Gandhi scriveva che «la terra offre abbastanza per i bisogni di ciascuno, ma non per l’avidità di ciascuno. La terra ha abbastanza per le necessità di tutti, ma non per l’avidità di pochi». La globalizzazione neoliberista ha creato il mercato mondiale ed un’interconnessione globale. Il suo totem è il fondamentalismo del mercato, ma l’economia di mercato, si sa, è indifferente ai fini sociali, alle disuguaglianze, alla miseria, alle persone che soffrono. In verità, il capitalismo globale, in cui l’economia finanziaria ha preso il sopravvento su quella industriale, nelle mani di una ristretta oligarchia economico-finanziaria, proprietaria anche dei media globali, è sempre più avido, è riuscito a condizionare i governi e non permette più il progresso sociale. Le disuguaglianze e gli squilibri nel mondo, gli egoismi e i nazionalismi, l’individualismo e l’indifferenza sono cresciuti. Nella misura in cui aumenteranno le contraddizioni tra le grandi multinazionali e le potenze che si contendono i mercati, ciò potrà portare grandi sommovimenti e anche guerre, se non interverrà in tempo un nuovo contratto sociale, una nuova organizzazione sociale, una redistribuzione della ricchezza, una maggiore equità.
Il problema dei migranti, come mi è capitato di dire altre volte, non è un’emergenza, come ancora qualcuno continua a dire, ma una tragedia epocale, una questione di mobilità diffusa di massa in tutto il pianeta. Una catastrofe umanitaria dovuta agli squilibri economici e sociali, che durerà finché il mondo non sarà più giusto, è quotidianamente presente in tutta la sua drammaticità. Il mare Mediterraneo continua ad accogliere, nei suoi fondali, bambini, donne e uomini che, consapevoli dei rischi, continuano a fuggire dalla morte sicura che li attende nei Paesi d’origine a causa di guerre create, in molti casi, da noi occidentali. Di fronte a questo dramma di tante famiglie e bambini, che hanno aspettative di accoglienza e di conforto dalla civile Europa, questa non cessa di mostrare in pieno la sua disunità sull’accoglienza dei richiedenti asilo e risponde con massicci schieramenti di polizia, muri di filo spinato, abolizione di treni, chiusure di frontiere. Si deve alla conversione della Merkel, che ha tirato fuori la sua parte “buona”, l’unica che ha la stoffa del leader, se si è raggiunto un accordo sulla ripartizione delle quote, che però stavolta non sono del latte ma di esseri umani. Da leader di razza, Angela Merkel, sull’onda di Bild Zeitung, ha fiutato che la pancia del popolo tedesco era, in maggioranza, per l’accoglienza dei profughi, ma sa anche che ha bisogno di manodopera giovane e qualificata e i profughi siriani, chiamati anche i “tedeschi del Medio Oriente”, sono diplomati e laureati. Le immagini strazianti di quei bimbi innocenti hanno piegato anche la durezza del premier Cameron.
Quel che è emerso in questo frangente è che gli Stati Uniti d’Europa appaiono ancora un’utopia. L’atteggiamento dei Paesi dell’Est è una prova in più, se ancora ce ne fosse bisogno, del fallimento del socialismo reale, che avrebbe dovuto realizzare la società fraterna ed egualitaria ed invece ha sviluppato sentimenti egoistici e xenofobi. Bene ha fatto Renzi ad ammonire l’Europa a superare gli egoismi nazionali se non vuole rinunciare alle ragioni ideali che hanno portato ad avviare il processo di unificazione europea. E tuttavia non s’intravede ancora un avvio verso una soluzione vera del problema dei migranti. Quell’Europa federale, che era il traguardo della carta di Ventotene, non la vuole attualmente nessuno. Forse sarebbe opportuno puntare a un blocco mediterraneo, formato da Francia, Spagna e Italia, che potrebbe esercitare la funzione di polo d’attrazione per gli altri Paesi.
Anche nelle aree calde del Medio Oriente va in scena il teatro degli orrori. Ad Ankara, capitale della Turchia, un attentato terroristico di due kamikaze ha prodotto la più grande strage della storia del Paese, durante una manifestazione pacifica di decine di migliaia di persone per la fine del conflitto tra il governo e il PKK (Partito dei lavoratori curdi). Il bilancio orrendo è stato di 128 morti e oltre 500 feriti. La Turchia, che si è sempre rifiutata di ammettere il genocidio perpetrato contro i curdi e gli armeni, purtroppo, da quando è governata da Erdogan, si è sempre più allontanata da quel processo di laicizzazione, che era stato il grande merito del padre e primo presidente della Turchia moderna Ataturk e che è la conditio sine qua non per un suo ingresso nell’Europa. Erdogan, dopo 13 anni di governo, mira a trasformare la Turchia in uno Stato presidenziale, che assomiglia, in verità, più a un sultanato. Ha avviato un processo di islamizzazione del Paese e ha ridotto libertà e diritti fondamentali e imprigionato decine di giornalisti.
Dopo oltre mezzo secolo, la questione palestinese non ha trovato una soluzione a causa dell’immobilismo delle grandi potenze, dell’indifferenza e della incapacità-non volontà delle oligarchie della Comunità internazionale, subalterna agli israeliani. Così, di fronte all’oltranzismo di Netanyahu, alle confische di terreni, demolizioni di case e nuovi insediamenti degli israeliani, la risposta è stata la nuova intifada dei palestinesi, cosiddetta dei coltelli. Sebbene la causa occasionale sia attribuita al controllo sulla spianata della moschea, in verità la terza intifada è la conseguenza di una mancanza di speranza per il futuro. Una rivolta suicida dei giovani palestinesi, il cui scopo è scuotere l’inerzia internazionale e che tuttavia produce, nello stesso tempo, morte e sofferenza tra i cittadini arabi ed ebrei. Quando l’incendio è divampato, tardivamente si sono presentati in Palestina il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon e il Segretario di Stato americano Kerry, quelli che hanno sempre fatto finta di niente sulle violenze di Netanyahu e si precipitano quando rispondono i palestinesi. Ancora una volta si rinnovano le promesse di riprendere il negoziato per la costituzione dello Stato palestinese accanto a quello di Israele.
Purtroppo, le armi la fanno da padrone nel mondo ed è un grande affare dell’Occidente, comprese le armi dell’Isis, che derivano dal finanziamento dell’Arabia Saudita e del Qatar, alleati degli Stati Uniti , essi stessi venditori di armi nel mondo, compreso il nostro Paese. La Russia di Putin sta bombardando le postazioni dell’Isis, mentre da una parte Obama, credendo che ci sia ancora la guerra fredda, minaccia Putin, dall’altra, l’Europa recita la parte della grande assente, mostrando tutta la sua inconsistenza. È vero che c’è il problema della feroce dittatura di Assad, che ha la responsabilità della guerra civile, dei bombardamenti sulla popolazione inerme e di avere spinto la resistenza al suo regime nelle mani dei jihadisti. Ma oggi la priorità è l’Isis e, poiché non si possono sconfiggere i terroristi islamici soltanto con i bombardamenti aerei e solo Assad dispone di truppe di terra in quell’area, Obama farebbe bene a concertare un’azione comune con Putin contro l’Isis e a trovare una soluzione al dopo Assad.
La questione siriana s’intreccia con interessi di supremazia tra gli Stati dell’area e passa sempre attraverso i conflitti religiosi tra sciiti e sunniti. Ed è anche per questo che l’Iran e i loro alleati di Hezbollah sono pronti a rafforzare l’offensiva di terra di Assad. È vero anche che la Turchia non interviene contro l’Isis, perché vi sono le milizie curde, uniche a combattere insieme con le forze governative siriane. Così come è anche vero che la Russia appoggia Assad perché vuole mantenere quell’unico accesso che ha al Mediterraneo. E tutto ciò può comportare l’estensione del conflitto con l’ingresso di Paesi a maggioranza sunnita. Purtroppo la politica estera americana, ondeggiante e indecisa su diversi fronti, è decisa e lineare sulla politica di contenimento-accerchiamento della Russia. Prima sulla questione della Crimea, da sempre russa e regalata da Kruscev all’Ucraina, quando essa era una regione della Unione sovietica; poi, sull’Ucraina. Se è probabilmente vero che i russofoni dell’Ucraina orientale sono stati sostenuti da Putin, è altrettanto vero che, grazie agli Stati Uniti, sono stati sconvolti gli equilibri nell’area, con l’estromissione del presidente legittimo dell’Ucraina. Tutto ciò ha consentito a Obama di fare imporre, a un’Europa ubbidiente, le sanzioni alla Russia, che hanno sortito due effetti: una perdita di cento miliardi per l’economia europea, in particolare per la manifattura italiana e tedesca, che avrebbe potuto portare nel tempo a una crescente cooperazione-integrazione con la Russia, con il secondo effetto, di spingere quest’ultima a un grande accordo commerciale con la Cina. Chi paga le conseguenze del mancato accordo tra Obama e Putin è, purtroppo, il popolo siriano, che sta consumando un vero e proprio esodo biblico verso l’Europa.
Venendo ai fatti di casa nostra, la riforma del Senato è stata approvata con un karakiri dei suoi membri, dopo il compromesso raggiunto all’interno del PD e tramite l’asse coi verdiniani, e dopo una lunga bagarre in Parlamento, all’insegna della volgarità e di uno spettacolo da baraccone, che, certo, allontana sempre più i cittadini dalla politica. Il compromesso trovato rappresenta un pasticciaccio non chiaro, il cui risultato, in ultima istanza, è quello di un Senato eletto dai consiglieri regionali, tra loro, e non dai cittadini. E poiché il nuovo Senato ha ancora funzioni legislative e di revisione costituzionale, la riforma viola l’art. 1 della Costituzione, il quale recita che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e limiti della Costituzione”, cioè che le funzioni legislative devono essere riconducibili alla volontà popolare. E così non è se sono i consiglieri regionali ad eleggere i legislatori. La verità è che la riforma del Senato, unitamente alla legge elettorale, all’aumento delle firme per richiedere un referendum, alla personalizzazione della politica in generale, costruiscono un puzzle che riduce la sovranità popolare, cioè quell’unica scelta che hanno i cittadini di eleggere i propri rappresentanti, per essere subito dopo espropriati attraverso la delega permanente. In sostanza, meno democrazia e più oligarchia.
Poiché la riforma del Senato non è stata approvata dai due terzi del Parlamento, ma a semplice maggioranza, alla fine del processo di approvazione parlamentare, la sua sorte dipenderà dal giudizio del referendum popolare. Renzi difende la sua riforma perché riduce il numero dei senatori da 315 a 100, con un risparmio complessivo di 50 milioni all’anno. Ben poca cosa rispetto a una burocrazia che resta intatta e costa ben 500 milioni all’anno. Ho espresso già la mia contrarietà all’abolizione del Senato, evocandone la storia antica e la sua tradizione nel nostro Paese. Ma, a questo punto, sarebbe stata meglio l’abolizione piuttosto che la sua riduzione a un bivacco per consiglieri regionali. Tra l’altro, mentre si torna a parlare di accorpamenti di Regioni e di riduzione del loro numero e dei costi e sprechi (ricordo che più volte ho scritto che sono per la loro abolizione), non possiamo non ricordare che la Sicilia, in questo ambito, primeggia con una spesa per i soli stipendi della burocrazia di due miliardi l’anno, un terzo di quanto spendono tutte le altre regioni insieme.
Il ddl di stabilità 2016 (ex finanziaria) è una manovra da 27 miliardi, di cui i tagli alla spending review sono risibili, perché non si vogliono eliminare gli sprechi infiniti delle ottomila municipalizzate, i vari enti inutili di sottogoverno e quelli annidati nelle pieghe della Pubblica Amministrazione regionale, ma praticare soltanto tagli lineari ai ministeri e in particolare alla sanità (grave errore delegare un diritto costituzionale come la salute alle singole regioni, creando disparità tra i cittadini), che abbasseranno i servizi e porteranno aumenti di tasse locali ai cittadini, mentre il grosso delle misure va ad aumentare il debito pubblico, che pagheranno sempre i cittadini. L’abolizione dell’IMU e della TASI sulla prima casa, in un primo tempo anche ai proprietari di appartamenti di lusso nel centro delle grandi città e perfino di ville mirabolanti e di castelli, poi corretta, forse perché Renzi si è accorto che neanche Berlusconi aveva osato tanto, tenendo esclusi dall’abolizione dell’ICI sulla prima casa gli immobili riguardanti le categorie A1, A8 e A9, non era la priorità. Abbassare le tasse è giusto quando le tasse si abbassano secondo il principio della progressività, stabilito dall’art. 53 della nostra Costituzione. Ciò sarebbe avvenuto se il governo fosse intervenuto sull’IRPEF e con una patrimoniale sui più ricchi.
Mettendo insieme il costo per l’abolizione dell’IMU e della TASI sulla prima casa (circa quattro miliardi di euro), quello del calo dell’IRES per le imprese dal 27,5 al 24% (tre-quattro miliardi euro), senza eliminare bonus e agevolazioni varie alle imprese (quattro miliardi di euro), un miliardo e mezzo per nuove agevolazioni per le aziende che assumono e il superammortamento sempre per le aziende ma anche per i professionisti, si giunge a una cifra di circa 13 miliardi di euro. Il governo, sommando a questa cifra, i 17 miliardi che costa il blocco dell’IVA, che è vero che fa aumentare i consumi, se indiscriminata, ma che lascia anche libertà ai cittadini di selezionare le proprie spese, avrebbe potuto contare su un totale di circa 30 miliardi di euro. Soldi coi quali avrebbe potuto dare, rispettando la progressività delle imposte prevista dalla Costituzione, una sforbiciata all’IRPEF, che avrebbe davvero alimentato la domanda di consumi e spinto la crescita, se calcolate che 30 miliardi di euro divisi tra 20 milioni di famiglie, porterebbero a una riduzione delle tasse o a un aumento del reddito mediamente di circa 15.000 euro all’anno per famiglia. Una cifra non da poco se pensate che ai lavoratori del pubblico impiego, il cui contratto, bloccato da anni, è stato sanzionato dalla sentenza della Corte costituzionale 178/2015, andrebbero mediamente, secondo lo stanziamento nella legge di stabilità, circa otto euro al mese.
Inoltre, la legge di stabilità rinvia il problema dell’anticipo della pensione e resta nel limbo quello degli esodati. La disoccupazione, soprattutto giovanile, resta ancora al palo. La finanziaria prevede anche l’inserimento del canone RAI in bolletta, dando per scontato che si tratti di un servizio pubblico e non di un servizio lottizzato dalla politica, pieno di pubblicità come le TV private, sulle quali non si paga il canone. Tra l’altro alza il tetto del contante da 1000 a 3000 euro, provvedimento che va in direzione opposta alla lotta all’evasione, come ribadisce anche la direttrice dell’Agenzia delle Entrate. Soltanto l’abolizione del contante e l’uso generalizzato della carta di credito può sconfiggere evasione, lavoro nero, riciclaggio e corruzione. Quest’ultima, come ci rivelano le notizie degli ultimi giorni, è ormai endemica. Parafrasando Manzoni, si può dire che dalle Alpi alle coste siciliane del Mediterraneo, dal mar Tirreno al mare Adriatico, la corruzione dilaga e investe la nostra quotidianità. Certo, essa, come mostra la storia, è una piaga che viene da lontano, come è attestato da Giugurta, re della Numidia, che disse: «Omnia Romae venalia sunt»; e da Cicerone, che si scagliò contro i corrotti Silla e Catilina. Famosa la violenta requisitoria in Senato, nota come prima Catilinaria: «Usque tandem Catilina abuteris patientia nostra?». E tuttavia, la società del neoliberismo globale ha esaltato a dismisura l’avere sull’essere, da indurre a una avidità bulimica tale che, perfino personaggi, che hanno cumulato incarichi ai vertici dell’amministrazione statale, lautamente pagati destinati a pensioni di decine di migliaia di euro, non sono sazi e vogliono sempre di più. E per il Meridione? Renzi aveva annunciato grandi cifre miliardarie, ma si trattava di cifre in parte già stanziate e per il resto si tratta di fondi europei. Nel ddl di stabilità briciole.
Matteo Renzi ancora una volta mette in atto politiche economiche di destra, dichiarandole, insieme al suo codazzo, di sinistra. La prova che non è così e che si tratta di una manovra di destra viene direttamente sia da Alfano, che la rivendica come una vittoria dell’NCD, sia dalla soddisfazione della Confindustria, espressa dal suo presidente Squinzi.
È dunque una finanziaria tutta negativa? Quasi. C’è anche qualcosa che è meglio di niente. Dopo anni di tagli alla tutela dei beni culturali e alla cultura, ci sono, finalmente, alcuni milioni di fondi stanziati; c’è un intervento straordinario per le case popolari e un piano cosiddetto. contro la povertà, soprattutto per i bambini poveri, che non arrivano a un miliardo, tra disabili, anziani e bambini, e una mancia di dieci euro al mese per i pensionati che erano stati esclusi dal bonus degli 80 euro dati ai lavoratori dipendenti. Risorse risicate se paragonate ai miliardi della manovra complessiva. Altre agevolazioni sono previste per i titolari di partite IVA, con revisione sul regime dei minimi e nuove tutele.
Il sindaco di Roma Ignazio Marino, outsider della politica, chirurgo di fama internazionale e uomo per bene, dopo avere rassegnato le dimissioni, senza essere indagato, per le pressioni del PD che lo considerava una costola estranea al corpo della sua dirigenza, ci ha ripensato. Quel che di sicuro emerge dalla vicenda Marino è che non era molto amato da Renzi e dal suo establishment, che era boicottato dall’intoccabile burocrazia comunale, piena di privilegi e che aveva contro il grosso della stampa. Sembrava ormai un don Chisciotte contro i mulini a vento. Ciò, nonostante avesse tentato d’incidere il bisturi nel bubbone della politica affaristica romana o forse proprio perché ha toccato molti interessi. Sono molte le cose che egli ha smosso. Cito soltanto che, non appena insediato, ha chiamato la guardia di finanza e ha portato al procuratore Pignatone tutta la documentazione in possesso del Comune, consentendo le indagini di mafia-capitale, ha cominciato il risanamento del bilancio e poi gli interventi sull’AMA e sull’ATAC, chiusura della discarica di Malagrotta, nuove regole trasparenti per il bando degli appalti, creato nuovi registri di stato civile, cancellato milioni di potenziali metri cubi di cemento e si potrebbe continuare. La partita non sembra, tuttavia, ancora chiusa. Oltre cinquanta mila cittadini hanno firmato una petizione a favore di Marino e alla manifestazione indetta al Campidoglio domenica 25 ottobre hanno partecipato qualche migliaio di cittadini. La questione resta, dunque, ancora aperta ed è difficile prevedere come si evolverà, nonostante i partiti si preparino per la campagna elettorale.
Tra quelli che si sono rallegrati delle dimissioni di Marino c’e anche il cardinale vicario di Roma e la parte più retriva delle associazioni della Chiesa, che prima ne avevano ostacolato la candidatura e poi lo avevano boicottato. È difficile cambiare in poco tempo secoli di storia della Chiesa, legata al potere, durante i quali cui il Vangelo è stato letto dalla parte delle classi dominanti. Il Sinodo indetto da papa Francesco, fatto rivoluzionario per l’affermazione della collegialità della Chiesa, ha fatto emergere che la maggioranza dei cardinali è legata alla tradizione. C’è stata un’apertura cauta sull’eucarestia ai divorziati e una chiusura verso le coppie omosessuali.
Considerata la crisi morale della politica, a chiusura di questo articolo, consentitemi di ricordare Pietro Ingrao, morto a cento anni compiuti, un uomo della politica del passato, quando ancora c’erano politici intellettuali, che credevano nell’impegno civile per rendere il mondo migliore. Ho avuto la fortuna d’incontrarlo due volte. La prima volta me lo presentò suo cognato, Lucio Lombardo Radice, intellettuale versatile, matematico, pedagogista e filosofo, che ho avuto l’onore di frequentare per un lungo periodo nel gruppo di dialogo tra cristiani e marxisti e nella redazione della rivista Religioni oggi, trasformatasi poi in Qualesocietà. La seconda volta che ho incontrato Ingrao è stata in occasione di un convegno nazionale del CIDI (Centro Iniziativa Democratica Insegnanti) a Roma, dove fece un intervento che commosse tutto l’uditorio per la sua carica di umanità. Nonostante la sua fedeltà al PCI, fino a vivere profonde lacerazioni della coscienza, come quando ci fu la repressione della rivolta ungherese da parte dell’Unione sovietica o quando furono espulsi Pintor, Rossanda, Magri, Castellina, fondatori de Il Manifesto, che a lui facevano riferimento, è stato, tuttavia, un uomo che ha sempre testimoniato l’uguaglianza, la giustizia, la vicinanza agli ultimi, un sognatore e un poeta della vita.
È stato un uomo stimato, non solo dalla sua parte politica, ma anche dai cattolici democratici e dagli avversari politici, perché un uomo, quando incarna la coerenza e la fedeltà a valori e ideali universali, appartiene a tutti, è patrimonio dell’umanità.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
________________________________________________________________
Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).
________________________________________________________________