Lu Paradisu è ccà è l’ultimo prezioso lavoro di Ezio Noto & Disìu, realtà musicale tra le più interessanti nel panorama siciliano e italiano della canzone in dialetto nell’era della neodialettalità (CD autoprodotto con la collaborazione di Medinova e Le Culture Diverse, prod. artistico F. Barbata, 2020). Musicalmente il disco si colloca – secondo l’etichetta ironica di Ezio Noto (e divenuta ormai un tormentone) – nel filone del “folk versatile popolare disurbanizzato”. Ma a prescindere dai generi, la cui definizione è sempre assai problematica e, a maggior ragione, lo è per gli artisti di oggi, le dodici canzoni del CD sono anzitutto un crocevia di persone che entrano ed escono come su un palcoscenico della vita e dell’arte: le persone che hanno scritto i testi (oltre allo stesso Ezio Noto), quelle che li hanno arrangiati e che hanno suonato nell’album, quelle che ne sono i protagonisti. Tra i primi Piero Carbone, Giuseppe Giovanni Battaglia, Mario Ciola.
Carbone è il poeta prestato alla musica, i cui testi subiscono qualche volta la sorte di essere musicati con risultati estetici ed emozionali diversi a seconda di chi li canta. Qui firma Sciroccu di l’arma (Traccia 10) che ripropone il tòpos del “vento del sud” già presente in Pino Daniele (Scirocco d’Africa, 1998), ma che nel disco diventa il vento che al tempo stesso accarezza e disturba ma che, alla fine, si fa alito leggero di un’atavica ninna nanna per il riposo del corpo e per la pace dell’anima. La canzone è impreziosita da un suggestivo incipit in inglese, affidato alla voce di Raffaella Daino, brava artista di un pregresso progetto musicale chiamato “Pivirama”, ma anche apprezzata giornalista Sky che in questi anni ci ha raccontato il dramma della migrazione nel Mediterraneo e poi, più recentemente, un altro dramma, occorso nello stesso anno dell’uscita del disco, quello della mamma e del bambino di Messina spariti sull’autostrada, nei pressi di Caronia.
Giuseppe Giovanni Battaglia è il poeta la cui scrittura dialettale parve a Tullio De Mauro intrisa di un «dialetto realisticamente riprodotto […] un’arma impropria: un modo di servire più profondamente le speranze di riscatto, le lotte della gente delle sue terre». Di Battaglia viene messa in musica la poesia del titolo Lingua lippusa (traccia 5) i cui versi sono la metafora delle parole di tutte le piccole valli del mondo, con le quali proprio nelle piccole valli si stabilisce un rapporto conflittuale perché lì la lingua ha uno statuto quasi ossimorico, comunque sempre in bilico tra asprezza/rudezza e infinita dolcezza femminile, alla quale, perciò, ci si rapporta a un tempo con amore carnale e con amore filiale. Il brano Lingua lippusa è qui riproposto dopo una prima e diversa versione cantata assieme a Moni Ovadia nel CD di 5 tracce, allegato al romanzo di Vincenzo Muscarella dal titolo Damiana, pubblicato nel 2017 per i tipi di Edizioni Arianna.
Mario Ciola è un poeta lucano che scrive Ninnella (traccia 4), un testo appositamente pensato per essere messo in musica da Ezio Noto & Disìu. È stato notato altrove come, tra gli artisti che cantano e scrivono in dialetto, si osservi ultimamente anche la scelta di misurarsi con codici linguistici altri da quello del quale essi hanno competenza primaria o che comunque usano di norma nelle loro canzoni. È importante però precisare che questi codici altri, più che – o oltre che – con l’inglese o con altre ‘lingue straniere’, coincidono spessissimo con altri dialetti. Nelle canzoni, lo spazio a dialetti diversi da quello dell’autore è assicurato: a) tramite l’inserimento di qualche verso o strofa in varietà allogene cantate dallo stesso autore del brano o da “ospiti d’onore”; b) mediante la messa in musica e l’esecuzione di interi testi riconducibili ad altre tradizioni dialettali (nel caso degli artisti siciliani, generalmente sempre e solo meridionali). E proprio in quest’ultima direzione va Ninnella che racconta la strage di Marcinelle a diversi decenni dal tragico avvenimento (1956) e molti anni dopo la narrazione che ne fece Ignazio Buttitta ne Lu trenu di lu suli (1963), il famoso poemetto entrato ben presto nel repertorio di diversi cantastorie come Ciccio Busacca, Otello Profazio, Nonò Salamone e cantautori come Mario Incudine.
La soluzione compositiva di Ninnella è di grande interesse: si parte da un tema già affrontato da Buttitta, ma nel nuovo “racconto” i protagonisti non sono i siciliani Turi e Rosa Scordo (personaggi di fantasia), ma Angelo Damiani, ragazzo abruzzese di 19 anni – realmente esistito e realmente vittima dell’esplosione della miniera di Marcinelle – che aveva lasciato in paese la sua fidanzatina, per trovare lavoro in Belgio. La ‘nuova’ storia sembra muovere dalla necessità di ribadire il comune destino (culturale e sociale) che ha accomunato e che ancora accomuna le genti del Sud: il testo, che si fonda sul motivo pugliese della tarantola (dopo la morte, il giovane protagonista diventa un ragno che si ricongiunge con la sua zitarella), è stato scritto da un autore lucano (Mario Ciola) e arrangiato e interpretato da un artista siciliano (Ezio Noto). Questa “circolarità meridionale” è ben rispecchiata anche nella fisionomia babelica della soluzione linguistica della canzone che assembla diversi pezzi di lingue del sud Italia:
Ninnella Nta forchia du dimoniu panza nterra me calau, nta fronte na vampella
comm o core di Gesù e chiova dinta carni: a vogghia ca me fai! Viddicu su viddicu pi sempi ti sognai. Riturnelli ncelu l’alba chi lucìa solu chisti vrazza ficiru a biligia. L’anima a tìa quannu ti vasài. Viddicu su viddicu pi sempri ti sognai. cu le vudedda fora nun so bellu e verè.
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Mo stimm sventricati comu serpi a Sciarleruà, Ninnella Ninne’che raggia ca me fa!
Viddicu su viddicu ancora sto a sognà. Li muerti ca so’ muerti non hanno suli e strata, trint’anni, nisci e trasi, trint’anni pi turnari. Adesso so’ tarantula non mi vidi ma cca sto. Viddicu su viddicu sempi sempi sognerò. Ninnella Ninne’ strazzati a gonna e balla cu me.
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Nel testo della ballata convivono, dunque, elementi lessicali e sintattici lucani, lessemi e costrutti siciliani, napoletani-salernitani, pugliesi, calabresi che, nell’intento dell’autore, hanno lo scopo di dare voce alla variegata processione dei morti nel disastro minerario di Marcinelle (abruzzesi, pugliesi, siciliani, calabresi ) ma anche quello – andando oltre il perimetro del racconto – di esplorare un territorio lessicale più vasto, non circoscritto alla sua lingua materna coincidente con la varietà di Genzano di Lucania. Ma, trattandosi di un testo artistico, l’assemblaggio linguistico resta prevalentemente intenzionale e percettivo. La canzone, cioè, risulta dall’idea di rasentare una sorta di grammelot meridionale a prescindere dal fatto che i diversi termini utilizzati siano effettivamente riconducibili alle varietà alle quali l’autore ritiene di aver fatto riferimento. Parole e forme come vogghia, viddicu, solu, vrazza, ficiru, baliggia, a tìa, quannu, raggia, suli e strata, nisci e trasi, tarantula, sono da considerarsi tutti sicilianismi (anche a prescindere dalla loro “correttezza” formale: per esempio, solu e nisci dovrebbero essere sulu e nesci, rispettivamente); di area salernitana sono i costrutti comm o core, ca me fai, mo stimm, cca sto, mentre l’incipit della quarta strofa Li muerti ca so’ muerti, pertiene al dialetto pugliese. Il calabrese è rappresentato dalla voce riturnelli (seconda strofa) qui impiegato col valore di ‘rondinelle’.
Il gioco del mescolamento – che riguarda pure i dialetti della Basilicata, giacché l’autore attinge anche a varietà lucane altre dalla propria – è quindi condotto seguendo la suggestione iniziale di creare un testo «in cui fosse il rumore dei segni (sibili, spasmi, refoli e ruggiti) a dare il significato della storia». E poiché la storia è stata anche raccontata da Ignazio Buttitta, la ballata diventa un omaggio al poeta siciliano con la presenza ricorsiva, nel penultimo verso di ogni strofa, della citazione viddicu su viddicu. Quello di Mario Ciola appare, dunque, un testo di grande effetto e la sua forza poetica e linguistica esce ovviamente potenziata dalla messa in musica di Ezio Noto & Disìu.
Accanto agli autori dei testi, ci sono i protagonisti. C’è Ninnella, di cui si è detto; c’è Peppino Impastato (Traccia 8) protagonista del brano Radio Aut in cui si racconta la storia e l’attività radiofonica – negli anni ’70 – del giovane eroe siciliano entrato nell’immaginario collettivo per il suo coraggio e per il suo impegno contro ogni forma di sopruso che, pratica atavica in terra di Sicilia, aveva assunto negli anni ’70 i contorni non più sostenibili di un controllo totale sul territorio come sulle coscienze; un controllo smantellabile con la semplice e universale verità di uno slogan che avrebbe più tardi segnato la coscienza civile di generazioni di giovani siciliani e italiani; quello per il quale la mafia non è altro che una montagna di merda che tanto più cresce e si ingigantisce quanto più si compie l’errore o la leggerezza di provare a sguazzarci.
E c’è Calogero Marrone (traccia 12), nella canzone protagonista della sua stessa storia – raccontata dalla voce cantante – uguale a quella dei non tantissimi Signor Perlasca o Signor Schindler di uno scorcio tra i più bui del nostro contraddittorio Novecento: impiegato del Comune di Favara, trasferitosi a Varese per sottrarsi alle angherie del Podestà, da capo dell’ufficio anagrafe della città lombarda falsificò centinaia e centinaia di documenti di identità di cittadini ebrei e antifascisti, evitando loro l’esperienza dei campi di concentramento, dove invece egli stesso finì i suoi giorni (a Dachau) nel 1945, dopo essere stato scoperto.
E c’è Cosimo Barna (Li pisci di Cosimu, Traccia 3) artista di Sciacca che, cresciuto tra i banchi dei magazzini portuali adibiti alla lavorazione del pesce azzurro (il che spiega forse il fatto che per tutta la vita non smise mai di dipingere anciove), si trasferì ben presto a Milano dove fu tra i protagonisti, negli anni Ottanta, di quel movimento che occupò la Brown Boveri di Milano, fabbrica dismessa di cavi elettrici, trasformata in grande spazio permanente di pittura estemporanea.
Ma c’è anche Fatima che non è protagonista, ma semplicemente nome, simbolicamente evocato nella canzone più struggente di tutto l’album, Puppiti nterra (Traccia 9), brano che fa vibrare l’anima in una maniera, sì, profonda ma non del tutto inedita (a emozioni così forti Ezio Noto ci aveva già abituati con canzoni come “Cantu pi tia”):
Ninna nanna ninna oh
quantu picciliddi fannu la bobò
cu la fami e cu la guerra
comu birilli… puppiti nterra
[…]
Pi la terra pi lu granu
pi lu petroliu pi lu Coranu
c’è nna calunia sempri bona pi sparari
a nn’atra persona
To figlia dormi nta lu lettu
borotalco nta lu culettu
mentri Fatima chianci e mori
morta di fami e senza paroli
E c’è infine Rosa, la cantante siciliana che rappresenta il punto di partenza e di riferimento del “cantautorato” dialettale in Sicilia. Nell’attuale panorama musicale siciliano il peso e la lezione di Rosa Balistreri sono così evidenti al punto che molti artisti, non solo si ispirano alla sua musica e al suo stile, ma vantano nel proprio repertorio almeno una canzone a lei dedicata o ripresa dalla sua produzione. Tra questi anche Carmen Consoli e Etta Scollo. La prima ha contribuito a farne conoscere la figura al grande pubblico e, inoltre, ne ripropone alcuni testi durante i suoi concerti; la seconda, molto nota in Germania, ha realizzato un doppio cd-dvd dal titolo Canta Rò (per il quale ha ricevuto il “Premio RUTH 2007” e il “Premio Rosa Balistreri-Alberto Favara 2008”) dove vengono rilanciati diversi brani del repertorio della grande cantante siciliana.
In questo contesto si inserisce anche l’esperienza de I Musicanti di Gregorio Caimi che nel 2007 hanno pubblicato Pi nu perdiri lu cuntu, CD che ripropone diverse canzoni della cantante licatese, per la voce di Debora Messina. Ancora più recente è il caso degli Ipercussonici che hanno rielaborato Quannu moru faciti ca nun moru inserendola nell’album Carapace (2012), mentre è del 2013 la “rilettura” in chiave jazz di Rosa canta e cunta a opera di Eleonora Bordonaro & Majarìa Trio. Non ancora sotto forma di prodotto discografico, ma secondo la formula del concerto o del recital, spicca anche l’attività artistica di Giusy Schilirò i cui spettacoli sono incentrati sulla riproposta delle canzoni della cantante di Licata, come è il caso di numerose altre artiste siciliane tra le quali vanno almeno ricordate Francesca Amato, Rita Botto, Elisa Nocita, Ginevra De Marco, Alessandra Ristuccia, Debora Troìa, Adela (di Reggio Calabria), oltre a diverse voci maschili tra le quali spicca quella di Felice Rindone.
Dentro questo ricco e variegato scenario si inseriscono ora anche Ezio Noto & Disìu che con la canzone Rosa (traccia 11) offrono un dialogo immaginato – o ricordato – tra l’autore e la protagonista della canzone:
E qquantu tempu quantu tempu a ppassatu di lu tempu chi ppassava cu ttia quannu nta li iurnati di ventuti rancuràvatu mentri durmìatue stritta stritta nta lu me pettu e mmi cuntàvatu um-miliuni di penie cchi sorti di mmùrmurie cchi mmìnchia di chiàcchiari.Rosa nun chiànciri mai cchiù. | E quanto tempo quanto tempo è passato dal tempo che passavo con te quando nelle giornate di ventoti lamentavi mentre dormivie stretta stretta al mio pettomi raccontavi un milione di penee che sorta di lamentie che cavolo di chiacchiereRosa, non piangere mai più. |
Un dialogo intimo, confidenziale (l’autore ascolta la cantante lamentarsi mentre dorme, e la tiene stretta al petto, offrendole una spalla su cui piangere – sono più che note le tante traversie che hanno segnato la vicenda familiare e personale della grande cantante siciliana), per una canzone di grande impatto linguistico-retorico: le forme allocutive dirette, l’abbondante uso di figure dell’addizione, con esempi di epanalessi (quantu tempu quantu tempu a ppassatu; e ṣṭṛitta ṣṭṛitta nta lu me pettu), polittoto (E quantu tempu quantu tempu a ppassatu / di lu tempu chi ppassava cu ttia; a ppassatu …. passava…), anafora (e cchi ssorti di mmùrmuri / e cchi mmìnchia di chiàcchiari), iperbole (e mmi cuntàvatu um-miliuni di peni).
Sul piano formale, è interessante, poi, la ripresa di un tratto tipico della modalità esecutiva della canzone popolare consistente nell’integrazione sillabica eufonica, qui realizzata mediante l’uso della congiunzione e: e qquantu tempu … e mmi cuntàvatu. E si consideri ancora la ricchezza e la complessità lessicale del brano: la maggior parte delle parole della canzone sono costituite da fonemi consonantici alveolari e labiali con i quali l’autore crea, anche sul piano fonetico, ulteriori figure della ripetizione (ti rancuràvatu mentri durmìatu; e stritta stritta nta lu me pettu / e mmi cuntàvatu um-miliuni di peni), che sembrano sopperire all’assenza di rime. Si consideri anche la consonanza (mùrmuri : chiàcchiari) nella quale, peraltro, sono implicate due parole sdrucciole (nel testo, le forme proparossitone sono cinque: si tratta di un numero significativo, se si considera che le parole contenute sono meno di quaranta).
Ma il testo appare rimarchevole anche per l’adesione dell’autore alla propria parlata, come rivelano l’uso dell’articolo determinativo con consonante iniziale e di un tratto bandiera della morfologia verbale del dialetto di Caltabellotta: l’enclisi del pronome personale di seconda singolare (rancuràvatu, durmìatu, cuntàvatu) che qui serve anche a creare effetti di allitterazione.
Questa fedeltà e questa lealtà linguistica nei confronti del luogo della lingua del padre e della madre è tutta espressa anche nel profondo sentimento dei luoghi che pervade il CD e che trova formalizzazione esplicita nella traccia 7 che con il suo titolo, San Piddirinu Blues, svela la forte pregnanza che la Place identity assume oggi nella canzone scritta e cantata in dialetto. Questo omaggio a uno dei luoghi simbolo della Caltabellotta dell’autore, l’Eremo di San Pellegrino, che caratterizza il contrassegno territoriale più importante del paesaggio caltabellottese, è impreziosito, poi, dalle note della chitarra “Dobro” di Gai Bennici, raffinato chitarrista blues, originario di Licata, scomparso prematuramente nel 2016, pochi mesi dopo la registrazione della guitar line della canzone.
E, così, siamo venuti alla terza componente del crocevia di persone che si trovano nell’album: i musicisti, non solo siciliani, che qui sfilano a dirci e a ribadirci che l’arte e la bravura non si misurano con i marchi delle etichette, ma con la passione, l’amore “gli impulsi, le emozioni, la linfa vitale” che ogni incontro determina e mette a valore.
Ci sono i musicisti della formazione: Ezio Noto (voce, synt e piccole percussioni), Totò Randazzo (basso), Libero Reina (chitarra e cori), Valeria Cimò (tamburi, metallofono e cori), Eleonora Tabbì (cori), Pino Tortorici (fisarmonica), Roberto Ligammari (batteria), Mauro Cottone (violoncello). E ci sono anche tanti ospiti: oltre alla già citata Raffaella Daino, il Tenore della Scala di Milano Giuseppe Veneziano canta nel ritornello di Lu Paradisu è ccà, mentre nello stesso brano Gregorio Caimi suona il bouzouki, Giuseppe Maria Polizzi l’oud, Giuseppe Cusumano la bombarda, il sax soprano e il violino, Nicolò Lipari la viola e il violino; Antonio Bono suona il friscaletto in Lingua lippusa; Pasquale Augello suona i suoi tamburi a cornice e il darbuka in Lu Paradisu è ccà, Ninnella, e Lingua lippusa; Jean Mike Primo suona la chitarra in Rosa, Puppiti ‘nterra, Sciroccu di l’Arma, Radio Aut; Graziano Mossuto suona il piano in Calogero Marrone e la fisarmonica e il friscaletto in Sciroccu di l’arma; Giuseppe Cusumano suona il sax in Rosa e Marco Caterina lo suona in Lingua lippusa; diversi amici di Ezio Noto, Carmelo Russo, Cinzia Gulotta, Aurelio Quartararo, Pietro Mulè, Enzo Raffiti, cantano nel coro finale di San Piddirinu Blues, mentre Marco Milone e Roberta Izzo del duo napoletano Cattivo Costume suonano diversi strumenti un po’ in tutti i brani del disco.
Davvero un bel disco, un ‘respiro dell’anima’ come il titolo della traccia 6 (Hjatu), brano strumentale che, per modalità esecutiva, si lega idealmente alla traccia 1 – Le parole del tempo perduto – in cui Ezio Noto si prova in alcuni vocalizzi che richiamano la straordinaria arte di quel Demetrio che Franz Di Cioccio volle assumere a suo “Maestro della voce”. Ma nel primo brano c’è molto di più: canzone senza parole sulle parole, essa “introduce” il senso della ricerca linguistica dell’album (che poi è il senso della ricerca artistica di ogni autore che compia l’opzione dialettale): è certo che oggi non si può parlare una lingua che non esiste quasi più, semplicemente perché non esiste più il mondo che, fino a un passato recente, ne ha motivato l’uso. Il problema – come è stato osservato altrove – non è parlare o ri-parlare (o “trascrivere”) quella lingua, ma provare a immaginare quante risposte potrebbero venire intorno al problema del “chi siamo”, se interrogassimo seriamente il senso e il significato delle parole che la costituivano. Queste parole – parole di un tempo ormai perduto, certo – non sono forse parole del tutto perdute se possono continuare a esistere, sotto nuova forma e con nuove funzioni, anche grazie a chi, come i poeti o i cantautori, le ripropongono ponendole a fondamento del loro percorso creativo.
Sì, davvero un bel lavoro, quello di Ezio Noto & Disìu. Davvero un paradiso in terra quale «metafora – come si legge nella breve introduzione – della meraviglia interiore che ogni essere umano dovrebbe coltivare attraverso gli esempi, i temi, i valori, le passioni, la vita». Davvero un bel lavoro, infine impreziosito dal packaging che reca una nota introduttiva di Giacomo Bonagiuso e si avvale delle illustrazioni tratte dall’opera di Giovanni Proietto, artista interessante e incuriosente, le cui figure, che richiamano vagamente i volumi boteriani, sono costantemente situate in un décor superbo e suggestivo in cui campeggiano “giardini” di limoni dai colori decisamente e congruamente “mediterranei”.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Roberto Sottile, è Professore associato di Linguistica italiana nel Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Palermo. Con il Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) ha pubblicato il Vocabolario-atlante della cultura dialettale. Articoli di saggio (CSFLS, Palermo 2009) e il “Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 1. L’alimentazione, 2. Voci di saggio” (CSFLS, Palermo 2010-2011). Ha anche dedicato una particolare attenzione al rapporto tra dialetto e letteratura e tra dialetto e mondo giovanile. Recentemente ha pubblicato il libro intitolato Dialetto e canzone. Uno sguardo sulla Sicilia di oggi (Cesati, Firenze 2018).
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