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Mezzo secolo di esperienza degli Ecomusei nel racconto di de Varine

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il centro in periferia

di Claudio Rosati

«Ho inventato la parola ecomuseo per caso. Mille altri le hanno dato un contenuto, o meglio più contenuti, ogni volta diversi». Raramente un incipit riesce a dare, in modo così conciso ed esplicito, il senso di un libro. Si potrebbe dire che chi conosce molte parole, ne usa poche: quelle che servono. É il caso di Hugues de Varine che racconta mezzo secolo di esperienza nel mondo dei musei e della fortuna di un termine che ha suscitato e interpretato attese diverse dall’Europa al Canada, dal Brasile alla Cina. Lo fa in L’ecomuseo singolare e plurale. Una testimonianza su cinquant’anni di museologia comunitaria nel mondo, uscito per i tipi di Utopie concrete, una piccola casa editrice legata all’Ecomuseo delle Acque del Gemonese che denota in questo modo l’iniziativa militante dell’impresa editoriale.

Hugues de Varine ha avuto con l’ecomuseo di Gemona – «un’agenzia che promuove lo sviluppo sostenibile del territorio», lo definisce Maurizio Tondolo curatore dell’edizione del libro – un rapporto significativo, come con altre situazioni in tutto il mondo. «È mosso da una grande curiosità, è disponibile all’ascolto, è aperto al dialogo e al confronto rimarcando una generosità che non è di tutti i suoi colleghi», tratteggia Tondolo.  Ci restituisce così lo spessore dell’autore, immerso nella pratica e nella riflessione, consapevole, forse, come diceva un suo connazionale, che l’esperienza non ci fa saggi, ma tutt’al più esperti. La prima edizione del libro è apparsa in Francia, nel 2017, per L’Harmattan. La traduzione italiana è di Alessandra Boccalatte e la revisione di Daniele Jalla, autore anche dell’introduzione. 

Ricordi, incontri, personaggi

Il racconto di de Varine, sostenuto dall’osservatorio privilegiato che ha avuto dal 1965 al 1976 come direttore dell’International Council of Museums, illustra la complessità di un movimento, che ha innovato, a partire dagli anni ’70 del Novecento, la museologia e la pratica museografica, muovendo dalla «critica sostanziale del museo statico ereditato del XIX secolo». L’ecomuseo ha rappresentato l’eresia del “museo senza collezione” che nasce privata e associata, in genere, all’emergere di una classe. A lungo la collezione è stata performativa dell’idea stessa di museo. Negli anni ’60 il comitato internazionale di Icom più numeroso e che funzionava meglio era proprio quello della conservazione. «Volenti o nolenti, – scrive Daniele Jalla – siamo tutti prigionieri di un’immagine di collezione,  tradizionale e comune alla storia del collezionismo e del museo, che porta a vederla come insieme di oggetti materiali, mobili ed esponibili da custodire all’interno di luoghi e istituzioni a questi deputati: i musei».

Nella riflessione di de Varine, la collezione perde la sua centralità referenziale e viene rifunzionalizzata nel discorso ecomuseale del “patrimonio vivente” che si riflette nelle memorie, nei saperi, nei saper fare, nelle tradizioni e nei riti. É questo patrimonio l’obiettivo dell’ecomuseo, tanto che de Varine suggerisce che sia lasciato alle amministrazioni pubbliche il compito di tutelare e valorizzare il “patrimonio culturale”. Non è una prospettiva limitata e il caso italiano ne dà un esempio con ecomusei e musei, per lo più spontanei, che hanno recuperato e restituito alla fruizione pubblica manufatti di edilizia rurale e popolare che pur il Codice dei beni culturali e del paesaggio identifica, in alcuni casi, come beni culturali. Si tratta, quindi, di una pratica di sussidiarietà e di tutela diffusa che contrasta con la visione centralista che spesso si ha sul tema. De Varine – e non credo che sia casuale – non fa mai riferimento alla Convenzione di Faro del 2005, anche se la sua idea di patrimonio ha di fatto anticipato quella del documento del Consiglio d’Europa. Le sue sono sempre considerazioni che emergono dalla pratica di campo. A partire da quelle sui personaggi di cui dà un profilo spigliato anche con la matita di Marisa Plos. Quasi tutti non accademici nella disciplina museologica, sono quegli “inventori”, dalle biografie irregolari, a cui l’autore rende omaggio. Il libro scandito da pratiche, battaglie e invenzioni dell’ecomuseologia, ha il ritmo incalzante del diario di campo.  E mette sul tavolo molti argomenti.

Conviene, allora, procedere per temi, seguendo le parole dell’autore, per coprire possibili punti di interesse per il lettore italiano, soprattutto se impegnato nelle attività degli ecomusei. 

Ecomuseo delle Acque di Gemona

Ecomuseo delle Acque del Gemonese

Una parola inventata per caso

Di fronte al successo planetario che il termine ha avuto, la dichiarazione che abbiamo riportato all’inizio sembra quasi un espediente retorico, ma non lo è. L’autore ricorda come abbia inventato la parola ecomuseo, quasi all’impronta, per convincere un ministro francese dell’ambiente, che avrebbe dovuto tenere il discorso di apertura in una conferenza generale di Icom, ma che recalcitrava a usare la parola museo perché non amava i musei, li trovava polverosi e fuori moda. De Varine voleva coinvolgerlo per stabilire una relazione tra i musei di scienze naturali e la nascente preoccupazione politica globale per l’ambiente. La trovata del prefisso eco, come abbiamo visto, ha successo. Sul momento contingente con il ministro e nella realtà, «perché il mondo del patrimonio, dei musei e dell’educazione popolare era pronto per la nascita di un movimento innovativo e di apertura a nuove idee e nuove realtà».

Ecomuseo diventa così un termine polisemico, non senza qualche confusione. Può scegliere strade diverse di azione e per questo motivo ogni ecomuseo è unico ed è, soprattutto, un processo. Fa parte, allo stesso tempo, di un ambito più ampio del suo alveo tematico. Ecomuseo e museo comunitario (preferito da de Varine) si intersecano. Ecomuseologia, nuova museologia e museologia sociale hanno, a loro volta, punti di contatto, ma anche differenze che si confrontano e qualche equivoco. Quello che accomuna gli ecomusei e la museologia comunitaria, è la logica di servizio: non si serve l’ecomuseo o il museo, ma il patrimonio («un corpo vivo, in cui non c’è distinzione tra il patrimonio materiale, tangibile, e quello immateriale, intangibile»). L’ecomuseo è un mediatore tra il patrimonio e la comunità. Quella che potrebbe apparire come una condizione fluida è in realtà ben circoscritta da quelli che de Varine chiama i tre pilastri: territorio, comunità, patrimonio che concorrono allo “sviluppo locale”. Consideriamo che la parola sviluppo entra per la prima volta nella definizione che Icom dà di museo nella IX conferenza generale dell’associazione: il museo è «al servizio della società e del suo sviluppo». Ma anche patrimonio, in questa accezione, come abbiamo già accennato, rappresenta un altro anticipo della stagione patrimoniale dei nostri tempi.

De Varine, già dagli inizi allontana l’ecomuseo da una concezione ambientale o etnologica per ancorarlo allo sviluppo locale. «L’ecomuseo – scrive – è un’istituzione che gestisce, studia, utilizza per scopi scientifici, educativi e in generale culturali, il patrimonio globale di una comunità che comprende la totalità dell’ambiente naturale e culturale di questa comunità. L’ecomuseo è quindi uno strumento di partecipazione popolare alla pianificazione territoriale e allo sviluppo comunitario». «Rimpiango – aggiunge rispetto a quanto scritto nel 1978 – di aver usato la parola istituzione, alla quale preferirei oggi progetto, ma non avevo ancora scoperto che l’ecomuseo è prima di tutto un processo».

Oggi quello che in Italia, forse, si avvicina di più a questa esperienza è l’Ecomuseo del Casilino “ad Duas Lauros” che nasce nel 2010, «un po’ per caso e un po’ per sfida», da un’urgenza precisa. L’abolizione di un vincolo paesaggistico in un quartiere già gravato da problemi di congestione urbana e da cattiva qualità dell’aria, mette in allarme gli abitanti. Dopo una titubanza iniziale, si vede nell’ecomuseo uno strumento di partecipazione alle vicende del territorio. Si vuol proporre così un modello alternativo a quello delle eccellenze monumentali che spuntano, quasi fossero carciofi, nella mappa turistica della città e opporsi alla retorica della bellezza che esclude la pluralità delle estetiche. Sempre da un’urgenza sociale si sviluppa anche l’Ecomuseo delle Acque del Gemonese che accompagna la ricostruzione e la ricucitura del territorio dopo il terremoto del 1976.  

Abbiamo visto finora come parole storicizzate nel lessico del patrimonio abbiano nella pratica ecomuseale un’accezione specifica. Così è anche per comunità, categoria scivolosa e ambigua, che de Varine toglie dalle secche dell’essenzialismo. «Molto semplicemente per me la comunità è un insieme di persone che condividono il territorio in cui vivono».  Al di là dell’apparente linearità della definizione, c’è nell’autore anche la consapevolezza del significato che la comunità ha nella storia del suo paese. «In Francia – scrive – una legge che risale alla Rivoluzione, la Legge Le Chapelier (14 giugno 1791), afferma che la comunità non è un interlocutore politico (…). La Francia non riconosce intermediari fra il cittadino (individuo) e il potere politico (Stato, Comune, ecc.). L’obiettivo, all’origine, era quello di sradicare i vecchi sistemi di organizzazione sociale ereditati dal feudalesimo dalla Chiesa e dalla monarchia: le comunità di villaggio e in particolare le corporazioni (…). La cultura politica francese non ammette quindi né un intermediario legittimo tra cittadino-individuo e potere politico (Comune, Regione, Stato) né la condivisione della responsabilità degli affari pubblici con soggetti non eletti o non nominati».  «Negli ultimi cinquant’anni – prosegue – gli analisti della società francese e molti politici hanno ripetutamente esaltato il vivere insieme, cercando la coesione sociale, promuovendo la solidarietà tra cittadini che potrebbe voler dire rafforzare le pratiche comunitarie e l’azione collettiva. Ma questi discorsi sono immediatamente accompagnati da dichiarazioni che affermano il primato dell’individuo, del cittadino sul gruppo. Ciò spiega perché gli ecomusei in Francia, a partire dagli ecomusei dei Parchi Naturali Regionali (PNR), siano stati e siano ancora essenzialmente musei del territorio emanazione di una volontà politica, amministrativa o di pochi. Anche quando il loro status giuridico è quello di un’associazione, questa è poco rappresentativa e poco mobilitatrice della comunità, cioè artificiosa, altrimenti sarebbe considerata un pericolo per il sistema repubblicano e in concorrenza con il potere locale». 

Ecomuseo Le Creusot

Ecomuseo Le Creusot-Monceau

Modelli, miti e cambiamenti

La lunga citazione, che potrebbe apparire una chiosa eccentrica rispetto al nostro tema, serve in realtà a illuminare la realtà della terra degli ecomusei che ha costituito, a lungo, un riferimento per tanti. In modo particolare penso all’Ecomuseo Le Creusot-Monceau, nella regione della Borgogna-Franche-Comté, a lungo meta di visite di studio. L’ho visitato nel 1987 e leggendo oggi le pagine di Ecomuseo singolare e plurale, mi rendo conto, nonostante l’incontro cordiale e ricco di spunti che ebbi con il direttore Philippe Jessu, di quanto poco ne avessi colto la realtà.  Allora mi colpirono le pilon, il maglio a vapore più potente del mondo, all’ingresso della città, e la vecchia scuola, La Mine et les Hommes, Nella scuola, ancora attiva, erano tre aule, allestite secondo epoche diverse, per dare conto dell’evoluzione della società e del sistema di istruzione. A partire dalla stessa immagine della Marianne che appariva in un busto in gesso nell’angolo di un’aula. Il maestro in pensione, che guidava la visita, fece notare una sottigliezza. La donna che dà immagine alla Francia era qui a seno scoperto. Si trattava della versione dei più accesi sentimenti repubblicani. Lui l’aveva tenuta in classe anche quando non era proprio richiesto.  Quel maestro e i suoi colleghi, che a turno accoglievano i visitatori, mi avevano subito fatto pensare al protagonismo della comunità. E il maglio, incontrato all’ingresso della città, ne manifestava l’orgoglio.  Non aveva tenuto di conto di una realtà, come sempre, più variegata.  

Le Creusot Montceau

Le Creusot Montceau, Les mines Region Cites

Condizionati dalla permanenza del museo, se non dalla sua apparente fissità, ci sfugge che l’ecomuseo è qualcosa di mobile, un processo come il “patrimonio vivente” di cui si occupa. Alcuni ecomusei hanno così cambiato il nome per diventare “musei del territorio”. Altri ancora, pur non essendolo formalmente, agiscono come ecomusei. La cartina di tornasole resta quella dell’utilità sociale. Se non è riconosciuta, «l’ecomuseo serve solo ai fondatori o a un piccolo gruppo di persone che lo animano». Lo stesso ecomuseo di Le Creusot-Monteceau, preso spesso, suo malgrado, come modello, conosce fasi diverse e contraddittorie. Le sue radici risalgono agli anni 1972-73. Dopo poco più di dieci anni di prosperità, nel 1984, l’ecomuseo chiude un «periodo di invenzione, sperimentazione, sviluppo» che aveva visto la consulenza di Georges Henri Rivière, il “mago delle vetrine”,  per il suo lavoro, in modo particolare, al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari a Parigi, da lui fondato nel 1937, e in realtà una delle menti più fervide della scena museografica del Novecento. Poi la crisi, a seguito di quella industriale dell’area.

A partire dal 1989 si ha una rinascita con un nuovo statuto, mentre negli anni Duemila sarà nuovamente una crisi, questa volta finanziaria, a investire l’Ecomuseo che reagirà, nel 2012, ancora una volta, con uno statuto rinnovato rispondendo alle richieste dello Stato. «Anche se era mantenuta la parola ecomuseo, nella realtà era divenuto un museo pubblico a dominante industriale, dedicato alla gestione di una grande collezione. L’Association écomusée si trasformò in Association Patrimonies de la Communauté, basata esclusivamente sul volontariato e senza vocazione all’acquisizione di collezioni». Le Creusot-Monceau è, quindi, esemplare della mutevolezza, quasi costitutiva, dell’ecomuseo sempre in tensione tra il raggiungimento dei suoi obiettivi e l’adeguamento dei mezzi per raggiungerli, nei condizionamenti dei contesti in cui opera. 

Ecomuseo delle Acqua di Gemona

Ecomuseo delle Acque del Gemonese

Il caso italiano

Hugues de Varine dà ampio spazio all’Italia tanto da farne un caso. C’è da chiedersi perché l’ecomuseo abbia avuto qui un tale seguito e quali siano state le componenti del terreno che lo hanno fatto attecchire in modo diffuso. Sarebbero attivi più di cento ecomusei. Credo che si possano, tra altre, ipotizzare almeno due condizioni. L’Italia è un Paese policentrico. La retorica dei paesi e dei territori è nella stessa vicenda storica del Paese che ha avuto anche 8 mila Comuni, senza raggiungere, tuttavia il primato della Francia che è arrivata a contare fino a 44 mila municipi. Ma quello che resta fondamentale è la varietà storico culturale del territorio. Cento chilometri di distanza, spesso, segnalano differenze più marcate che in altri contesti.

Negli anni ’70, soprattutto in ambito educativo, ma non solo – penso alla pedagogia di Francesco De Bartolomeis – vi è un ritorno ai temi del territorio e alle culture locali. Un ritorno favorito anche dal protagonismo degli enti locali a seguito dell’avvio del processo regionale. Sono gli anni, è bene ricordarlo, in cui negli enti locali si costituiscono gli assessorati alla cultura che insieme a una nuova attenzione per biblioteche, musei e teatri sostengono la creazione di luoghi e patrimoni culturali.  Si proiettano, soprattutto, nel territorio. Lo stesso de Varine dà una conferma indiretta di questo quadro.

«Come mai l’ecomuseo, il cui nome è in molti Paesi ancora legato alla sua origine francese ha, per così dire, fallito proprio in Francia? La prima spiegazione – risponde – sta nella storia (…) che fa riferimento al centralismo amministrativo e intellettuale del Paese, assai poco disponibile all’innovazione e alle iniziative dal basso». A differenza della Francia, l’Italia è un Paese dove alla debolezza del senso dello Stato hanno corrisposto una vivacità associativa e una estesa organizzazione dal basso. Potrebbe, pertanto, essere stato questo un humus favorevole allo sviluppo degli ecomusei.

L’altra condizione è, invece, attinente alle vicende del patrimonio culturale. Andrea Emiliani ha messo in evidenza come nella formazione dello Stato unitario e del modello di tutela si sia manifestata «una sorta di rigetto da parte delle popolazioni, di ogni residuo interesse verso i beni culturali» che si sono «identificati e quasi del tutto sovrapposti alla povertà, spesso alla miseria, delle quali essi stessi erano sontuosi ma impotenti testimoni». A questa lunga durata si aggiunge la preminenza che il museo storico-artistico ha avuto in Italia, rispetto ad altri luoghi della cultura, costituendo in alcuni momenti un caso europeo. Una prevalenza che avrebbe inibito in qualche modo un approccio più ampio al patrimonio. L’ecomuseo sarebbe stata così una delle risposte a un’esclusione vissuta in modo più o meno esplicito. A queste condizioni si può, in parte, far risalire anche lo straordinario sviluppo dei musei della cosiddetta civiltà contadina. Nel complesso saremmo di fronte, quindi, pur con tutte le cautele del caso, a un fenomeno di democrazia culturale.

Proprio per questo retroterra, in parte extraistituzionale, può sorprendere un altro primato italiano: quello del primo Paese ad avere leggi regionali per il riconoscimento degli ecomusei. In Italia, come si sa, le Regioni hanno una potestà legislativa concorrente nel campo della valorizzazione dei beni culturali; contribuiscono, cioè, con lo Stato a disciplinare la disciplina. La richiesta di riconoscimento legislativo, fortemente voluta dagli ecomusei, si inscriverebbe, quindi, nella rivendicazione di una specificità ma anche di una parità di trattamento con gli altri musei, a esclusione di quelli statali non disciplinati dalle Regioni.

Altri elementi del caso italiano sono costituiti dall’importanza che viene data al paesaggio, dalla pratica, a partire dagli anni ’90, delle mappe di comunità, ispirate alle parish map sperimentate in Gran Bretagna, e dal lavoro della rete Mondi Locali che ha aperto anche un fronte sul piano della valorizzazione delle produzioni alimentari e artigianali locali. De Varine pubblica, infine, in appendice il “Manifesto degli ecomusei italiani” (2016) che considera il testo «a oggi più avanzato nella definizione di una politica ecomuseale nazionale elaborata dagli stessi ecomusei senza l’intervento dell’autorità pubblica o dei teorici». 

Museo delle Acque di Gemoa, Cantieri del paesaggio

Museo delle Acque deli Gemonese, Cantieri del paesaggio

Un progetto educativo

É più o meno sottotraccia, ma resta evidente, l’importanza che nel libro si dà alla dimensione educativa, anche nel senso di autoformazione civica al patrimonio. L’importanza della sussidiarietà, a cui inopinatamente per il campo museale, più volte ci richiama, ne è un altro segno. L’attenzione non è rivolta, quindi, alla funzione didattica del museo, a quello che Georges Henri Rivere chiamava “il metodo del dito puntato”. Si guarda, piuttosto, a un’educazione attiva, ad «azioni permanenti indirizzate ai giovani e agli adulti» che si sviluppano nel farsi della pratica quotidiana. L’ecomuseo lavora nel territorio, a «un patrimonio integrato, a una comunità partecipativa e a favore dell’ambiente come atto educativo per l’ecosviluppo», secondo le parole della dichiarazione di Oaxtepec (1984).   

Nelle pagine sono poi molti i riferimenti al pensiero e all’opera di Paul Freire, soprattutto per l’influenza che l’educatore ha avuto in Brasile nella proposta di un «museo liberatore» o di «una museologia della liberazione». Da Freire de Varine prende l’idea della “coscientizzazione” che abbina alla “capacitazione”, traducendo dal portoghese il termine che indica il processo che fa le persone capaci di comportarsi in modo autonomo e di acquisire “saper fare”.   Ma la tensione educativa è comunque sempre presente e si rileva anche nell’eterno e discusso tema del turismo, quando riappare nelle forme compatibili per l’ecomuseo di turismo sostenibile o di vicinato. Sul tema, “ampio e spinoso”, lo definisce, l’autore ha una posizione pragmatica che stronca la retorica del turismo cui spesso si ricorre per giustificare un’impresa culturale. É molte volte una pretesa illusoria perché il patrimonio «spesso non è così spettacolare da giustificare flussi turistici di massa, in grado di contribuire in modo significativo all’economia locale, al di là di ciò che esisteva già prima dell’ecomuseo». Si lavori piuttosto, dice, sull’educazione dei visitatori. É un fronte di impegno che è stato aperto, a esempio, da Matera quando nel 2019 si è impegnata, da capitale europea della cultura, a considerare il turista come un “abitante temporaneo” con gli stessi diritti e doveri degli altri abitanti.

Il tema dell’educazione risalta, peraltro, nel momento in cui la funzione educativa del museo è stata messa in discussione nella tormentata e non ancora conclusa vicenda della nuova definizione di museo da parte di Icom. 

Ecomuseo Casilino

Ecomuseo Casilino

Una conclusione

Se si dovesse fare un bilancio dell’esperienza degli ecomusei, il risultato più evidente sarebbe sicuramente quello dell’influenza, non sempre riconosciuta, che hanno avuto sul mondo dei musei, anticipando spesso visioni e pratiche, anche contro facili infatuazioni. Si pensi, a proposito, alla retorica della partecipazione e ai pubblici che la museologia comunitaria ha declinato in modo più profondo di quanto si veda correntemente nei luoghi di cultura.  L’ecomuseo può aver, quindi, disatteso molte promesse della sua missione ma resta indubbio il valore esemplare che ha avuto nel formulare le ragioni di un museo nuovo.

Auguriamoci che questo impegno continui anche con i riconoscimenti e gli accreditamenti dei musei che caratterizzano l’attuale stagione, soprattutto in Italia, e che non sempre corrispondono, nonostante le enunciazioni di inclusività, a ragioni di qualità reale. In questo senso il lavoro di de Varine è un utile strumento per procedere nel mondo dei patrimoni, con la consapevolezza che si ha cultura là dove si organizzano le diversità. «La combinazione dei patrimoni, che non è un meticciato, è un buon metodo».

«Un anti manuale – lo definisce Daniele Jalla – che, per l’antidogmatismo di fondo del suo autore, è il miglior manuale che ci si potesse aspettare in un campo privo di regole certe, condizionato dalla specificità dei contesti e dalle mille variabili che intervengono nell’applicazione dei princìpi che lo fondano, prima fra tutti la qualità, umana e professionale, dei suoi protagonisti, la loro singolarità e pluralità».   

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022

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Claudio Rosati, autore di musei, saggista e docente di Antropologia museale e Comunicazione dei Beni Culturali in corsi universitari. Presiede il collegio dei probiviri dell’International Concil of Museum-Comitato italiano ed è socio fondatore della Società Italiana per la museografia e i Beni Demoetnoantropologici. Ha diretto il settore Musei della Regione Toscana. Ha pubblicato recentemente presso i tipi di Edifir, Amico Museo. Per una museologia dell’accoglienza.

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