di Sergio Todesco
Al netto delle elucubrazioni esoteriche che spesso la pubblicistica ha dedicato alla Sicilia, con titoli volti a solleticare il gusto di lettori della stessa risma degli illuminati ben descritti da Umberto Eco nel suo straordinario Pendolo di Foucault, è indubbio che l’Isola sia stata per secoli attraversata da correnti ermetiche quivi giunte dalla Spagna musulmana che introdusse in Europa opere di alchimia tradotte in latino, o da altre parti del continente, spesso attraverso la mediazione di studiosi, come Arnaldo di Villanova (presente a Messina tra il 1308 e il 1309), Raimondo Lullo (presente a Messina tra il 1314 e il 1315) o Athanasius Kircher (presente a Messina nel 1638), o di ambienti religiosi cui non era estranea la frequentazione con testi di scienze occulte ufficialmente censurati nell’Index librorum prohibitorum. Di fatto l’alchimia e le dottrine ermetiche mostrano un forte radicamento in Sicilia in un arco temporale assai ampio, basti pensare al palermitano Giuseppe Balsamo sedicente Conte di Cagliostro (presente a Messina tra il 1764 e il 1765), fino a tempi a noi più vicini, come mostrano le vicende di personaggi quali Raniero Alliata di Pietratagliata o Casimiro Piccolo.
La scoperta, fatta parecchi anni or sono presso la Biblioteca Regionale di Messina, di un manoscritto tardo-secentesco di alchimia contenente due “Canzoni” in ottava rima siciliana sulla materia e la pratica dell’Arte Filosofale, mi aveva confermato l’esistenza di una corrente culturale di tipo ermetico-alchemico, attestatasi nell’Isola fin dalla presenza araba ma qui incrementatasi lungo il Medioevo e la Rinascenza e perdurata fino alle soglie dell’Età contemporanea.
Non sono molte le tracce di una produzione alchemica “autarchica” in Sicilia; alla Biblioteca Comunale di Palermo è conservato un codice trecentesco contenente il Liber thesauri pauperum in dialetto siciliano, attribuito ad Arnaldo di Villanova; presso la stessa biblioteca si trova anche un Manoscritto di alchimia e di scienze occulte, vasta silloge di oltre settanta trattati del sec. XIV (il cosiddetto “Codice Speciale”, su cui esiste una dotta monografia di Isidoro Carini), mentre la Biblioteca Ventimigliana di Catania conserva un codice di alchimia del sec. XVIII. Nel 1983 J. Bignami Odier e A.M. Partini hanno pubblicato, all’interno di un saggio dedicato a Cristina di Svezia e le scienze occulte, una Canzone di ventinove ottave in versi endecasillabi con rime alternate (Opera del Siciliano filosofo – Siracusano) dedicata allo stesso tema.
Pochi anche i libri a stampa che testimonino di un tale interesse: l’opera di Giacinto Grimaldi Dell’Alchimia, edita a Palermo nel 1645, scritta per confutare a sua volta le tesi esposte nella Expostulatio contra chymicos, confutazione dell’impostura dell’alchimia di Francisco Avellino, stampata a Messina nel 1637. Agli inizi del XVIII secolo infine un gesuita messinese dedicava, nella sua Chimica filosofica, o vero problemi naturali sciolti in uso morale, un capitolo (Problema XX. Si può mai trovar la Pietra Filosofica?) dedicato all’alchimia.
A tale apparentemente rarefatta presenza di scritture locali va comunque ad aggiungersi la ricca produzione a stampa di provenienza europea presente nei più svariati fondi librari isolani; porto qui ad esempio l’ex Biblioteca gesuitica dell’Ignatianum di Messina, che conservava (ancorché purgato con vistose cancellature ad inchiostro nei passi ritenuti pericolosi o eretici) l’assai raro e famoso Theatrum Chemicum in sei volumi, pubblicato ad Argentorati (Strasburgo) nel 1659-61.
Se dall’excursus sulle fonti cartacee passiamo ai dati storici, il quadro diviene ancora più complesso e articolato; per rimanere a Messina, si considerino per un verso alcune tracce, nemmeno tanto labili, concernenti la pratica dell’alchimia presso cenacoli come quello degli Accademici della Fucina (la cui denominazione, peraltro, già in qualche modo rinvia a contesti da Forgérons), fondata nel 1639. Tali fermenti alchemici, pur non pienamente documentati all’attuale stato delle ricerche, affiorano con evidenza in alquante simbologie a tratti presenti in molte composizioni poetiche e in prosa elaborate all’interno del cenacolo, senza contare che uno dei componenti il sodalizio (Domenico Ruffo) aveva scelto per sé come appellativo proprio “l’Alchimista”. Nel 1653 l’Accademia diede inoltre alle stampe l’opera Il Mercato delle Maraviglie della Natura, di Niccolò Serpetro da Raccuja, in cui venivano esposti numerosi segreti della natura, alcuni anche di ordine alchemico. A causa di quest’opera Serpetro fu accusato di eresia e pratiche di magia dal Tribunale della Santa Inquisizione di Palermo, dal quale fu condannato al carcere.
Altra Accademia messinese fortemente segnata da simbolismi ermetici fu certamente quella della Clizia, fondata nel 1701, il cui emblema, l’Eliotropio o Girasole, bene mostrava come i componenti il sodalizio fossero imbevuti di frequentazioni con testi, e forse anche pratiche, alchemici.
È altresì significativa, sempre in ambito peloritano, una notizia riportata da Francesco Susinno su un episodio della vita del pittore messinese secentesco Onofrio Gabrieli, laddove viene riferito che costui «“… invanitosi di maniera e volendo spendere e spandere (…) diessi alle speculazioni di fare l’Alchimia e di congelare il mercurio, nel che fare internassi tanto che andò a terminare la storia dolente in doversi confinare tra’ PP. di S. Francesco di Paola …», testimonianza che aggiunge un ulteriore tassello all’ipotesi che l’alchimia venisse abbondantemente praticata anche in ambienti religiosi. Ricordo inoltre le passioni alchimistiche di Agostino Scilla e la temperie di credula fabrilità alchemica che vide impegnati tanti intellettuali messinesi nel Settecento, come emerge da una lettera del 1783 di Andrea Gallo a un Don Antonio Lapis, pubblicata agli inizi del XX secolo nell’Archivio Storico Messinese per cura di Letterio Lizio Bruno, nella quale si descrive un maldestro tentativo di impostura ai danni di un credulo Marchesino da parte di un sedicente adepto dell’arte ermetica.
La visione ermetico-alchemica dell’universo giunse forse a permeare anche l’ambito cerimoniale e rituale, stando almeno alle ipotesi formulate da Domenico Puzzolo Sigillo, storico ed erudito messinese operante nella prima metà del XX secolo. Costui, direttore dell’Archivio di Stato e di fede massonica, propose – in manoscritti inediti cui ho avuto la possibilità di accedere – una singolare teoria sulla festa dell’Assunta e sul senso della colossale machina festiva della Vara. L’orizzonte ermetico acquista infatti lineamenti più nitidi in quella sorta di documenti per servire alla storia della Vara che Puzzolo Sigillo raccolse in gran copia, alternando alla proposizione di straordinarie trascrizioni d’archivio i riferimenti a una letteratura di stampo esoterico-tradizionalista, molto diffusa negli anni ’20-’30 presso una parte non trascurabile degli intellettuali italiani (entro un più ampio quadro culturale europeo contraddistinto da forti istanze irrazionalistiche), comprendente Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, Roma 1928, Julius Evola, La Tradizione Ermetica, Bari 1931 e il rarissimo Dante Gabriele Rossetti, Il mistero dell’amor platonico nel Medioevo, 5 voll., Londra 1840.
All’interno di tali quadri di riferimento, sostanzialmente metastorici, in cui si cercava di dare corpo alla costruzione di un’identità di Messina attingendo a dottrine esoteriche tardo-medievali nonché a una genealogia della città assai sensibile agli aspetti misterici della sua fondazione, o comunque a quella che J. Seznec chiamerebbe la sopravvivenza degli antichi dèi (negli appunti di Puzzolo si cita a più riprese il raro opuscolo di Giuseppe Miraglia, Ubicazione dei tempii pagani nella Messina moderna, del 1903), si snodano minuziosissime indagini d’archivio, con la restituzione di notizie attinte da atti notarili trascritti, relative a contratti di affidamento di lavori di svariata natura concernenti la grande machina della Vara e i due colossi Mata e Grifone.
Attraverso tale percorso, che comprende e lega insieme vicende politiche, istanze esoteriche e grandi eventi della storia patria, Puzzolo Sigillo ci introduce all’enigma della Vara, non già bara o fercolo, bensì lauda o sacra rappresentazione, piramide sacra risalente agli inizi del XIII secolo la cui messa in opera, secondo la lettura proposta dallo studioso, consentiva simultaneamente la possibilità di una triplice fruizione: quella cattolica, attraverso l’apoteosi della Vergine Maria Madre di Dio; quella settaria latina, attraverso una continuazione del culto latino dell’Alma Cerere, Dea Madre delle Messi, culto agostano sopravvissuto all’avvento del Cristianesimo e perseguito come strategia utile al mantenimento di un’identità etnica avvertita come periclitante di fronte a spinte acculturative esterne (i Greci, il Papato, l’Impero); e quella ermetico-alchemica, contenente i simboli delle varie tappe di un cammino spirituale e iniziatico il cui contenuto si sarebbe trasmesso secondo insegnamenti segreti, al contempo artigianali ed esoterici.
Puzzolo Sigillo, con le esagerazioni proprie di un certo esoterismo del suo tempo, dalle indubbie prospettive neo-paganeggianti, attingendo a piene mani a quella sorta di zona d’ombra della cultura massonica in cui si pretendeva che il simbolismo ermetico occultasse messaggi ereticali e politici, scrive: «…In quanto camuffarono inventarono un linguaggio segreto con cui fingendo di poetare d’amore si comprendevano tra loro; mentre i simboli della loro Dottrina settaria ermetica li camuffarono sotto specie di una rappresentazione del domma cattolico dell’Assunta».
Di tali insegnamenti segreti il tanto citato quanto mai conosciuto Radese (secondo la letteratura ufficiale ideatore cinquecentesco della Vara) non sarebbe stato altro che uno dei depositari. Costui infatti, il cui vero nome era Antonino Ravesi, attivo almeno dal 1504 al 1532, non poteva, a giudicare dai documenti raccolti da Puzzolo, essere stato l’inventore della Vara, secondo quanto tradizionalmente sostenuto e fino ad oggi acriticamente accettato, bensì uno dei numerosi Magistri della Vara o parrini di la vara, preceduto da un D’Alibrando non meglio identificato, padre della moglie di Ravesi Nicoletta D’Alibrando, e seguito dal figlio Franciscus Ravesi anch’egli mastro de la Vara, già citato in un atto del 1521 e quindi collaboratore del padre, nonché dai generi Giovannello Cortese (fino al 1546) e Masi de Santi (fino al 1561), dal genero di Cortese Jacopo Xicli (dal 1574 al 1609) e dal figlio di quest’ultimo Presti Giovan Battista Xicli eletto a seguito di rinuncia del padre il 30 ottobre 1609 e indicato come parrino di la vara almeno fino al 1637. Si tratta come si vede di una trasmissione di saperi e competenze artigianali, ma forse anche di contenuti dottrinari sui quadri di riferimento teologici, astrologici e misterici della grande machina, secondo una linea rigidamente maschile, da padre a figlio o da suocero a genero.
Quanto fin qui richiamato giova a rafforzare l’ipotesi di una città che, come tante altre in Sicilia, nonché essere emarginata e periferica rispetto alla circolazione di idee assai in voga in tutta Europa, da tale circolazione risulta direttamente investita.
Passando a esaminare le due Canzoni, va detto che nonostante esse occupino una minima parte (tre fogli in tutto) del corposo manoscritto (un volume in 4° rilegato in pergamena di 303 fogli numerati al solo recto), dedicato alla trascrizione di importanti opere alchemiche del tempo (il Novum Lumen Chemicum e altri scritti di Michele Sendivogio, il Della tramutatione metallica sogni tre dell’erudito bresciano Giovan Battista Nazari, la celeberrima Pretiosa Margarita Novella attribuita a Pietro Bono da Ferrara etc.), costituiscono in effetti la porzione più pregevole del volume, per la loro evidente origine locale e, soprattutto, per la curiosa testimonianza da esse offerta di un uso particolare cui in passato è stato piegato il dialetto siciliano: di descrivere cioè operazioni ermetiche in odore di magia facenti parte di un universo culturale esoterico e tendenzialmente “aristocratico”, la cui presumibile area di elaborazione avrebbe pertanto dovuto essere, come di fatto è stata storicamente, ben distante dai contesti “popolari” cui ordinariamente si riconduce un registro linguistico subalterno come il dialetto. È pertanto plausibile che le canzoni siciliane qui proposte costituiscano un significativo esempio di produzione letteraria esito di un equilibrio sincretico fra cultura popolare e cultura dotta, le cui dinamiche viene così reso possibile cogliere in vivo.
I testi contenuti nel volume possono comunque aiutarci a valutare tanto la circolazione di testi famosi in tutta Europa in un ambito apparentemente “provinciale” quale quello messinese del XVII secolo, quanto la particolare competenza in materia dell’ignoto amanuense, che collaziona gli scritti dimostrando una consuetudine da studioso, in grado di padroneggiare ampiamente il latino. Un appunto alla fine del volume («brevitatem rei citius invenies apud Dionisium Saccarium, et apud Filalectam, seu introitus apertus ad Palatium Regis») ci consente inoltre di fissare un termine post quem il manoscritto potè essere redatto, dato che la prima edizione del volume di Ireneo Filalete risale al 1667 (Eirenaeus Philaletha, Introitus Apertus ad Occlusum Regis Palatium; Autore Anonymo Philaletha Philosopho (…), Amstelodami, Apud Joannem Janssonium à Waesberge & Viduam ac Haeredes Elizei Weyerstraet, 1667). Tutto concorre insomma a far supporre che l’autore sia un religioso, tenuto altresì conto che i manoscritti posseduti dalla Biblioteca Regionale provengono con certezza da un fondo gesuitico e da biblioteche conventuali.
Vane sono risultate le ricerche volte a dare un’identità al Mastro Roberto Della Valle autore delle due canzoni, come pure del misterioso autore, il cui nome si nasconde sotto un anagramma, del sonetto in volgare che le segue, nel quale si abiura la pratica alchemica dapprima sperimentata manifestando una ritrovata adesione alla fede cristiana.
Questo straordinario documento locale, in cui il dialetto viene utilizzato per una materia al contempo aristocratica e in fumo di eresia, dispiega a ventaglio una gamma di nodi problematici. Si potrebbe pensare al dialetto come veicolo di ulteriore “nascondimento ermetico”, e in tal senso deporrebbero alcuni componimenti poetici elaborati in seno alle citate Accademie, in cui è evidente l’intento di mascherare sotto versi di argomento in apparenza amoroso, mitologico o bucolico contenuti di tipo sapienziale. Il modello storico più illustre di queste forme poetiche era naturalmente il Dolce Stil Novo e l’universo simbolico dei “Fedeli d’Amore”, nelle cui composizioni la donna amata allude a una Sapienza di tipo trascendente la cui conquista viene assicurata attraverso percorsi di tipo iniziatico.
Al contempo le Canzoni di Mastro Roberto della Valle potrebbero esprimere, sempre come elaborazioni maturate all’interno di un contesto colto cui non risultavano mai estranei orizzonti autarchici, vezzi campanilistici e tentativi di esperire contenuti autonomi della cultura locale.
Altra ipotesi è che l’impiego del dialetto fosse stato proposto come codice utile a verificare e/o dimostrare l’universalità delle simbologie ermetico-alchemiche e la loro “traducibilità” in idiomi lontani da quelli storicamente deputati (l’arabo, il greco, il latino).
La soluzione a tali ipotesi, tutte fin qui indimostrate e al contempo plausibili, non può che esser legata a un approfondimento dei contesti in cui vide la luce il manoscritto, e che potrebbe riservare sorprese rispetto alle apparenti certezze su cui riposa certa storiografia abituata a tagliare con l’accetta – in modo manicheo – i fatti culturali. Una puntualizzazione storica, tutt’altro che peregrina, è quella che rimanda al probabile periodo di redazione del codice, la fine del XVII secolo o l’immediato inizio del XVIII. Un periodo, come sappiamo, caratterizzato da uno dei momenti più critici della storia di Messina, quello del ritorno degli Spagnoli nella città dopo la rivolta filofrancese del 1674-78 e della durissima repressione che ne seguì, che vide la cancellazione di ogni privilegio, l’abolizione del Senato Messinese, il trasferimento della Zecca, la soppressione dell’Università, la persecuzione e deportazione di tutti i promotori della rivolta e la spoliazione dagli archivi di migliaia di documenti che costituivano la memoria storica della città.
A me pare opportuno, all’attuale stato della ricerca, dare spazio alle canzoni, qui di seguito trascritte integralmente rispettando la grafia e i refusi originali, con l’avvertenza che la stessa composizione dei testi, due dei quali pienamente intrisi di dottrina ermetica mentre il terzo a ogni evidenza frutto di pentimento e di abiura, potrebbe ascriversi ad autori diversi. Le poche annotazioni marginali dell’ignoto amanuense sono state riportate tra parentesi, precedute da un asterisco.
Come è facile percepire dalla lettura, si tratta in ogni caso di un autore assai competente in tema di letteratura alchemica, le cui citazioni abbondanti e appropriate riguardano operazioni presenti nei testi alchemici dell’epoca e autori oltremodo famosi in tutta Europa, quali Arnaldo di Villanova (medico e alchimista catalano, presente in Sicilia agli inizi del XIV secolo alla corte di Federico II di Aragona), Geber (Abū Mūsā Jābir ibn Ḥayyān al-Azdī, alchimista arabo medioevale), Aristotele, Avicenna. È inoltre inequivocabile il doppio registro – reealistico e simbolico – impiegato nel descrivere tecnicamente le singole fasi dell’Opera, e tuttavia emerge altrettanto chiaramente come sia dominante la prospettiva esoterico-iniziatica della materia trattata, il cui fine riserva all’adepto un completo e definitivo affrancamento dalle leggi naturali (Cui purrà chisti versi interpetrari / sarrà patruni di zoch’è sugettu; Si sì furmica tornirai Liuni, etc.). Rimangono infine degne di nota la potenza immaginifica e la forza evocativa dei versi, la cui prometeica modernità cattura e affascina il lettore.
Ulteriore interesse delle Canzoni è infine costituito dall’utilizzo di termini oggi desueti nel dialetto siciliano (pussanza, cassu, a gutta a gutta, padisci, incuntinenti, onninamenti, giurranda, cunorti etc.), ma qui presenti nella loro vitalità e in grado di esprimere nella nostra lingua operazioni complesse di teurgia chimica.
“Canzoni di Mastro Roberto della Valle siciliano
intorno alla materia e prattica della Pietra filosofica”
1
Nelli caverni oscuri e munti brutti
si ritrova una petra, ch’in mult’anni
ha fattu la natura, e li soi frutti
fannu a cui l’ascia nesciri d’affanni
e trovasindi a li paisi tutti
d’Italia, Franza, Spagna ed Alemanni
e nota beni li mei versi e mutti
chi parru senza fraudi e senza inganni
2
Di petra ha forma comu veramenti
Arnaldu à li soi libri nota e scrivi
e di natura sua, tuttu è putenti
che si trasmuta in undi chiari, e vivi,
ed ha pussanza di fari li genti
richi, e ben sani, e di fastidiu privi
di modu chi sarrai sempri cuntenti
si cu l’ingegnu à lu secretu arrivi
3
ed è composta di quattru elementi
si comu voli in tuttu la natura
Pighiali in manu netti e risplendenti
cu summa diligentia e multa cura
e poi l’attacca tutti strittamenti
l’unu appressu di l’autru, e ben procura
chi sianu stritti forti, e talimenti
chi nuddu focu li dugna paura
4
Sta petra tantu nobili e giocunda
ch’in lu so occultu natura ci là misu
L’anima tanta bedda lustra e munda
Ch’è un veru suli, e di chistu t’avvisu
Ma si tu fai chi lu so focu e l’unda
l’haggi di l’autri parti ben divisu
Di quantu beni voi tuttu t’abbunda
senza peccatu cu piaciri e risu
5
Havi lu spirtu, è corpu, havendu l’alma,
e truviralla cui sapi operari
Si voi chi la furtuna torni calma
voghi la petra in quattro parti fari,
e non ti para gravusa la salma
di multi voti lavarila a mari
chi comu è netta ti darrà la palma
di quantu tu purrai desiderari
6
Platuni voli chi tri voti sia
in acqua chistu corpu misu in fundu
Lavalu tantu chi tua fantasia
canuscia chi sia puru, vivu, e mundu
chi comu è nettu gran causa haviria
un’autra vota turnari à lu mundu
e rendiri piaciri e curtisia
à cui l’ha misu à stu statu giocundu
7
Ed ogni vota chi lu voi lavari
ricordati chi sia beni asciucatu
si tu n’ha suli voghi preparari
un bagnu chi sia un pocu caudiatu
e lassalu ddà tantu dimurari
chi ricanusci chi sia ricriatu
e poi lu focu voghi rinfurzari
ch’asciuchi l’acqua, e restiti annittatu
8
Solvi li corpi in acqua, e chistu passu
ha fattu beni cui l’ha ’ntisu tuttu
cui no l’intendi mettasi d’arrassu
pri non ristari cunfusu e distruttu
e quando sarrà frittu comu un tassu
dallu in putiri a lu draguni tuttu
tantu chi resti di sua vita cassu
e chi desij lu perdutu fruttu
9
A talchi resti satisfactu, presti
L’aurichi dammi ad ascutari intenti
Bisogna chi stu corpu primu resti
privu d’ogni bruttizza e ben lucenti
e curra comu un oghiu a gutta a gutta
chiaru in culuri d’oru risplendenti
e poi lu duna in putiri a la pesti
nella sua cambaredda rilucenti
10
E stia cu chista pesti cundannatu
sintantu chi canusci chi sia mortu
in terra nigra tuttu cungelatu
e chistu sia lu primu tò cunfortu
Poi l’ardi tantu chi sia caucinatu
e comu l’hai cunduttu a chistu portu
Sacci di certu chi sarrai beatu
si tu sai beni cultivari l’ortu
11
Mentri chi sta à lu passu d’agunia
e chi n’è mortu ancora veramenti
gridirà multu forti, cridi a mia
pri lu travaghiu e fatica chi senti
Coghiri stu suduri duviria
l’homu chi fussi saviu e prudenti
e poi ben nettu lu cunserviria
intra d’un vasu diligentimenti
12
Pirchì faria miraculusi gesti
quandu tempu sarà di dari initiu
E cu lu tempu risuscita presti
non aspettandu finu à lu giuditiu
Sarà di multi signi manifesti
quandu ch’è mortu, e darà veru inditiu
C’havirà bianca e poi russa la vesti
e mai non cessirà gridari sitiu
13
Allura dacci a biviri na pocu (* mestrum)
di l’acqua amara stupida et ardenti
non stari tantu chi diventi crocu
ogni fiata chi chiamari senti
Ma subitu chi bivi à lu so focu
lu porta, e fallu stari destramenti
e comu lu padisci a chiddu locu
daccindi nautra pocu incontinenti
14
Sacci chi chistu biviri è infinitu
e sempri chi tu voi non speddi mai
e comu tu canusci ch’è cumplitu
di chidda etati ch’ammazzatu l’hai,
Pighialu in manu, e fa chi sia ben fritu
e poi l’esalta cu calidi rai
e multu presti l’havirai guaritu
S’un autra cosa a modu miu farai
15
Va pighia l’alma chi tu l’hai attaccatu (* Cristalli usciti dal rosso)
quandu di lu so corpu nisciu fora
e dunaccindi un pocu, e poi scalfatu
lu teni qualchi spatiu e dimora
Poi lu riguardi ch’havirà lu ciatu
e nci sintirai diri sta palora
Di mortu vivu su risuscitatu
ed’è bisognu ch’ogn’unu m’honora
16
Hora vi voghiu à tutti dimustrari
li mei pussanzi chi sunnu infiniti
Vughiati dissi dunca dimandari
ch’incuntinenti cuntenti sarriti
Li duni chi vi voghiu prisintari
non sunnu giochi festi ne cunviti
Pirchì vi voghiu a tutti ricchi fari
di modu chi mai chiù bisognu aviti
17
e subbitu li detti a chiddi genti
tutti li cosi chi ci dumandaru
di modu chi ristaru assai cuntenti
et à li casi loru sind’andaru
Stettiru sempri ricchi ed opulenti
e tutti li piaciri si pighiaru
Ringrattiandu à Diu omnipotenti
di iornu e notti fin’a chi camparu
18
E pirchi li planeti tutti foru
pronti a furmari sua bedda pirsuna
Li detti un dunu a tutti quanti foru
Si trasmutassi cui in suli cui in luna
Detti à lu mastru tantu argentu ed’oru
chi mai non vitti puvirtà nisciuna
poi di mirtu, e triunfali alloru
nci misi in testa nà bedda curuna
19
Tornu di l’elementi a rasciunari
pirchì sta porta principali importa
Non ti rincriscia dicu putrefari
pirchì di l’operari chistu importa
l’acqua pri la lambicu distillari
divi à lu bagnu, e lassa pri la storta
e poi la terra tantu caucinari
pri fina chi canusci chi sia morta
20
Voli lu focu ogni unu sapienti
chi tu lu purghi tantu chi sia nettu
in summa tutti quanti l’elementi
volinu haviri lu culuri rettu
l’acqua ritrovu chi sia ben lucenti
russu è lu focu in culuri perfettu
la terra bianca sia, l’aria splendenti
chi non sia d’acqua ne di focu infettu
21
Havendu fattu chistu tu farrai
lu chiù tesoru ch’a lu mundu sia
Poi tutti insiemi li componirai
pri li rasciuni di filosofia
Primu una libra d’oru purghirai
cu l’acqua fridda chi lu corpu havia
e tanti voti lu calcinirai
chi torni biancu pri sua curtisia
22
Allura li culuri firmi e boni
si vidirannu visibilimenti
e poi facendu la coniunzioni
diventa tutta bianca incuntinenti
e fatta c’hai la sublimationi
fermati (siddu è russu risplendenti)
Dapoi t’accosta à la fissationi
chi ci bisogna dari onninamenti
23
Non sulamenti bisogna fixari
sta midicina acciò chi sia cumplita
ma ci bisogna in tuttu ingressu dari
à tal chi tegna virtuti infinita
e guarda in chisti cosi non errari
si tu voi haviri l’opera cumplita
Ancora nautra cosa ricurdari
ti voghiu, pri tu sciri à la via trita
24
Quando lu mestruu hai fattu è tu lu ietta
d’intra d’un vasu è mettilu à lu focu
ma fa chi stij cu la menti netta
facendo d’homu gravi e non di jocu
in primu focu lentu si ci metta
e poi lu furzirai di pocu in pocu
tantu chi bùghia, è non cu multa fretta
chi violenti lu locatu è locu
25
Stu passu prima importa a tutta l’arti
comu Rinaldu recita è cumanda
Al hura purrai fari quattro parti
di sta minestra e fa chi non ti spanda
e metti l’una di l’autra in disparti
e dapoi pighia fetida vivanda
e truviraicci d’intra ascusu à marti (*cro cus)
chi ti darrà d’honuri la giurranda
26
Saturnu, Venus, Mercuriu, cu Giovi
pronti li trovi in chiddu locu intendu
e tu di l’acqua fridda quandu chiovi
si ietta in facci a tutti à to cumandu
e vidirai chi nuddu non si movi
anzi ogn’unu nd’aspetta disiandu
è tu di chiddu statu li rimovi
e va di gradu in gradu sublimandu
27
Comu su netti, la gratia divina
voghi continuamenti ringratiari
Allura forma la tua midicina
Vulendu argentu finu et oru fari
Un autra cosa à parrari m’inclina
pr’haviriti di tuttu à sadisfari
e poi di fari beni ti destina
à poviri, è cattivi liberari.
28
Ti voghiu rasciunari di li vasi
à talchi di l’intuttu ti cunorti
Concludi l’Ortulanu, è S. Thumasi
chi sulamenti sianu di dui sorti
e sianu intrambu rutundi e non spasi
li coddi longhi sianu, dritti, e torti
et à li punti loru giusti e rasi
Pri siggillari beni e multu forti
29
Quattru furneddi in tuttu divi fari
e cridi sulu à la mia opinioni
Lu primu furnu sia pri putrefari
e l’autru sia pri distillattioni
Lu terzu pri vuliri caucinari
è poi fa l’autru pri coniuntioni
Pirchì autramenti t’esponi ad errari
cu multa e grandi tua confusioni
30
Chist’è na medicina dichiarata
la chiù felici, perfetta, e superna
e chist’è la diadema coronata
chi sana certu ogni pirsuna inferma;
chist’è la vera scientia pruvata
chi fa allegrari l’auceddu chi sverna
e chista è la ricetta ritruvata
Di Geber, Aristoteli, e Avicenna.
31
In nomu di Diu forti e principali
haiu cumplutu chistu miu cuncettu
ma non ti incriscia passari lu sali
tantu lu passa fina chi sia nettu
Haggi lu to nimicu à sublimari
fallu tri voti dicu in focu nettu
Cui purrà chisti versi interpetrari
sarrà patruni di zoch’è sugettu
32
Ti scrissi tutta l’arti integramenti
comu operandu vidiri purrai
e si l’intendi diligentimenti
Lu gran secretu in putiri havirai
Cchà fazzu fini à li rasciunamenti
e preguti chi l’arti stimi assai
Chi non sparagni travaghi ne stenti
Quando lu beddu corpu annittirai.
finis
“Sonni d’un filosofu sicilianu anticu supra l’arti Alchimica”
L’inventuri s’insunnau
vidiri una gran sciumara
stupida fitenti ed’amara
chi tuttu si spavintau
In dui parti equalimenti
chiddu sciumi si spartia
e l’una veramenti
salata nci paria
e l’autra sindi ija
cu la bucca afflitta e magra
parìacci forti et agra
tantu chi non la tastau.
Ciascunu brazzu di lu sciumi
curria dudici mighia
cu tal modu e tal costumi
ch’è grandi maravighia
non nci è homu chi ndi pighia
tantu è piriculusu
cui lu gusta e l’havi in usu
l’Altu Diu lu cunsighia.
L’unu brazzu sindi andava
intra un locu quasi tundu
di nisciuna parti spirava
chi si ripusava in fundu
poi nci parsi un autru mundu
e paria chi fussi infermu
e lu fundu supra un pernu
fu pusatu, e dimurau.
Non intendu alcunu focu
ne gran friddu chi parissi
veru chi di dda na pocu
nci parsi chi ridissi
unu chi nci purgassi
setti vasi beni ornati
undi nceranu apparichiati
li vivandi chi mangiari
Certamente in chiddu puntu
incuminzau à sintiri
lu travaghiu ch’era vintu
la pena e li martiri
e cu tutti li suspiri
lu pighiau cu festa e giocu
da poi sintiu lu focu
chi tuttu lu scarfau
La vivanda e li vasi
erano di dui musturi
pri paura non mi spasi
chi campava cu terrori
ad ogni vinti quattro huri
pighiava la crottioni
et haviva l’occasioni
chi tuttu lu declinau.
Sa non era pani e carni
ch’era venenu e morti
ne ancora pernici e starni
ma acqua acitusa e forti
eccettu chi pri bona sorti
una parti di farina
chi tuttu lu ricriau.
Compliti li setti iorni
paria di vinticincu anni
pri tutti li contorni
s’alligrava senza danni
havia eccettu alcuni affanni
pri lu solitu caluri
e quistu sempri tutti l’huri
tantu chi si maturau.
Non pinsandu a chistu mundu
eccettu chi al altu Diu
ch’era spintu di lu fundu
paria al ingegnu miu
allura giudicai Iu
chi criscia di virtuti
tanti foru li camuti
chi tuttu s’annigricau
Chistu mundu abbandunau
lu so spirtu è la sua alma
tuttu quantu tramutau
la fortuna turnau calma
happi chidda vera palma
e lu portu di saluti
tutti sunnu cechi e muti
eccettu cui l’indivinau.
Ancor chi lu corpu so
fu disfattu e fattu terra
e ben cridiri si può
chi lu mortu non fa guerra
chistu mundu già s’afferra
cu tutti dui li manu
vidirailu vivu e sanu
e dirrai risuscitau.
Di la terra nigra e oscura
si farrà la camellina
si tu guardi e teni cura
vidirai poi la citrina
e divintirà farina
pri cui lu mundu campa
chist’è l’oghiu di la lampa
chi sempr’ardi e mai non manca.
Poi vidiri s’iddu è veru
chi non piangi pri fatiga
comu facia primeru
pri molestia di briga
anzi si stringi è liga
la sua peddi pulpa ed’ossa
in tandu cava la sua fossa
è dirrai santificau.
Lu marti di la sira
quantu di pocu caviali
lu primu annu è calamita
ti suspinci senza l’ali
si no ti veni mali
lu secundu e terzu annu
à tutti chiddi chi lu sannu
Salamuni nci parrau.
Ma cui voli prosperari
è campari comu un Re
non si voli disperari
di lu so sangui si c’è
iu ti giuru pri mi fè
cu pura concientia
chi tutta la scientia
lu poeta ti narrau
l’Inventuri s’insunnau.
O’tu chi leggi chisti mei canzuni
à tutti l’autri lassa è cridi à mia
chi multi su ristati à lu rituni
pasciuti di la loru gran follia
S’annu fattu stimari Bestiuni
cu li loru pinzeri è fantasia
Si sì furmica tornirai Liuni
cridimi zertu è poi beatu tia.
fine
“Sonetto del Prè (il di cui nome si contiene in Anagramma) TIMOTEO PEDALZOZ
Nel di cui sonetto dichiara il suo senso che si deve fugire quest’Arte Alchimistica”
Vane speranze andate ad Albergare
Fuor del mio cuore, o di Plutone, o Aletto
Ne promettete più gioia, o diletto
Ma solo inganni, e le dovizie amare
e se cieco ne fui in rammentare
Nuova usanza di fuoco, al fuoco astretto
Il fuoco fuggo, e di alchimista ‘l petto
Sò chè l’fuoco divin farò soffiare
Perdonami Sig.r, humil t’adoro
solo a tè unica speme oggi ravviso
e in ogni piaga tua scopro un tesoro
Lapis fù il sangue tuo, che in Croce assiso
Non fosti a Trasmutar il ferro in oro
Ma l’Anime dall’Inferno al Paradiso.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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