festa, basta!
Ci insegnarono a custodire l’amore nell’avversione!
A velare la rugiada della rosa… con polvere!
O voce che vibra nella mia carne
come uccello di fiamma,
ci insegnarono a cantare, ad amare
tutta l’erba che spunta nel campo,
tutte le formiche, e ciò che lascia l’estate
sui ruderi di una casa.
Ci insegnarono a cantare, a celare
il nostro amore selvaggio, affinché non diventi noioso il canto dell’amore.
Quando si alzerà il vento sulla mia pelle
chiamerò ogni cosa con il suo nome
e colpirò con la mia catena la tristezza e la notte,
o mie vecchie finestre…
Reazione [4]
Patria mia! Il ferro delle mie catene mi ha insegnato
ad avere la crudeltà dell’aquila e la mitezza dell’ottimista.
Non sapevo che sotto la nostra pelle
potessero nascere tempeste… e nozze di ruscelli.
Mi tapparono la luce in una cella,
brillò nel mio cuore un sole di fiaccole.
Scrissero sui muri il numero
della mia tessera,
crebbe… un prato di spighe.
Disegnarono sui muri l’immagine
del mio uccisore, ombre di trecce cancellarono i suoi tratti.
Incisi coi denti il tuo ritratto insanguinato, scrissi la canzone della tenebra che si dilegua,
affondai la mia disfatta nella carne dell’oscurità,
conficcai nella chioma della luce le mie dita.
I conquistatori sul tetto delle mie case
non conquisteranno che le promesse dei miei terremoti!
Non vedranno altro che il brillare della mia fronte.
Non udranno altro che il cigolio delle mie catene.
Se sarò bruciato sulla croce della mia devozione
diverrò un santo…
in tenuta da combattente!
La mia amata si desta dal sonno [5]
La mia infanzia prende, nella sua mano,
ornamento da ogni cosa…
Eppure non… cresce col vento che il ricordo.
Se potesse contare le nuvole che si ammassarono
sul quadro dell’immagine languida,
sarebbe una settimana di orgoglio
e ogni anno prima sarebbe dimenticato,
e preso dal vaso della notte… il giorno
in cui feci scendere su ogni porta,
arrendendomi al mondo inquieto, le mie dita unte:
non gettate le briciole del mio giorno per la lunga via!
La carta dell’espulsione nel mio pugno è qual nera oliva
e questa Patria è una ghigliottina di cui venero la lama.
Se mi sgozzerete il tempo non dirà:
«vi ho visto!»
L’Ente del Soccorso (UNRWA) non interrogherà
sulla data della mia morte,
ne la foresta muterà i suoi olivi
e gli anni perderanno il loro autunno!
La mia infanzia prende, nella sua mano,
ornamento da ogni giorno…
eppure non cresce col vento altro che il ricordo…
Rammento la mia immagine
all’inizio dei giorni, quando la sua fronte
era rivestita del fulmine.
Ma comprimo il ricordo,
poiché la sera comprime il cuore alla sua porta…
Le mie dita, tutte le offersi
a raggi che si diffondono nel suo sonno,
ma quando la mia amata uscirà dal sogno…
Conosco la strada del giorno e la percorrerò.
— Ogni donna dal linguaggio puro
è la mia amata…
Quando giunge la primavera
la rosa è esiliata sul suo petto
da ogni aiuola, sognando il ritorno…
Continuo a diffondermi sul suo corpo
come il profumo della terra, che non svanisce.
— Ogni donna dal linguaggio insanguinato
è la mia amata…
Le sue lune stanno in cielo
e la rosa brucia sul suo petto
nella brama della morte, poiché di sera
c’è un passerotto nella casacca dei conquistatori.
Continuo a restare nella sua mente un assente
che si presenta a lei a ogni morte e a ogni istante…
— Ogni donna dal linguaggio assopito
è la mia amata…
Sogna che il giorno,
sul marciapiede della notte che termina,
beva l’ombra della notte, il naufragio,
l’onore del soldato e dell’adultera.
Sogna che il falso demone
del nostro sonno sia una menzogna effimera,
che la nostra cella non abbia mura
e che il sogno sia fango e fuoco.
— Ogni donna dal linguaggio diffuso
è la mia amata…
Ispezionai le sorgenti in cerca di lei
e non la trovai.
Non ho trovato nell’albero il suo verde…
Frugai le prigioni
e non vi trovai che le briciole della luna.
Frugai nella mia pelle
senza trovare il suo polso.
Non la trovai nel rumore della quiete
e neppure nei linguaggi dell’umanità.
[...]
I tuoi occhi, o mio idolo, sono un esilio.
Esiliai in essi i miei sogni e le mie feste, quando ci incontrammo.
Chi comprerà la storia dei miei avi?
Chi comprerà il fuoco delle ferite che fonde le mie catene?
Chi comprerà l’amore che è fra noi?
Chi comprerà il nostro prossimo appuntamento?
Chi comprerà la mia voce e la mia immagine?
Chi comprerà la storia dei miei avi,
per un giorno di libertà?…
— Mio idolo! Cosa dice l’eco
cosa dice il vento della valle?
— Sii buono.
— Sii luminoso come la morte
e siì degno dell’ala che porta i miei figli…
Qual è il colore dei suoi occhi?
Dice la sera:
— verde tranquillo su un autunno cupo… come il canto.
La strizzata d’occhio è la chiave
di ciò che vuole udire il cuore”
I nostri canti erano un’alterna contesa
sul muro del fuoco e della bufera.
— Ci incontrammo forse da tutte le parti?
— Eravamo piccoli. L’appassimento era il nostro signore.
— Siamo forse l’erba dei campi?
— Siamo due facce contro il passato?
— Il sole beveva la nostra rugiada
mentre noi non lasciavamo il suo pugno.
— Come riconoscere la Croce
che ci portava,
nella piazza della luce?
Non parlammo.
Non conoscevamo che le parole dei chiodi!
I tuoi occhi, o mio idolo, sono un ritorno
dalla nostra morte smarrita sotto l’assedio.
È come se ti avessi incontrata questa sera
per la prima volta…
Non è tra noi due che un inizio.
Il fiume di sangue
sembra una madre che lava i suoi piccoli.
La mia leggenda fa cadere dal mio pugno
una roccia che graffia il viso della morte.
Il giglio disseccato sulla mia fronte
ben conosce l’aria di casa…
— Chi danzerà questa notte nella festa?
I nostri futuri fanciulli.
— Chi ricorderà allo smemorato?
I nostri futuri fanciulli.
— Chi intreccerà i dolori
qual corona di rose sulla fronte del tempo?
I nostri futuri fanciulli.
— Chi porrà lo zucchero nei colori?
I nostri futuri fanciulli.
E noi, o mio idolo, quale parte
prendiamo nella gioia della festa?
Moriamo contenti
alla luce della musica dei nostri futuri fanciulli!
Scrivere alla luce di un fucile [6]
Shulamìt attese il compagno all’ingresso del bar.
Dall’altro lato passavano gli innamorati
e sorridevano le stelle di un cinema.
Mille manifesti dicevano:
— Non usciremo dalla carta geografica degli avi!
— Non lasceremo una sola spanna di terra ai profughi!
Shulamìt si riflesse sull’orologio del muro per venti minuti.
Attese in piedi il suo compagno all’ingresso del bar,
ma non giunse.
Ieri nella sua lettera aveva detto:
— Ho ottenuto o Shulà una decorazione e una licenza.
— Riserva il nostro posto di una volta al bar.
— Sono assetato, o Shulà, di un bicchiere e di un labbro…
— Ho rinunciato alla morte che mi avrebbe fatto ereditare la gloria
— per strisciare come un fanciullo sulla sabbia
— e per ballare nel bar…
Dall’altro lato passavano gli amici,
avevano conosciuto Shulà alla spiaggia di ‘Akka,
due anni prima.
Mangiavano granoturco giallo…
Erano frettolosi
come gli uccelli della sera…
Shulamìt sorrise alla sciocca guardia.
Questa la salutò… e disse:
— Apri la borsa per favore…
Uno specchio, un pettine, fotografie,
delle firme perché Dayan diventi Capo del Governo,
vecchi fazzoletti.
Vicino, un biglietto doppio per l’ingresso al bar.
La salutò:
— Vi auguro una notte d’amore e di luna.
Dall’altro lato riluceva
un quadro doloroso
che conteneva nomi noti solo ai parenti,
al Direttore dell’Istituto Superiore, al funzionario delle tasse…
Passavano dei turisti nella strada luminosa,
soldati… ragazzi… un autunno duro.
Un manifesto degli uomini della letteratura “arrabbiata”
non trattiene il passante;
cera un venditore di valigie.
Shulamìt si riflesse sull’orologio del muro per cinquanta minuti.
In piedi attese il suo compagno.
Shulamìt sentì l’odore di carruba della sua uniforme.
Era venuto a lei, la scorsa settimana, come un fanciullo vantandosi della gran passione che portava.
Le aveva detto:
«Il deserto del Sinai ha una ragione in più
per far cadere il nemico fra le sue insenature come un passero.»
E aveva aggiunto:
«Oh, se mi potessi stendere come il sole e la sabbia sul tuo corpo,
metà uccisore e metà ucciso…
I fiori dell’arancio
sono eccellenti in casa e lungo la passeggiata.
La festa che chiedo alla tua carne…
è mortale nei campi di battaglia!»
Aveva sentito la sua mano prenderla per la vita.
Gridò:
— Non sei al fronte!
— È il mio mestiere!
Gli rispose:
— Ma io sono la tua compagna…
E lui:
— Chi là agisce da assassino qui uccide l’amore…
Si gettò sul suo petto assetato di musica.
Cantò alle nubi sopra gli alberi di Gerico:
«O Gerico! Sei nel sogno e nella veglia come due rivali…
Nel sogno e nella veglia ho lì combattuto,
ho spezzato la mia Torah
e ho torturato il Messia…
O Gerico! Ferma il tuo sole. Noi avanzeremo,
fermeremo il vento sul filo dei coltelli,
se lo vogliamo, ti inviteremo al tavolo del Comandante.
Avanzeremo…»
Aveva sentito la sua mano bere le sue.
«Toh – disse mentre la rugiada lavava
due visi lontani dalla luce –
sono l’ucciso e l’uccisore…
Ma il giornale e i riti della festa
esigono che imprigioni la menzogna nel petto
e nei tuoi occhi, o Shulà, e che lubrifichi il mio mitra
con cipria di fede!
Chiudi gli occhi. Non avrò la forza di vederci venti vittime
che ora si risvegliano. Tu eri lontana
e non pensai a te… Non mi vergognai del silenzio
che nasce all’ombra degli occhi dolci.
Le regole della guerra non mi permettono di amare
altro che il fucile!»
[…l
Shulamìt si abbandonò ai ricordi.
Tutti i clienti del caffè e dei luoghi di divertimento
si saziarono di ballo…
Dall’altra parte, le ragazze accettavano
la corte di giovani noiosi.
Nel manifesto il Ministro della Sicurezza era rabbioso:
«Non restituiremo un palmo di terra ai profughi…
I fida’iyyin saranno estirpati. D’ora in poi
i miei soldati non riceveranno più un graffio.
Chi è morto sul suolo di questa terra preziosa
abbia misericordia e gloria… e le insegne della Patria! »
[...]
Shulamìt attese il suo compagno all’ingresso del vecchio bar.
Si riflesse sull’orologio del muro per ore…
Si smarrì nel binario del tempo.
Shulamìt attese Simone – non importa, allora
venga Mahmud. Io attendo questa notte da vent’anni.
Tutti i tuoi fiori erano un invito all’attesa.
Le tue mani ora si avviluppano a me
come due fiumi di frumento e di spine.
I tuoi occhi sono un assedio
e io mi estendo dall’ingresso di questo bar
fino alla bandiera della nazione,
qual campo di labbra insanguinate.
Dove sono Simone e Mahmud?
Dall’altro lato ci sono fiori di pietra.
Passa una sentinella notturna.
L’asfalto per un’altra notte beve
le luci delle lampade.
Non brilla che un fucile…
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Dalla raccolta Foglie d’ulivo, 1964.
[2] Dalla raccolta omonima, 1966.
[3] Dalla raccolta La fine della notte, 1967.
[4] Dalla raccolta La fine della notte, 1967.
[5] Dalla raccolta omonima, 1969.
[6] Dalla raccolta omonima, 1970.
_____________________________________________________________
Giovanni Canova, è stato docente di Arabo e di Islamistica all’Università Ca’ Foscari di Venezia (1971-2003) e ordinario di Lingua e Letteratura araba all’Orientale di Napoli (2003-2014). Principali campi di ricerca: oralità e poesia epica; leggende religiose islamiche; tradizioni sugli animali; epigrafia e cultura del libro arabo. Le sue ricerche sul terreno si sono svolte principalmente in Egitto e in Arabia meridionale (Yemen e Oman). Tra le pubblicazioni più recenti figura Piazza Tahrir. Graffiti 2011-2017, Venezia 2024.
______________________________________________________________