«Kant pensava che “i negri puzzassero”; Voltaire era convinto che le africane si accoppiassero con gli scimpanzé, dando vita a mostri sterili, o che “ancora oggi in Calabria si uccide qualche mostro generato dalle donne. Non è improbabile che, nei paesi caldi, delle scimmie abbiamo soggiogato delle fanciulle”. Del resto, sempre Voltaire notava (illuminato dalla dea ragione massonica….) che “i negri e le negre, trasportati nei paesi più freddi, continuano a produrvi animali della stessa specie”. Mentre il suo collega britannico David Hume era sicuro che “i negri, e in generale tutte le altre specie di uomini siano per natura inferiori ai bianchi (“illuministi”) […] Si definisce “razzismo” il “sentimento di superiorità etnica ideologico di “gruppo sociale”, da sempre presente nella storia del pensiero politico e sociologico […] Per “anti razzismo” possiamo intendere un razzismo antitetico. La creazione dello stato illuminista, teorizzata come “ultimo stadio dell’evoluzione della specie umana”, come creazione di una moderna “razza superiore” fondata sulla eliminazione delle primitive “razze inferiori subumane” naturali» [1].
Mi capita fra le mani un volantino della Lega Nord (“Veneti subumani”) infarcito di citazioni dotte sui presunti legami fra la storia dell’illuminismo e le argomentazioni razziste dei suoi teorici (Kant, Montesquieu, Voltaire). Riflettendo sul senso del testo che ho sotto le mani, mi viene in mente una pratica descritta da Carlo Ginzburg negli anni ’70, il nicodemismo (Ginzburg, 1970). Il termine indica nel suo senso più preciso la pratica di dissimulazione del discorso praticata da parte dei seguaci della Riforma nel XV secolo nei confronti delle autorità ecclesiastiche. In senso esteso nicodemismo indica una modalità discorsiva che enuncia a contrario ciò in cui crede. Essa può essere applicata anche alla storia della filosofia naturale, come ha fatto Ioan Culianu in Eros e magia nel Rinascimento. Autori come Agrippa di Nielsen, Pico della Mirandola o Tritemio, scrivono infatti, a lato delle loro opere principiali di descrizione delle scienze occulte, dei testi che sono vere e proprie ammende e lamentazioni rispetto all’inefficacia ed all’esecrabilità dei loro studi (Culianu, 1984). Questo viene fatto come pratica di auto-censura preventiva nei confronti delle possibili accuse da parte del Tribunale dell’Inquisizione. Essi dicono: «vedete, noi abbiamo pure scritto di astrologia, negromanzia, ars goetia, ma ora ci pentiamo di averlo fatto e vogliamo rientrare nelle accoglienti braccia della Chiesa».
Allo stesso modo, come di consueto negli stilemi della Cultura di destra, il discorso ideologico della Lega si muove almeno su due piani (Jesi, 2011). In una società post-moderna che parrebbe aver superato le sanguinose ideologie del passato, non ci si può più proclamare direttamente razzisti, o almeno non lo si può più fare in un pubblico dibattito televisivo. Diverso è il caso di Internet, dove è ben noto che i commenti ai post di Salvini sono ornati da immagini fasciste o naziste. Ma poiché il dibattito nella sfera di internet non è soggetto a censure, i giovani elettori della Lega possono comodamente sfogare le loro passioni più recondite senza il timore di essere accusati. Il testo del volantino, invece, è evidentemente rivolto ad un pubblico più generale, e non può affermare direttamente quella che dovrebbe essere la sua ideologia. Esso la afferma in forma inversa, dicendo: «c’è un razzismo, e noi vi forniamo le sue definizioni storiche, ma non è il nostro, bensì quello del maledetto neoliberalismo, dell’Europa, del multiculturalismo, degli hipsters».
Furio Jesi parlava di una duplicità intrinseca nel discorso di destra: da un lato una versione light (affermazione di valori identitari appartenenti ad un ipotetico passato immutato, gerarchico ed armonico), dall’altro una versione strong (un culto del sacrificio, la consapevolezza di appartenere ad un gruppo di “eletti” caduti in un mondo disordinato, ed in grado di ristabilire l’antico ordine armonico del passato). Questa strana pratica discorsiva di dissimulazione e doppiezza è oggi forse meno evidente di quanto si potrebbe pensare, e lo è, evidentemente, perché i media di diffusione di un’ideologia politica sono profondamente mutati dai tempi di Mussolini e delle adunate al balcone. Non troveremo mai in un post di Matteo Salvini o in un suo intervento televisivo i toni di un discorso mitologico pieno nel senso in cui lo intendeva Furio Jesi, piuttosto le sue modalità espressive sono caratterizzate dall’attacco e da un linguaggio politico tecnicizzato e concreto [2]. Ovviamente la connotazione “concreta” di questa modalità espressiva non è che il tassello di un mosaico più grande che compone l’ideologia della Lega. Vittimismo, concretezza, paura, rabbia, soluzioni semplici a problemi complessi sono solo alcune delle componenti dell’ideologia della Lega – componenti che peraltro sono estremamente facili da individuare.
Meno facile, e perciò più interessante, è evidenziare il carattere doppio e crittografico come costante discorsiva della cultura di destra. Un caso non dissimile di questa doppia lettura è la pratica situazionista del détournement: si prende il frammento di un testo che si vuole criticare, e lo si cita alterandone il senso (invertendolo o sostituendo alcuni sintagmi) (Debord, 1996). La tecnica del détournement è stata introdotta dal poeta uruguaiano Isidore Ducasse, nelle sue Poésies I e II. Il fine della pratica del détorunement è la destituzione del senso di un enunciato o di un discorso. La tecnica utilizzata nel volantino elettorale della Lega vi si avvicina, ma il suo scopo è contrario. Mentre l’uso del détournement fa girare a vuoto la macchina del discorso, il “nicodemismo” di Salvini non intende screditare gli argomenti razzisti, ma affermare che il razzismo non appartiene all’ideologia della Lega, quanto a coloro che la criticano. Oggetto di questo strano razzismo sarebbero i Veneti e, metonimicamente, tutti gli Italiani, ridotti allo statuto di “subumani” per effetto di una malvagia cospirazione multiculturalista a loro danno.
Non serve una raffinata conoscenza della critica dell’ideologia per poter affermare che l’elettore medio della Lega è un razzista xenofobo che attribuisce problemi legati a situazioni economico-politiche internazionali di grande complessità all’unica causa della migrazione indiscriminata. È talmente evidente che il senso di un volantino elettorale che parla di “illuminismo razzista” è proprio quello di controbattere queste critiche. Il volantino non esprime una critica al concetto di razza, esso espone un pensiero razzista, ma lo attribuisce a ad una generica concezione democratica ed europea della politica. Avviene quindi uno scambio fra il volto del despota e quello del capro espiatorio [3]. Il despota o il Tribunale dell’Inquisizione sarebbero la Comunità Europea, l’ideologia multiculturalista (una posizione che racchiuderebbe in un’inverosimile chimera il neoliberalismo e le sinistre), il capro espiatorio è invece l’elettore della Lega, colui che sente di appartenere ad una minoranza identitaria e sottomessa. Questo discorso è espresso chiaramente nell’uso di termini violenti come “subumani” o “razza inferiore”.
La realtà enunciata nel discorso della Lega è un universo violento, polare, manicheo: ci sono gli onesti cittadini ed i pericolosi migranti illegali, i finti democratici ed i veri difensori della autodeterminazione dei popoli. È un universo di gretta astrazione, dove gli attori sociali sono definiti in modo semplice ed oppositivo. Questa descrizione dello spazio politico della contemporaneità come violento teatro di scontri identitari è lo stesso presentato in Francia da giornalisti come Eric Zemmouro dal Front National di Marine Le Pen (Zemmour, 2014).
Poiché la circolazione di immagini, testi e discussioni razziste su Internet non può essere censurata, la tattica del nicodemismo risulta inutilizzabile. In Internet non esiste alcun Tribunale dell’Inquisizione a regolare le presenze o le assenze di un discorso. È un universo del discorso dove tout se tient, e dove la crittografia è una scienza inutile. Ma in un tale teatro tutte le posizioni si annullerebbero a vicenda; ed è per questo che la Lega, come partito politico deve adeguarsi ai criteri di un dialogo democratico. E per adeguarsi intendo praticare il nicodemismo e la crittografia all’interno dei contesti pubblici e televisivi nei quali la possibilità di essere contestati è estremamente probabile. Vorrei concludere sostenendo che è certo fondamentale contestare Salvini dal punto con le armi degli studi postcoloniali, della sociologia della migrazione o della critica dell’ideologia, ma in fondo sono questi strumenti anche troppo raffinati per una strategia comunicativa che tende all’estrema semplificazione come quella della Lega.
Opporre semplicità a complessità come avviene nella maggior parte dei dibattiti sul rapporto fra Lega e razzismo è forse una strategia inefficace. Come già sosteneva Furio Jesi:
«Distruggere la situazione che rende vere e produttive le macchine – la “macchina antropologica”, la “macchina mitologica” – significa, d’altronde, spingersi oltre i limiti della cultura borghese, non solo cercare di deformarne un poco le barriere confinarie» (Jesi 2011: 108).
La critica alle nuove destre non può sperare di tagliare le teste d’Idra dell’ideologia mediante il solo esercizio di un’analisi decostruente dei discorsi, ma dovrebbe innanzitutto domandarsi qual è il suo rapporto con la produzione di ideologie (Citton, 2009):
« Propaganda è parola molto squalificata, quasi sinonimo di menzogna. Eppure la sua sorte assomiglia da vicino a quella della parola «mito», che oggi gode di ottima stampa nel mondo borghese […] Ma anche la propaganda, negli istanti di maggiore fervore politico, quando l’impegno politico ha condizionato la genuinità dell’esperienza della vita, è stata la definizione per eccellenza della verità […] Saremmo in errore se pensassimo che simile diffidenza verso la propaganda da parte degli stessi attivisti nascesse da una rigorosa coscienza della relatività delle verità propagandate. Si tratta, piuttosto, di una crisi di fondo, e cioè di una crisi nei rapporti fra convinzione politica e movimenti collettivi. Qualche cosa, evidentemente, è mutata: anche coloro che si ritengono responsabili della guida dei loro seguaci effettivi o potenziali, temono che l’enunciazione della dottrina politica compiuta in modo da coinvolgere le componenti non razionali della psiche (o almeno le componenti della psiche sulle quali di solito non si riconosce il predominio della coscienza) sia pericolosa, da usarsi con cautela, solo in caso di assoluta necessità, come un tossico-farmaco »(Jesi, 2000: 12).
La strategia discorsiva del volantino della Lega non teme affatto di enunciare la sua dottrina politica in forma compiuta, né tantomeno nega il suo attaccarsi a passioni irrazionali (paura, rabbia, frustrazione). Al contrario, il discorso critico può solo sperare di de-mitologizzare con armi pesanti una retorica che il semplice buon senso rigetta come dannosa. Sarebbe quindi necessario passare ad una fase di re-mitologizzazione [4] – ovvero ad una fase in cui la critica e la produzione di ideologie si muovono sullo stesso piano, in un tempo in cui la guerra delle immagini costituisce l’arena privilegiata del dibattito politico (Gruzinski, 1990). Contribuirebbe ad una re-mitologizzazione considerare proprio il marxismo come un apparato certamente critico ma anche propagandistico. Ed uso questo termine nel senso positivo che gli attribuisce Furio Jesi. Purtroppo mi sembra che l’idea di re-mitologizzare il discorso marxista sia rimasta oggi sullo stesso piano del 1957 (anno di pubblicazione di Mythologies di Roland Barthes):
«Il mito di sinistra è inessenziale. Innanzitutto perché gli oggetti che preleva sono rari, si tratta di qualche nozione politica, oppure ricorre allo stesso arsenale dei miti borghesi. In nessun caso il mito di sinistra ricopre il campo immenso delle relazioni umane, la vasta superfice dell’ideologia “insignificante” […] Infine, e soprattutto, è un mito povero, essenzialmente povero. Non sa come proliferare: prodotto su comando ed in vista di un tempo limitato, si inventa male. Qualsiasi cosa faccia, resta in lui qualcosa di ruvido e letterale, un tanfo di parola d’ordine: come si dice espressamente, resta secco» (Barthes, 2014: 221).
«[Una mitologia “di sinistra” non può essere] un sistema di idee, coerente e totalizzante, fermamente ancorato nel rigore del concetto, rassicurante gli spiriti inquieti per la sua pretesa di avere risposte a tutto (una ideologia), ma piuttosto un bricolage eteroclito d’immagini frammentarie, di metafore dubbie, d’intuizioni vaghe, di sentimenti oscuri, di speranze folli, di racconti non inquadrati, di miti interrotti, che prendono assieme la consistenza di un immaginario, non tanto per coerenza logica, ma per il gioco delle risonanze comuni che attraversano la loro eterogeneità per affermare la loro singolare fragilità» (Citton, 2009:16).
Quello che proporrei è invece una semplificazione dell’enorme dispositivo di critica dell’ideologia ed una attenzione alla comunicazione più agile, snella ed efficace. A dispetto di quanto afferma Jesi sulla presunta oscurità delle macchine ideologiche, oggi le analisi di psicologia evoluzionistica ed antropologia cognitiva, unite al chiarimento di alcuni aspetti neurologici sui meccanismi della memoria e dell’attenzione, ci permettono di comprendere un po’ meglio il loro funzionamento (Dawkins, 1995; Sperber, 1999; Citton, 2014). E quanto ci dicono questi studi risponde alla domanda sulle ragioni della diffusione di alcune ideologie a dispetto di altre. I caratteri di un messaggio che sia trattenuto e ritradotto in larga scala nella sfera della memoria sociale sono: semplicità, polarità, contro-intuitività, contraddittorietà. Si tratta di riprendere la valutazione positiva della propaganda da parte di Jesi (ciò che teniamo del suo ragionamento) e di considerare anche gli aspetti cognitivi delle narrazioni e delle ideologie (ciò che il mitologo torinese non poteva ancora fare). Nell’attuale guerra delle immagini e delle narrazioni possono vincere solo coloro che sono in grado di accoppiare una decostruzione del discorso ideologico altrui alla produzione di un contro-discorso ideologico altrettanto semplice e funzionale.
Ciò che manca oggi nella costruzione delle narrazioni “di sinistra” è appunto una maggiore attenzione alla semplificazione dei discorsi, delle immagini e delle idee. È invece ancora troppo calcato ed ingombrante il lavoro sui dispositivi concettuali di critica delle ideologie.