di Valeria Dell’Orzo
L’universo delle migrazioni è un impasto complesso di realtà umane e di storie individuali, di rotte e traiettorie, di paesaggi e di luoghi, di permessi e vincoli burocratici, di separazioni e di ricostruzioni. Una realtà troppo estesa per ingabbiare e costringere i soggetti entro la definizione sommaria di “immigrato”; troppo varia per essere ancora trattata, maneggiata, come un unico, monolitico, immaginario paradigma del movimento umano.
Ce lo raccontano i giornali, ce lo mostra la televisione all’ora dei pasti, l’immigrato che raggiunge l’Italia lo fa su barconi disperati o attraverso sentieri taglienti di rovi scoscesi; l’immigrato dei mass media che arriva in Europa ha attraversato il vecchio e il vecchissimo continente. Eppure non è solo questa la realtà migratoria che tocca il nostro Paese, c’è una migrazione ben diversa che muove dinamiche economiche ancor più complesse, che scende in campo in quel gioco culturalmente e economicamente connotato della malavita locale e delle organizzazioni criminali internazionali.
Nate negli USA degli anni ’80, figlie di una disperata fuga dalla mattanza sociale della guerriglia, le Maras sono l’evoluzione violenta di una condizione esasperata dall’abuso e dalla disperazione, dalla sopraffazione subita che si traduce in condotta agita. Scappati da El Salvador, da dodici anni di sanguinosa guerra civile, molti ragazzi, con troppa rabbia e troppa fame, trovano nella costituzione organizzata di una gang facinorosa la risposta all’assenza di riferimenti e di affetti.
Guidati da altrettanto giovani guerriglieri e disertori, esuli entrambi di una guerra di sterminio, quei ragazzini scappati dagli orrori rimettono in piedi la sola cosa che nei pochi anni di vita hanno conosciuto a fondo: la violenza sulla violenza, il sangue sul sangue, il forte che predomina e il debole che soccombe nell’indifferenza di un terrore che dilaga. Rimettono insieme un nucleo di riferimento, e così le famiglie d’origine, i genitori che spesso a costo della vita li hanno messi in salvo, vengono sostituiti, nell’universo affettivo e riconoscitivo, da quei compagni di rabbia e di spregiudicatezza etica che compongono il gruppo.
Giovani, lontani dai loro campanili culturali e territoriali, trovano un modello riproducibile nelle gang etnicamente connotate che si spartiscono Los Angeles, iniziano a fare gruppo per essere meno indifesi e in breve si trovano a fronteggiare alla pari le precedenti organizzazioni criminali, conquistano un loro spaccato urbano, e si fregiano del numero di strade controllate dal proprio clan facendone vessillo: Mara 18 e Mara 13, conosciuta anche come la pericolosa ed efferata Mara Salvatrucha, parola composta del natio slang di strada, che etimologicamente li indica come gruppo di salvadoregni furbi, svegli, capaci di restare a galla.
La vita – la propria e quella delle bande avversarie – che loro combattono con temibile sprezzo del pericolo, per questi ragazzi cresciuti di sola violenza, non è più così importante di fronte alla sopravvivenza e alla predominanza del clan, alla nuova famiglia ricostruita e stretta intorno al trauma comune dell’orrore e della ri-identificazione di se stessi. L’onore e il rispetto reciproco passano attraverso l’annullamento dell’io individuale, così che la morte, in questi clan, non fa paura, ma è anzi ellenisticamente osannata la morte bella di chi, dopo essere molte volte tornato vittorioso con gli scudi, torna infine sugli scudi, ucciso nello scontro con un altro clan.
“Vivi per Dio. Muori per la Mara”, viene ripetuto come un mantra ipnotico, impresso come quei tatuaggi prepotenti che volutamente coprono l’unicità fisica sotto la maschera dell’identificazione mimetica con un numero, 13 o 18, accompagnato dalla ritualità segnica delle dita e da quella musicale funebre, tutte condivise e ripetute tra i membri del clan per osannare i caduti, per tenerne vivo il ricordo come esempio di un giusto percorso, per ricordarsi l’un l’altro che quella è la loro famiglia, che devono proteggerla senza temere per la propria vita, pronti a immolarsi per i compagni che ne terranno alto il valore [1].
L’evoluzione di queste gang di microcriminalità associativa è rapida, come rapida è la crescita di un adolescente: dagli anni ’80-‘90 a oggi le Maras si sono trasformate da piccole bande di ragazzini sbandati in una delle principali organizzazioni criminali internazionali, capaci di espandersi fino a colonizzare territori già fortemente connotati dalla presenza di una locale malavita strutturata, capaci di fronteggiare le storiche mafie fin sul loro suolo natio.
Espulse dagli Stati Uniti alla fine della guerra civile salvadoregna, ufficialmente dichiarata conclusa nel gennaio del 1992, sono tornate a occupare e gestire le strade del Sud America per espandere poi i propri interessi in realtà strategiche, come le Filippine o il Canada, l’America del Nord o l’Europa, dove falangi dei clan si stabiliscono con facilità anche grazie alle nuove riforme sulla libera circolazione tra l’Unione Europea e alcuni stati Sudamericani [2].
Così, mentre lungo i confini geografici dell’Italia, per un’atavica paura del migrante disperato, si controlla con cautela lo spaventapasseri della scabbia, comune infezione cutanea, spaventosa solo nella cacofonia del nome, gli aeroporti sono attraversati senza alcun ostacolo da portatori di palesi segni di appartenenza a questi clan criminali, tatuaggi visibili e espliciti che si palesano sui volti, sulle mani, sui corpi con l’esplicita volontà di essere riconoscibili e immediatamente ascrivibili al proprio clan. Ecco che i nuovi nuclei si insinuano nel tessuto locale, assoldano nuove leve, si rifocillano al piatto della disperazione violenta e sradicata della frustrazione sociale giovanile, annichilita dall’esasperazione, troppe volte rassegnata alla delinquenza, e iniziano a scardinare i pilastri delle vecchie mafie; piccoli cunei che si infiltrano in spazi che si allargano e si rafforzano, una guerra tra poveri che si va estendendo.
Il mercato della droga, vero settore di dominio delle Maras, viene rosicchiato prepotentemente e strappato dalle mani storiche della mafia che fino a oggi lo ha gestito; e se questa cerca e trova sfogo in altri traffici, nelle alte corti delle finanze e degli appalti, tutta quella folta schiera di spacciatori da strada, quella fascia estesa di piccoli criminali sbandati e avulsi all’idea di legalità, perdendo lo spazio d’azione abituale, trasformano la vita sulle strade in una pericolosa polveriera piena di micce isolate e prive di controllo, dedite a disorganizzate forme alternative dell’illecito.
Quella delle Maras è qualcosa di molto diverso dalla grande massa di migrazione onesta che viene volgarmente usata, assoggettata e strumentalizzata dalla politica: è l’esportazione di una nuova forma diasporica di violenza e criminalità, legalmente avallata dalla libertà di circolazione e dall’assenza di specifici e attenti controlli settoriali; è l’inclusione indisturbata di nuove sacche di una malavita organizzata tra le più temute e potenti al mondo, basata sulla negazione dell’individuo di fronte all’avanzata del clan, sulla tutela non del sé ma dei compagni, su un’aspettativa di vita molto bassa, sulla coscienza di vivere e morire per il gruppo.
A guardar bene nella fenomenologia dei flussi le Maras rappresentano una realtà delinquenziale in prepotente espansione, basata sull’uso di armi per noi non convenzionali, inconsciamente più spaventose di una pistola, legate all’immaginario orrorifico di mattanze lontane, come il machete. La gang incarna uno spazio e un potere criminale imperniati su forme di violenza distanti dalle nostre, come l’amputazione del braccio di un capotreno, reo di essersi rivolto, presumibilmente senza intuirne la pericolosità, a una falange della Salvatrucha che viaggiava sprovvista di biglietto. Violenze radicalizzate dalla mancanza di riferimenti territoriali che inaspriscono la brutalità a protezione del clan, efferatezze prive dei tempi dell’intimidazione e della minaccia ma improntate sull’immediatezza di un’aggressione improvvisa ed eclatante, di difficile lettura anche per le mafie autoctone, legate a tempi di azione e omertosa segretezza dei membri, spiazzate da una così impavida presa di posizione delinquenziale, da una così vistosa dichiarazione di appartenenza, e da codici socioculturali differenti che rendono disagevole la gestione coordinata così come lo scontro.
La criminalità delle Maras è veicolata sin dall’inizio da una sorta di totalizzante appartenenza totemica, sancita da riti di affiliazione fisicamente e psicologicamente violenti, come l’uccisione di un bersaglio casuale, o la sopportazione di estremi atti di bullismo, casapoundiane dimostrazioni di forza: brevi ma decisi pestaggi di gruppo per incorporare, incassando i colpi, lo spirito della Mara, un’essenza che segnerà la loro esistenza spesso decretandone la morte [3].
Quello che si svolge sugli storici terreni delle mafie è l’incontro con cellule estranee ai convenzionali tratti di queste storiche organizzazioni, ormai stabilizzatesi negli anni, è il confronto e lo scontro con un nuovo competitore, con un interlocutore che nega qualsiasi interlocuzione ed esclude accordi o trattative, con la stessa arroganza propria del giovane che scalza il vecchio.
Come ogni impero anche quello della mafia, giunto al culmine dell’influenza e del potere, sembra essersi adagiato nella mollezza dell’eccessiva sicurezza di sé, prestando il fianco all’insorgere di nuove e altrettanto veementi organizzazioni: una nuova struttura delinquenziale transnazionale che si appresta a fagocitare la vecchia ai suoi livelli basilari; una vecchia criminalità che si affanna spostando i suoi interessi sui più sicuri e agevoli campi dell’economia, lasciandosi alle spalle le ombre irrilevanti di una manovalanza ormai inadeguata e poco utile.
Forse è quella fine biologica prevista da Falcone, che inizia a intravedersi tra le maglie di una mafia che si riassetta nei nuovi spazi e, ai suoi livelli più bassi, torna a scuotersi in regolamenti da strada. Ma è probabilmente lo stabilizzarsi di una potenza criminale nuova, dei suoi codici e delle sue dinamiche che dovrebbe attirare l’attenzione delle istituzioni e della ricerca sociologica e antropologica: un cosmos delinquenziale ancora giovane e di imprevedibile evoluzione, con il più alto numero di membri tra le organizzazioni criminali mondiali, che conta già, sul solo territorio italiano, più di quattromila affiliati e la presenza di almeno altre nove gang oltre alle più feroci Mara 18 e Mara Salvatrucha, in costante crescita e in plateale sofferta affermazione di presenza.
«…
Il dolore s’è inasprito Non per celia, per ebbrezza. E con lui da soli è atroce. Se s’infuria, chi lo doma? Piangi, sussurra. Rode? Brucia? Per lei è uguale. Che il destino decida: se sia matrigna o madre»[4].Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Note
[1] Si rinvia alla visione del documentario La vida loca, di Christian Poveda, 2009
[2] Il 6 Maggio 2014 viene approvata dal Consiglio Europeo la modifica dell’elenco dei Paesi terzi i cui cittadini sono esenti dal possesso del visto per entrare nell’Area Schengen, vengono così aggiunte le seguenti nazioni: Colombia, Dominica, Perù, Grenada, Saint Vincent and Grenadines, Kiribati, Isole Marshall, Vanuatu, Micronesia, Nauru, Timor Leste, Palau, Saint Lucia, Tonga, Samoa, Isole Salomone,Trinidad and Tobago, Tuvalu, e Emirati Arabi Uniti. L’entrata in vigore è stata subordinata alla stipula del trattato di reciprocità con ogni singolo Paese e all’analisi della delicata condizione interna della Colombia e del Perù.
[3] Alle donne che decidono di affiliarsi è permesso scegliere tra subire un pestaggio o uno stupro, più propriamente una prestazione sessuale concessa al vertice del clan, di durata pari ai tempi dell’aggressione (13 secondi), tuttavia la scelta dello stupro non consentirà di ricevere lo stesso rispetto e la stessa considerazione all’interno del gruppo che verrebbe invece ottenuta scegliendo lo stesso trattamento destinato agli uomini.
[4] B. Pasternak, A Elena, in Poesie, Mondadori, Milano, 1999: 49.
________________________________________________________________
Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
________________________________________________________________